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sabato 7 luglio 2012

Alex Fedele: La mostra dei dolci #45 (seconda stagione)


LA MOSTRA DEI DOLCI

PROLOGO: Al ritorno da Vicchio i nostri eroi si cimentano in un'avventura dove arte, gusto, odio e sentimenti repressi si mescolano in un tutt'uno. Perchè alla fine a cuore aperto è tutto più facile!





CAPITOLO I – Cuore aperto

E’ incredibile come il tempo sia relativo. Prendete il nostro caso. Erano passate soltanto venti ore dall’avventura a Vicchio, ma i ricordi, spesso vendicativi e decisamente troppo limpidi, erano ancora presenti nelle menti di tutti noi e probabilmente lo sarebbero stati per molto tempo.
Luana era rimasta ferita ad una spalla e si era dovuta fermare, per forza di cose, in ospedale. Con lei era rimasta la polizia, mentre tutti noi eravamo tornati a Torino in fretta e in furia. Anche Claudio e Antonio lasciarono Vicchio per far ritorno in quel di Padova. Non fu facile convincere Denise a venire con noi a Torino, ma alla fine si convinse grazie al volere di Luana.
«Vai con loro, io sto bene» le aveva detto. «Farai un viaggetto, ti rilasserai e non interromperai il praticantato. Flavio è un ottimo elemento e inoltre vedo che hai già fatto amicizia con Alex».
Lei dapprima arrossì un po’, poi mi guardo con la coda dell’occhio e annuì in modo poco convinto.
D’altronde era di sicuro la soluzione più convincente. Rimanere in Toscana non sarebbe servito a niente. E non sarebbe stato utile nemmeno tornare da sola a Verona. Era sola e Luana non poteva certo aiutarla. Per la via del ritorno domandai a Flavio se Luana ce l’avesse fatta da sola per giorni in un ospedale, senza conoscere nessuno. Quando glielo dissi pensavo che Denise stesse dormendo, ma lei mi stoppò subito dicendomi: «Non conosci Luana». Guardai Flavio e lui guardò me. Poi annuì convinto.

Tornammo a Torino con un’altra auto a noleggio, fummo a casa per mezzogiorno e non pensammo a nient’altro che a dormire.
Per fortuna la camera degli ospiti era libera e stava messa abbastanza bene. Denise si accomodò lì.
Dormii fino alle sei del pomeriggio.
Il bagliore candido e lucente del tramonto avvolgeva il mio corpo inerme sul letto. Me ne stavo ad occhi chiusi cullandomi in quei dolci momenti e cercavo di non pensare in alcun modo al caso, ma non ci riuscii. Ricordavo Claudio e rivedevo Denise. Sentivo ancora le urla del gruppo al ritrovamento del primo cadavere e riascoltavo il mio urlo liberatorio quando dovetti scansare Denise dall’auto che stava per esplodere. Ricordavo tutto, ogni singolo particolare, e la cosa peggiore era che probabilmente lo avrei fatto per sempre, con ben poche pause.
«Sherlock, sveglia» mi sussurrò una voce calda e dolce.
«Mhmm …» sussurrai a mia volta cercando di non svegliarmi.
«Poirot, Dupin … insomma, come devo chiamarti per farti svegliare?».
Vedendo che quella voce insisteva aprii delicatamente gli occhi. I residui della polvere di Morfeo mi erano rimasti ancora sulle palpebre e non volevano andarsene. Cercai di motivare gli occhi a riaprirsi, ma questi rifiutavano dandomi quasi del “matto”. Alla fine vinsi io, e riaprendo gli occhi, mi ritrovai di fronte Denise. Aveva i lunghi capelli biondo cenere che le cadevano sulle spalle. Brillavano in modo esagerato sotto il solee per un momento mi domandai se non fossi sbronzo. Gli occhi neri mi fissavano in una espressione mista tra dolcezza e soggezione. Scostai con il braccio le coperte e feci un impercettibile balzo all’indietro.
«Ehi …» riuscii a dire ancora assonnato.
«Ehi, buongiorno … oh be’, per modo di dire …» rispose.
«Già».
«Ecco …».
«Che cosa ci fai qui? Hai … hai qualche problema?».
«No e sì …».
Mi sedetti sul letto e lei fece lo stesso. Salì su di esso e incrociò le sensuali gambe sedendosi di fronte a me. Per un attimo divenni rosso come un pomodoro. Pur essendo appena sveglia era di una bellezza imbarazzante e il fatto di essere vestita solo da un pantaloncino corto aderente ed una canottiera verdino chiaro che ne risaltava le forme, accentuava ancor di più il mio imbarazzo. Per un attimo, prima di parlare, mi fissò come se dovesse essere in procinto di parlare con un perfetto idiota. Magari avrà pensato di trovarsi di fronte uno che non aveva mai visto le gambe di una ragazza o qualsiasi altra cosa simile.
«Che c’è? Ti imbarazzi?» mi domandò sfrontata.
«Eh? Ma no! Che dici?!».
«Un po’ sì, dai …» disse lasciandosi scappare un risolino malizioso.
«Passiamo a te» la stoppai. «Spero avrai una buona ragione per svegliarmi a quest’ora …».
«Ma quale ora? Sono le sei del pomeriggio!».
«Lo so, ma sono andato a letto circa sei ore fa e francamente sono distrutto». Mi toccai i capelli e le tempie e notai il suo silenzio glaciale. Chiusi gli occhi, me li strofinai, poi li riaprii e vidi che mi fissava con aria interrogativa.
«Che cosa c’è? Ho qualcosa in faccia?».
«Togliendo l’espressione da stupido, l’aria da tonto e il miscuglio di sonno e spossatezza … direi di no, è tutto a posto».
«Ah, grazie tante …».
Seguì un silenzio intenso. Guardai le sue gambe, il suo corpo e poi i suoi occhi incontrarono i miei.
«Senti … non voglio che pensi chissà cosa … sono venuta qui per …» si fermò un attimo. Guardandosi attorno una ciocca di capelli le cadde sugli occhi e lei se la scostò con tutta la delicatezza del mondo.
«Non ho ancora avuto modo di ringraziarti per … per ieri notte … insomma …».
La guardai e arrossii un po’. Poi abbassai gli occhi e mi scappò un sorriso.
«Sei venuta qui per questo?».
«Sì … spero non ti abbia creato disagio».
«Mi crea disagio il fatto che tu mi ringrazia».
«Bella questa …» asserì accennando ad un sorriso. Il bagliore del tramonto le rischiarava i capelli e dava alla circostanza un qualcosa di quasi epico. Non so spiegarvelo bene a parole, avreste dovuto vivere quella situazione. Conoscevo Denise da circa ventitre ore, minuto più, minuto meno, e mi sembrava di poterle dire qualsiasi cosa. Nelle ore trascorse insieme si era dimostrata così alla mano e così poco incline al non socializzare che mi sembrava di conoscerla da anni. E poco importava se non era vero. Le persone che ti fanno stare bene, quelle con le quali parli a ruota libera, quelle che ti fanno sorridere o che ti fanno pensare, quelle sono da tenersele strette. E se Denise avesse voluto essere mia amica per sempre, ne sarei stato più che felice, sono sincero.
«Devi sapere» continuò a parlare tenendo gli occhi bassi e aggiustandosi i pantaloncini «che è la prima volta che qualcuno fa qualcosa per me …».
«Uh?».
«Eh sì …».
«Non capisco … che vuoi dire?» dissi spaesato.
«Eppure dovresti …».
«Continuo a non afferrare …».
«Conosco la tua storia. I problemi col Fuoco Re, l’omicidio di tuo padre e tutto il resto».
Per un attimo ebbi un fremito allo stomaco. La rabbia salii dentro di me come un ascensore improvviso e i miei occhi divennero rossi.
«Mi spiace» disse. E mi calmai. Due parole dette nel modo più sincero possibile. Due sole parole che davano senso a quanto volevo sentirmi dire.
«Chi te l’ha raccontato?».
«Me ne ha parlato Flavio mentre facevamo ritorno a Torino. Stavamo parlando di lui e così il discorso, senza volerlo, è finito su di te».
«E io che facevo?».
«Prova un po’ a indovinare».
«Dormivo, eh?» dissi sorridendo.
Mi rispose con un altro sorriso.
«Ti da fastidio che lo sappia anch’io?».
«Figurati. Mi da fastidio che tu mi abbia ringraziato. Non è stato nulla di speciale e …».
«Oh sì che lo è stato. Per una abituata a crescere nella violenza, lo è stato eccome».
«Per una …».
«Abituata a crescere nella violenza … sì …».
Non le domandai mai cosa volesse dire. Me lo spiegò lei stessa.
«Quando tuo padre è alcolista, con la violenza stabilisci un legame diretto».
«Alcolista … vuoi dire che …».
«Mio padre era un fottuto alcolista, sì».
«Non dovresti …».
«Non dovrei parlarne così? Diamine Alex!» urlò.
Le feci segno con la mano di zittirsi. Così svegliava tutta la casa.
«Scusami» fece mentre si scostava un’altra ciocca di capelli. «Il fatto è che» continuò carezzandosi i polpacci «non ho rispetto per lui».
«E perché? Perché amava bere?».
«No. Perché il liquido che gli finiva nel sangue produceva altro sangue».
Non capii immediatamente. Poi la guardai negli occhi per un secondo. Erano colmi di lacrime e da lì a poco sarebbero esplosi in un pianto drammatico.
«Che schifo» sussurrai. Mi pentii di averlo fatto, credevo di averla fatta grossa, ma lei mi rasserenò.
«Quel pazzo picchiava mia madre e i suoi figli fino a farli scoppiare. Non merita il rispetto di nessuno».
«Ti ha mai picchiata?».
Annuì lievemente, quasi con paura.
«Che follia» commentai.
«Ci picchiava ogni sera. Ogni benedetta sera si ritirava a casa ubriaco fradicio. Si era svuotato con tutte le donnine del bar in cui andava e poi voleva finire di sfogarsi con noi …». Era quasi impressionante sentir parlare una diciottenne in quel modo. Il suo linguaggio era talmente composto da sembrare perfetto, ma in realtà non lo era affatto. Stizza e frustrazione erano i sentimenti dominanti.
«E adesso dov’è?».
«All’inferno» rispose fredda.
«E’ morto?».
«Da due anni ormai. E’ morto nel modo più consono alla gente come lui».
«E sarebbe?».
«Coma etilico».
«Mi … mi dispiace molto e …».
«Non dispiacerti Alex, detesto il falso moralismo».
«Ma io non sto fingendo. Mi spiace davvero per …».
«Ed io ti dico che è inutile dispiacerti. Una persona che ha fatto del male come lui non può avere la pietà di nessuno».
«E i tuoi fratelli? Dove sono?».
«Paolo sta lavorando in Australia. E’ un odontoiatra».
«Uao!» esclamai ammirato. «Ma quanti anni ha?».
«Ventinove. Poi c’è Sara che studia veterinaria in Sicilia e infine Giampiero studia ingegneria negli USA».
«Anche mio fratello sta lì a studiare, ma lui si occupa di architettura».
Non rispose nemmeno. Probabilmente non le importava ed era del tutto comprensibile.
«E tua madre?».
«Mia madre era fantastica qualche anno fa …».
In quel momento non dissi neanche “mi spiace”. Mi limitai a tirarla per le braccia e a spingerla verso di me. La abbracciai forte e per un attimo mi parve che i nostri corpi si fondessero in un tutt’uno. Mentre era nella mia “morsa”, ansimava in modo copioso. Forse cercava di trattenere un pianto, chissà.
«E ora cosa fai?» mi domandò tanto dolcemente da farmi mollare l’abbraccio.
«Be’ …» sussurrai imbarazzato. «E’ stato un istinto».
«Davvero? O volevi consolarmi perché pensavi mia madre fosse morta?» disse sorridendo stranamente.
«P-pensavo?».
«Alex, mia madre è viva e vegeta!».
Feci un ulteriore balzo all’indietro. «Eh?! Ma come mai hai parlato di lei al passato?!». Avevo cominciato a sudare freddo. Che figuraccia!
«Non mi hai lasciato finire. Stavo dicendo che mia madre era fantastica qualche anno fa in fatto di bellezza. Ora è un po’ appassita».
Che gaffe che avevo fatto! L’avevo abbracciata per consolarla della questione di suo padre, ma anche perché pensavo che sua madre fosse già morta!
«Tutto ciò che ho vissuto con mia madre è stato semplicemente stupendo. E’ … è come quando ci sono i fuochi di artificio. Lei è una donna meravigliosa, piena di energia, espansiva».
«Ti capisco» le sussurrai carezzandole una guancia.
«Ascoltami» disse prendendo le mie mani. Le sue erano fredde e screpolate dalla serata precedente. «Ho saputo che Claudio ti aiuterà con il Fuoco Re».
«Sì, è vero».
«Ti devo la vita, Alex e …».
«Alt. No, non permetterò che ti invischi in questa brutta situazione. No. C’è già Claudio che è di troppo».
«E perché no? Claudio c’è. Io voglio solo ripagarti del fatto che …».
«Che ti ho salvato la vita? Dannazione, non hai nessun debito. Sarebbe stato anormale se non avessi provato a salvarti».
«Lo so, ma forse adesso sarei morta, che ne sai? Io» continuò a parlare toccandosi i soffici capelli «voglio solo contribuire alla giustizia».
«Ma sei una detective. Collabori quotidianamente e puoi assicurarla quotidianamente».
«Ma io voglio fare qualcosa di più, capisci? Qui stiamo con gente che ha ucciso migliaia di persone e che ha rovinato la vita a tantissimi innocenti. E tu sei uno di quelli! Non posso star ferma se un mio amico ha bisogno di aiuto. Ti voglio aiutare e non potrai impedirmelo, chiaro?».
«Ci proverò però …» dissi sorridendole. «Ti prego, non farti male» le sussurrai mentre l’abbracciavo di nuovo.
«Attento a non farti male tu …» mi rispose ironica.
Nel mentre della situazione entrò Bianca. Non bussò nemmeno e la porta si spalancò.
«Alex, papà ha detto che …» si interruppe vedendo Denise con me. Mi guardò per un attimo e vidi in lei tanti sentimenti diversi. C’era imbarazzo, c’era sorpresa e tanto altro. Nemmeno il miglior detective può decifrare il cuore di una persona.
«Io … mi dispiace di …» balbettò ad occhi bassi. Guardai Denise e vidi che non era per niente imbarazzata, anzi, sembrava quasi divertita dalla cosa.
«E di che … non …» provai a dire.
Ma mi interruppe alzando il tono di voce. «Quando siete pronti … tra poco si cena perché … papà ha ricevuto un invito ad una mostra dolciaria e aveva intenzione di portarci stasera stessa». Pronunciò queste parole ad una velocità quasi anormale, poi chiuse la porta e sentii i suoi piccoli passi allontanarsi.
Mi toccai i capelli e feci una smorfia di frustrazione. E se adesso ce l’aveva con me?
Vidi Denise ridacchiare e le domandi, anche parecchio adirato, cosa avesse da divertirsi tanto.
«Niente, niente. E’ che adesso crede che stiamo insieme, capisci?».
«Noi due?!».
«No, Topolino e Minni … che domande … noi due!».
«Ma … perché?».
«Sarai anche un bravo investigatore, ma in quanto a donne non ne capisci nulla».
«Grazie mille, molto confortante» le risposi sarcasticamente. Poi alzai il tono della voce. «Perché avrebbe dovuto pensare una cosa simile?».
«Uh? Calmati amico. Insomma, guardiamoci. Siamo in pigiama, sul letto, uno di fronte all’altra. Quando è entrata ci ha visti abbracciati. Il tramonto alle spalle che fa bagliore … ».
«Oh mio Dio …».
«Che c’è? Sei preoccupato?».
«Io? Per niente!».
«Sei bugiardo».
«Ma cosa vai dicendo?».
«Ti  piace, non è vero?».
La guardai fissa negli occhi per un istante. Aveva occhi così vispi che ero sicuro che stesse per prendermi in giro. «Andiamo a prepararci, su».

CAPITOLO II – Dolci e veleni

Misi su una maglietta ed un vecchio jeans tutto logoro. Prendemmo l’auto e ci dirigemmo appena fuori città. «Dovevano invitarti proprio oggi?» domandai a Flavio mentre eravamo in auto».
«Che ci posso fare? L’organizzatore è un vecchio amico di mia moglie e mi spiaceva rifiutare».
«Quindi rincontrerai questo vecchio amico della mamma ... » disse Bianca.
«Non so, anche perché è uno dei pasticcieri in gara. Il posto in cui andiamo è un prestigioso torneo di pasticcieri e artisti dolciari. Si svolge una volta l’anno ed è molto sentito nell’ambiente».
«Oh, che peccato».
«Non crucciarti» le dissi «sarà per un’altra volta».
«Già, perché tu pensi ci sia sempre un’altra possibilità, non è vero?». Mi fece rimanere immobile come un perfetto imbecille. Cosa voleva dire con quella frase? La guardai e notai che si era completamente disturbata al momento del mio rivolgerle la parola.
Per un momento Flavio si distolse dalla guida e mi guardò interrogativo. Andrea fece lo stesso, mentre Denise ridacchiava. Avreste dovuto vederci. C’eravamo io e Flavio davanti, Bianca e Denise dietro con Andrea al centro.

«Sono contento abbiate accettato l’invito» ci disse un uomo sulla quarantina con lunghi capelli castano chiaro. Era naturalmente un pasticciere e portava un grembiule talmente bianco da poter considerare quel colore come unico al mondo.
«Federico Marello!» esclamò Flavio. «Federico Marello!» ripetè. «Chi l’avrebbe mai detto che saresti riuscito nel tuo grande sogno? Già da ragazzo sognavi di fare il pasticciere, ricordi?»
«Certo che sì. Ce l’ho fatta a quanto pare».
«Puoi dirlo forte. Non è da tutti concorrere per un premio così … ehm … a quale premio ambisci, scusa?».
Che figuraccia …
«Sono in gara per essere nominato pasticciere piemontese dell’anno. Se vincerò, potrò partecipare al concorso per il pasticciere italiano dell’anno e se vincerò ancora andrò a giocarmi gli europei di categoria a Londra».
«Hai capito … e pensare che credevo rubassi le ricette al signor Grianti» disse sarcasticamente una voce ruvida e incisiva. Proveniva da un uomo alto circa un metro e ottantacinque con capelli impomatati dal gel e dal portamento quasi nobile, un fascio di muscoli impressionante. Portava una valigia piuttosto voluminosa. A vista d’occhio doveva pesare sicuramente parecchio.
«Piantala di dire cavolate, Marco. Lui è Marco Pizzeli, si occupa di granite, dolci freddi, macedonie artistiche e roba di questo genere».
«Mi conoscono sicuramente. In tv hanno trasmesso anche le prove del concorso e ti ricordo che sono stato il primo ad arrivare qui e che sono colui che ha prestato più ore di allenamento all’interno di questo edificio. Non c’è bisogno che tu …».
«Ti conoscono? Non dire eresie» annunciò una voce femminile. La ragazza era minuta e con i riccioli. Indossava occhiali da vista molto grandi.
«Tu stai zitta Annalisa. Solo perché tuo padre è Vito Scores, non puoi permetterti di criticare un genio come me. Sei una raccomandata, lo sappiamo tutti».
«Lei deve stare zitta? Senti» cominciò un altro pasticciere. Era fisicamente prestante e teneva tra le mani uno strofinaccio. «Quante donne ti sei portato a letto per arrivare fin qui?».
«Ma come ti permetti, razza di immaturo!».
«Ragazzi, calmatevi. Litigare non serve a nulla» chiarì un altro artista dolciario. Era un tipo decisamente strano. Era completamente rasato e aveva canottiera e jeans sotto il grembiule. «E tu Armando» disse interpellando il pasticciere con lo strofinaccio «cosa vuoi saperne di pasticceria? I tuoi dolci secchi valgono meno di zero. Risparmia le critiche per te stesso».
«Senti chi parla. Il tuo nome non lo conosce nessuno in questo ambiente. Faresti meglio a tacere».
«Forse è vero … ma tra due anni starò a giocarmi gli europei a Londra, parola di Elia Scodelli. A differenza tua, naturalmente».
«Perdonateci» disse Federico. «Non siamo sempre così competitivi. Purtroppo è la tensione del momento che porta a dire queste cose».
«Oh, capiamo benissimo, non preoccuparti» rispose Flavio.
«Che cos’ha il signor Pizzelli in quella valigia?» domandai a Federico.
«I suoi arnesi da lavoro. Dice che lavorare con il ghiaccio è come lavorare con il cemento armato e dunque ha bisogno dei suoi attrezzi. E’ solo un fanatico».

Non ne capisco niente di arte e non ne capisco niente di dolci, se escludiamo la parte di degustazione, che tra l’altro casualmente è anche la mia preferita, ma devo ammettere che ciò che vidi quella sera mi piacque molto. Ogni artista dolciario era impegnato con la sua opera e profumi di ogni tipo avvolgevano il grandissimo edificio in cui ci trovavamo. Marzapane, mandorle, cioccolato di tutti i tipi e dimensioni, caramelle, mousse miste, tutto si amalgamava alla perfezione con l’ambiente.
«Non ti fanno venir fame tutti questi dolci?» domandai a Bianca.
Mi guardò con aria di sufficienza, poi prese Andrea per la mano e gli disse:
«Vieni piccolo, andiamo a vedere le creazioni dei pasticcieri. Qui c’è brutta aria».
Una volta che quei due si erano allontanati sbuffai.
«Non ti va giù, non è vero?» mi chiese Denise.
«Per niente».
«Perché ti piace, dai».
«Ancora con questa storia? Ma la volete piantare, tutti quanti?».
«Ammettilo detective, ci stai male».
«Io non ci sto male, è solamente paura di rovinare un bel rapporto d’amicizia».
«Molte persone entreranno ed usciranno dalla tua vita, ma soltanto i veri amici lasceranno delle impronte indelebili sul tuo cuore».
La fissai come un idiota.
«Frase da cioccolatino?».
«Ignorante. Roosevelt».
«Ma tu parli solo per aforismi?».
«Non è vero, anche se li trovo molto significativi».
A parte quell’assurda situazione le creazioni dolciarie dei concorrenti erano strepitose. C’era un tizio che aveva creato una composizione di frutta usando caramelle gommose modellate. Federico aveva dato sfoggio della sua abilità riuscendo a comporre una ballerina di samba brasiliana con l’ausilio di mandorle e scaglie di cioccolato nero. Era straordinariamente bella. Anche gli altri artisti che avevamo conosciuto non erano da meno. Marco Pizzelli creò una farfalla gigante grazie alla sua abilità nell’intagliare ghiaccio e nel creare granite. Era talmente bella da sembrare vera. Il rosso e il verde erano stati assicurati grazie a spruzzate di fragola e menta forte. Armando aveva ricostruito una bellissima scenetta quotidiana usando biscotti secchi. Grazie a loro infatti, aveva dipinto la scena tipica dei bambini che vanno a scuola. Anche Annalisa e Elia non furono da meno. Crearono rispettivamente una zebra fatta di panna e cioccolata ed un enorme ghirlanda fatta di dolci caramellati.
«Che meraviglia!» esclamò Bianca soffermandosi su una statua interamente di ghiaccio.
Furono le ultime parole prima dell’orrore.

La stanza venne inghiottita dal buio e la sensazione era che stesse per accadere qualcosa di negativo.
«Cosa succede?» gridò più di una persona. Eravamo completamente nell’oscurità. Nel pieno nero si fecero largo tante parole diverse. C’erano i bambini che avevano paura, le madri starnazzanti che gridavano allo scandalo per far vincere un concorrente invece che un altro e c’erano gli organizzatori che invece tentavano di assicurare che la gara sarebbe ripresa in pochi secondi. Nel buio si udì anche un urlo agghiacciante e poi un tonfo, anzi due. 
Non appena udito l’urlo cominciai a correre a vuoto nel buio. Non sapevo dove andare ma stare fermo era contro tutti i miei impulsi  Ad un tratto mi scontrai violentemente con qualcuno che aveva avuto la mia stessa idea. L’urto fu talmente forte che venni sbalzato ad almeno un metro di distanza e lanciai un urlo come se fossi appena caduto dall’ottovolante.
Le luci si riaccesero soltanto pochi secondi dopo e ciò che trovammo davanti ai nostri occhi fu uno spettacolo decisamente poco piacevole. Armando, il pasticciere esperto in composizioni di dolci secchi, era disteso sul pavimento, inerme nei pressi del suo piano cucina e aveva una profondissima ferita alla testa dalla quale zampillava sangue a non finire. Le urla dei presenti fecero da contorno al macabro spettacolo, mentre gli organizzatori riuscirono a far allontanare tutti alla velocità della luce annunciando “l’immediata sospensione della gara a tempo indeterminato”.
Inutile dire che fu chiamata la polizia e che arrivò più svelta di un treno merci.

CAPITOLO III – Gli intenti del colpevole

L’ispettore Ducato e l’agente Giuseppe Novato arrivarono in un battibaleno. Tutti e due avevano l’aria dei lavoratori instancabili, l’aria di chi viveva per e con il suo lavoro, l’impressione di chi non si fermava da un bel po’. La camicia dell’agente non era stirata e le maniche svolazzavano in ogni gesto che compiva. Per l’ispettore era anche peggio. Il lungo cappotto di panno nero lo vestiva in modo apparentemente elegante, ma la vera figura dell’ispettore si rivelava una volta che questo si metteva da parte. Una cravatta completamente maltrattata era il preludio di un modo di vestire  agitato e confuso, senza troppi fronzoli. La camicia, per la verità non più bianchissima, ne accentuava ancor di più l’aspetto trasandato. La barba incolta di una settimana completava il quadro.
«Allora? Cosa succede qui?» esordì già nervoso.
«Ispettore, che piacere!» lo salutò Flavio.
Lo guardò con aria di sufficienza. Poi ripeté la domanda di prima, solo in tono più marcato. Dopo che Flavio gli aveva esaurientemente spiegato tutto, lo guardava ancora male e inarcando un sopracciglio gli disse di togliersi di mezzo.
«Io sono contento di lavorare con lei, non fraintenda».
«Vabbè … adesso occupiamoci del caso che è meglio».
La scientifica, arrivata pochi minuti dopo Novato e Ducato, analizzò immediatamente il corpo. Bastarono pochi minuti per redigere un referto e consegnarlo a Novato.
«Novato, leggi ciò che ha scritto la scientifica» incitò l’ispettore.
«Bene … qui si legge che la vittima si chiama Armando Estrali, aveva quarantaquattro anni e di professione faceva il pasticciere artistico. Il decesso è avvenuto circa mezz’ora fa a causa di un colpo alla tempia provocato da un corpo contundente sconosciuto, ma presumibilmente molto pesante. Per ora è stato analizzato solo questo, ora sono in corso le indagini ispettore».
«Bene» disse Ducato sfregandosi le mani «Poi si voltò verso di noi. Incontrò il mio sguardo grintoso, quello adrenalinico di Flavio, l’innocente di Andrea, lo spaventato di Bianca e quello quasi indifferente di Denise. Si avvicinò a lei e domandò a Flavio chi fosse.
«E’ un prodotto del PSD, si chiama Denise … ehm … come fai di cognome, scusa?».
«Mi chiamo Denise Diamelli ispettore. Vengo da Verona».
«Piacere. Perché sei qui, ragazzina?».
«Il mio tutor ha avuto un incidente».
«Chi è il tuo tutor?».
«Luana Siamese, la conosce?».
«Altroché! Abbiamo anche lavorato insieme, dannazione! Che tipo di incidente …».
«E’ stato un incidente con un caso. Se lei permette, non mi va di parlarne. Preferirei dare una mano dove serve».
Chiara e coincisa, la ragazza.
«Ok …» asserì Ducato un po’ perplesso. Forse non si aspettava che una ragazzina potesse avere così tanto carattere. Poi riprese a parlare.
«Abbiamo fatto un po’ di indagini preliminari e abbiamo scoperto che in questo concorso ci sono circa tre persone che avevano risentimento verso la vittima. Si tratta di Marco Pizzelli, Elia Scodelli i e Annalisa Scores. Confermate signori?» domandò loro.
«Per niente! Ispettore, chi le ha detto una cosa simile?».
«I fatti me l’hanno detto, signor Pizzelli. Non è forse vero che lei doveva un’altissima somma di denaro alla vittima? Abbiamo indagato e uno dei nostri agenti ci ha detto che aveva ricevuto un prestito di cinquantamila euro, un capitale enorme».
Pizzelli abbassò lo sguardo.
«E dica, cosa ci ha fatto con quei soldi?».
«Ho … ho fatto il mutuo per la casa. Io e la mia ragazza ci siamo sposati da poco e … sa come vanno queste cose. Ma questo non prova nulla! Io non avrei mai potuto uccidere Armando!».
«Questo lo dicono tutti … passiamo a lei signor Scodelli. Ho saputo che ultimamente era parecchio in conflitto con la vittima, non è vero?».
«A dir la verità sì …».
«Le aveva … le aveva rubato una ricetta,  non è vero?».
«Sì, ma comunque non sarei mai stato capace di ammazzarlo. Invento decine di ricette alla settimana».
«E poi c’è lei signorina Scores. Lei è figlia d’arte, giusto?».
«Sì, la mia famiglia fa questo lavoro da tre generazioni».
«Si dice in giro che lei abbia litigato più volte con la vittima. In particolare gli amici di Armando ci hanno detto che lei continuava a rifiutarlo e che il mese scorso siete addirittura arrivati alle mani,  non è vero?».
«Gli ho tirato uno schiaffetto … nulla di più».
«C’è anche un’altra ipotesi da considerare, ispettore» intervenne Flavio.
«E quale sarebbe?».
«Be’, l’omicidio è avvenuto al buio e l’assassino sapeva sicuramente come muoversi. Dobbiamo quindi per forza notare, che le postazioni di gara dei sospettati sono tutte vicino alla vittima».
«Anche questo è vero» asserì Ducato. «Ciò vi catapulta ancor di più nel vuoto. Facciamo così … il colpevole confessi subito».
«Aspetti un momento! Non può stilare una lista dei sospettati con solo questi elementi!» disse Elia Scodelli.
«Tutti i rapporti che aveva la vittima portano a voi. La dinamica dell’omicidio, che a quanto mi dicono è avvenuto con tutta probabilità al buio, implica nel coinvolgimento un’azione veloce, dinamica. Le vostre postazioni sono quelle più vicine al luogo del ritrovamento del corpo, dunque potendo, avreste potuto commettere il delitto».
«E cosa mi dice di Federico? Anche lui avrebbe potuto commettere il delitto!» disse Scodelli.
«Elia! Come puoi pensare questo?!» rispose l’interpellato.
«No, mi spiace, lei sbaglia. Fonti dell’edificio hanno già confermato che al momento del blackout il signor Marello si è assentato per andare in bagno. E’ stato visto da tutti gli addetti ai lavori».
«Storie! Non …».
«Non un’altra parola signor Scodelli. Il signor Marello era dall’altra parte della stanza e in più c’è il suo alibi a tener banco.

«Ispettore» disse un tizio della scientifica.
«Mi dica agente».
«Volevo solo avvertirla di alcuni particolari rinvenuti sul corpo della vittima. Sui suoi capelli, infatti, abbiamo ritrovato una sostanza appiccicosa».
«Una sostanza appiccicosa?» domandò Ducato sorpreso.
«Già» proseguì l’agente leggendo il referto che teneva in mano. «Inoltre siamo rimasti basiti nell’esaminare il corpo della vittima».
«Uh? E perché?» domandò Flavio.
«Be’, detective … i capelli della vittima ci risultano bagnati».
«Bagnati?! Ma non è possibile!».
«Oh sì che lo è. Se vuole può venire a controllare. Ora faremo degli esami più approfonditi, ma …».
Flavio guardò profondamente l’agente negli occhi. Poi emise una sorta di «uff» incontrollato e acconsentì alla tesi del funzionario di polizia.

CAPITOLO IV – Gelosia e odio

Quante domande mi facevo nella mia testa!
 Cosa significavano i capelli bagnati della vittima? Eravamo al coperto e non era possibile prendere in considerazione un fenomeno esterno. Certo, avrei capito se avesse avuto qualche incidente, ma questo non era stato il caso di Armando.
Incontrai lo sguardo di Marco. Si teneva fortemente il braccio sinistro. Lo aveva avvolto in un fazzoletto di stoffa.
«Che cos’ha fatto al braccio?» gli domandò Denise, incuriosita quanto me.
«Io? Ecco … in cucina prima mi sono … mi sono fatto male».
«Ma prima non era affaticato».
«Oh, non ci hai fatto caso. E’ dall’inizio della serata che ho il braccio in queste condizioni».
Una volta che Marco si era allontanato, notai Denise pensierosa.
«Che cos’hai?» le domandai.
«Niente, niente … qui il detective in servizio sei tu».
Feci un risolino ironico, quasi isterico. «Cosa vuol dire questo? Hai notato qualcosa? Se è così devi dirmelo, perché …»..
«Io dico solo che quel Marco è da tener d’occhio».
«Già …» asserii voltandomi per guardarlo. Notavo in lui qualcosa di strano, ma non riuscivo a capire cosa. Pensai velocemente a tutta la serata. Con gli occhi spenti rivedevo ogni singola scena, dall’incontro con i pasticcieri in gara fino al dialogo con Denise avvenuto pochi secondi prima.
I miei occhi si accesero d’entusiasmo quando capii la verità. In quel momento compresi anche di essere un perfetto idiota.
«Vergognati» dissi a me stesso. «Come detective non vali un sandalo bucato» mi ripetei. «Dovevi capirlo da mezz’ora» proseguii.
Guardai ancora per un attimo la polizia cercare di districarsi dalla faccenda. Ora avevo capito anche il senso dei capelli bagnati e appiccicosi. Non poteva che essere lui l’assassino, che stupido!
«Dovete venire con noi» comunicò Ducato ai sospettati. «Per stanotte rimarrete tutti in commissariato e poi domattina stringeremo il cerchio».
Inutile dire che ci furono tante lamentele tanto da poter riempire di scartoffie tutti gli uffici reclami dell’Italia.
«Ispettore, non ha ancora capito come si sono svolti i fatti?» cominciai.
«No …» disse guardandomi stranito. «Perché? Tu sì?».
«Diciamo che l’ho intuito … ma c’è chi lo sa meglio di me, e questi è naturalmente l’assassino».
«Insomma, sai chi è stato o no?» si spazientì Flavio.
«Sì che lo sa» disse Denise ad occhi bassi.
Tutti la guardarono. Bianca mi fissò negli occhi e per un attimo mi parve di vederla sorridere a testa bassa.
«Ricostruiamo i fatti, vi va?» domandai mentre mi sedevo a terra. Tutti mi guardavano come se fossi un fanatico, ma onestamente me ne fregavo di ciò che pensava la gente. Volevo stare seduto a terra? Me ne stavo a terra. Non era fanatismo, né voglia di esibirmi, o almeno non lo era per me. La consideravo posizione di deduzione.
«Sappiamo tutti che i sospettati, per forza di cose, sono solamente tre. Questo restringe il campo, ma la domanda è sempre la stessa. Chi è l’assassino del signor Estrali?».
Vedevo gente palpitare. I tre sospettati mi guardavano come se fossi un discepolo di Cristo decisivo per la loro salvezza. Flavio aveva la fronte imperlata di sudore.
«Allora? Vuoi dirci come sono andati i fatti?» mi chiese Ducato già spazientito. Si era allargato il nodo della cravatta e passato il dorso della mano alle tempie per asciugarsi il sudore.
«Partiamo subito con il dire che la vittima è stata uccisa con un’arma che difficilmente potrà essere sottoposta ad esami e varie cose alle quali siete abituati voi della scientifica».
«Cosa?» era la domanda ricorrente. Sentii Federico, l’amico di Flavio, diffidare delle mie deduzioni. Andai avanti. Lui faceva  parte di quella massa che non conta niente che chiamo gente, no?.
«Esatto» continuai guardando le facce stupefatte. «L’arma è insospettabile, talmente tanto da poter sembrare quasi invisibile».
«Insomma, che cos’è?» disse Bianca.
La guardai ancora. Poi il mio sguardo ritornò su Ducato e Flavio. «E’ un pezzo di ghiaccio, ecco cos’è! Più precisamente una piccola lastrina, se non erro».
«Un pezzo di ghiaccio?» ripeté incredulo Federico.
«Già, un pezzo di ghiaccio. Un bel pezzo di ghiaccio, consistente, duro, solido e poco ingombrante. Ha presente?».
Si zittì.
«Com’è possibile uccidere qualcuno con un pezzo di ghiaccio? Ragiona!» mi disse Annalisa.  Non credeva a quanto ascoltava.
«Si può eccome, Annalisa. E’ pur sempre un oggetto contundente».
«Ok, ma hai trascurato un particolare importante» affermò convinto Elia Scodelli.
«E sarebbe?».
«Se l’assassino avesse colpito effettivamente la vittima con un pezzo di ghiaccio, non avrebbe avuto la stabilità necessaria, capisci? Il ghiaccio non è facile da maneggiare a mani nude».
«Oh certo, ma mi creda è molto più facile di ciò che sembra per chi è abituato a lavorare con esso tutti i santissimi giorni. Inoltre, il corpo della vittima ha i capelli bagnati e impregnati di una sostanza appiccicosa».
«Hai risolto anche questo mistero?».
«Dovrei averlo fatto. Agente …» feci cenno ad uno della scientifica «di che colore è la sostanza appiccicosa rinvenuta nei capelli della vittima?».
«Non ricordo bene, ma pare fosse verde …».
«Tutto torna a quanto pare».
«Insomma, chi è il colpevole? E’ abbastanza tardi e qui stiamo ancora lavorando!» intervenne Ducato spazientendosi. Era nervosissimo.
«Mi meraviglio che lei non l’abbia ancora dedotto. Guardi le opere esposte dietro di lei».
Vincenzo Ducato si girò talmente lentamente da far sembrare la scena in slow motion. Per un attimo mi parve di essere catapultato in una di quelle scene da western d’epoca. Avete presente Sergio Leone, no?
Dopo qualche secondo lo vidi sobbalzare. «Di chi è quella granita?» domandò mentre indicava la farfalla.
«Del colpevole naturalmente. Del signor Marco Pizzelli! Confessi, su! E’ stato lei, non è vero?».

La sua reazione fu una risata talmente forte e sonora da far sembrare l’acustica del Madison Square Garden solo quella di una palestra per dilettanti.
«Devi avere le prove per inchiodarmi, ragazzino impertinente!».
«Vuole le prove? Innanzitutto c’è la questione del ghiaccio. Lei sa maneggiare molto bene il ghiaccio e …».
«Ah davvero? Vuoi incolparmi perché faccio bene il mio lavoro? Razza di idiota …».
«Mi dispiace informarla … ma qui di idiota c’è solo lei. E’ l’unico tra i sospettati che abbia fatto uso di menta».
Il suo sguardo si fece truce e cominciò a mirare in basso.
«Perché se la ricorda la menta, non è vero? L’ha usata per decorare la sua farfalla di ghiaccio».
«Insomma io …».
«Lei ha provocato il blackout. Poi ha impugnato una lastrina di ghiaccio, l’ha avvolta in uno strofinaccio ed ha colpito la vittima alla tempia! Non lo neghi!».
«Io non devo negare niente! Sono innocente!».
«Si ostina a negare? Lei è senza vergogna!».
«Lo sai anche tu che non avrei mai saputo muovermi al buio con tanta destrezza. Come avrei potuto colpire bene Armando?».
«Non dica sciocchezze! Lo ha detto lei che è quello tra i partecipanti che lavora da più tempo in questo edificio. Conosce la stanza a menadito perché l’ha usata per le prove e sa come muoversi … anche al buio!».
«Supposizioni! Nient’altro che supposizioni infondate!».
«Ok, ha vinto».
«Lo hai capito finalmente che sono innocente?».
«E’ così Alex? Hai sbagliato? Lo ammetti?» domandò freneticamente Flavio.
«Aspetta. Vediamo cosa ci dice il signor Pizzelli del suo dolore al braccio. Poco fa ha detto a Denise che ce l’ha da inizio serata, conferma?».
«Certo!».
«Peccato che ad inizio serata portasse una valigia dal peso di almeno dieci chili! E’ la valigia dei suoi attrezzi da lavoro, non è vero? Vi sono formine, macchinari per le incisioni nel ghiaccio di livello professionale e altre cose. E allora mi dica, com’è possibile che adesso abbia il dolore? No, non si sforzi. Glielo dico io! Si è fatto male mentre colpiva la vittima, vero?».
Un «dannazione» sfuggì al suo controllo. Ora aveva gli occhi iniettati di sangue ed era sul punto di piangere. I pugni gli tremavano in un insieme di rabbia, frustrazione e spossatezza.
«Vuole confessare?» infierì Ducato. «Ormai è palese che ci sia qualcosa di strano».
«E va bene! Lo confesso, l’ho ammazzato io!» disse urlando.
«Ma perché l’hai fatto?» domandò Federico. «Non ti aveva mai fatto niente!» aggiunse. «Non l’avrai fatto per i soldi?» domandò?
«Per niente!» rispose pronto. «Dopo avermi prestato quell’esorbitante cifra di denaro credeva di essere autorizzato a fare di me ciò che voleva, anche dopo la restituzione. Mi chiamava fallito, mi umiliava davanti a tutti, ma il culmine è stato il mese scorso. Ha violentato la mia ragazza e lei si è tolta la vita proprio il mese scorso. Non potevo assolutamente passarci sopra, no, non potevo!».
«Se è così doveva sporgere assolutamente denuncia, perché non l’ha fatto?» domandò Novato.
«Non sarebbe servito a nulla. Doveva pagare personalmente per il male che aveva fatto».

Usciti fuori dall’edificio nel quale ci trovavamo, stavamo raggiungendo la macchina nel parcheggio. Avevamo trovato posto piuttosto lontano dall’entrata e così c’era da fare una bella scarpinata.
«Allora? Ancora ce l’hai con me?» dissi a Bianca. Aveva evidentemente sbollito la rabbia. Non mi guardava più storto, non lanciava più frecciatine e il suo viso pareva rilassato.
«Io non ce l’ho mai avuta con te …» disse tentando di nascondere le sue vere sensazioni.
«No, eh? E va a finire che non hai nemmeno provato fastidio nel vedere Denise sul mio letto, non è vero?».
Arrossì talmente tanto che al suo confronto la bandiera della Cina sembrava solo una macchietta insignificante.
«Se tu nella tua mente ti fai i film da oscar … non è mica colpa mia?».
La guardai per un attimo divertito. Lei rispose allo sguardo con uno imbarazzato. Poi riprese a parlare aggiungendo le sue impressioni personali.
«Però concedimi questa. Non è normale entrare nella camera di un ragazzo e vedere una ragazza in …».
«In?».
«E dai, lo sai anche tu! Aveva degli shorts troppo corti!».
«Quindi il problema sono gli shorts?».
«No …» disse a metà tra confusione e rabbia «solo che mi ha fatto uno strano effetto …» ultimò tirandomi un buffetto sul braccio. «Comunque non ce l’avevo con te. Non ne avevo davvero il motivo, per chi mi hai preso?».

Poche ore dopo Denise prese il primo treno per Verona. Luana era stata giudicata tutto sommato in buone condizioni e dunque stavano per dimetterla dall’ospedale in Toscana per rimandarla a Verona. Voleva fare una sorpresa alla sua mentore e arrivare prima di lei per prepararle una cena di bentornato. Così l’accompagnai alla stazione e lei se ne andò dicendomi di chiamarla per ogni sviluppo sul caso del Fuoco Re. Ero un po’ scocciato e questa mia reazione ne provocò una altrettanto curiosa da parte sua. Mi guardava con occhi strani. Dolci e caritatevoli allo stesso tempo. Mi guardava come se stesse guardando un bambino.

Tornai a casa a tarda sera. Mi fermai da quel ristorante cinese vicino l’ufficio e dovetti aspettare un’ora prima che il pollo fritto con spezie mi fosse consegnato. La verità è che c’era un cliente talmente bisbetico che sembrava aver creato il mondo e così il personale era intento nel calmarlo. Solo dopo riconobbi in lui un noto critico culinario che conduceva in tv un programma chiamato “Stronco cucina”. Simpatico, eh?
Quando tornai il pollo era invitante. Entrai in casa dall’entrata secondaria sul retro, quella che da direttamente nell’ufficio di Flavio. Lo trovai cupo, al buio, con il riflesso della luna che gli lucidava la nuca.
«Che c’è?» gli domandai con le buste ancora in mano «fai le prove per il sequel de “Il silenzio degli innocenti?”».
«Spiritoso. Piuttosto … quante volte ti ho detto di non entrare da lì?».
«E quante volte ti ho detto che mi si dimentica? Mi dici tremila cose al giorno!».
Flavio teneva per le mani un pezzo di carta mezzo stracciato, una sorta di pergamena moderna con scritte su tante parole incomprensibili.
«Che cos’è?» gli domandai curioso.
«Si sono fatti sentire. Sanno di noi a quanto pare …».
«Ma chi?».
«I nostri amici. Il Fuoco Re, no?» affermò con un risolino.
Mi si gelò il sangue e per un attimo credetti che la morte fosse solo un intercalare della parola sofferenza.
«E’ … è loro quella lettera?».
«Indovinato. Bell’intuito».
«E cosa … cosa dice?».
Fece un risolino.
«Che hanno capito che li stiamo dietro, ma che vogliono mettere subito le cose in chiaro. Non ci considerano una minaccia credibile e …».
«E?» lo anticipai.
«E hanno altri obiettivi piuttosto che star dietro ad una coppia di detective che cercano di vendicare il loro passato».
Rimasi per un attimo in tensione.
«Dice qualcos’altro?».
«Solo che per loro non c’è nulla da regolare e che … seppur sanno che in qualche modo siamo sulle loro tracce … ».
Flavio si bloccò.
«Parla, su!» lo incitai mollando le buste a terra. E la cena era andata a farsi fottere.
«Sono disposti a lasciarci in pace se noi non li attaccheremo … che cosa ne pensi?».
Mi alzai in piedi, in quanto mi ero accomodato sul bracciolo del divano, e presi a sfogliare qualche vecchio libro di teoria investigativa che vi era nello scaffale della libreria di Flavio.
«Alex? Allora?».
«Cosa ne penso … non è facile pensare in queste situazioni … nella baracca, poco tempo fa, volevano farci fuori e adesso non ci considerano più minaccia credibile?».
«E ti lamenti?».
«No, no. Solo non capisco come mai questo cambiamento di atteggiamento. Se fai un agguato a qualcuno significa che in qualche modo lo temi … ed è quello che hanno fatto con noi. Ora però se ne escono che non siamo più così … minacciosi … c’è qualcosa che non torna».
«Per esempio?».
«Innanzitutto cosa abbia effettivamente portato al cambio d’atteggiamento. Non so … c’è stata una soffiata, un qualcosa? Ci tengono sottocontrollo forse? Non so cosa pensare».
«Stai pensando troppo, è questa la verità. Lo fai sempre. Pensare troppo fa male».
«Quindi?».
«Quindi ormai è stata intrapresa una strada da seguire e la seguiremo … abbiamo preso di comune accordo la decisione di contribuire alla cattura di quei criminali e non molleremo certo dopo questa lettera, dico bene?».
«Dici benissimo».
«Anzi …» cominciò, ma lo interruppi rubandogli le parole di bocca.
«E’ anche meglio così … potremo agire più in ombra».
Annuì convinto e io feci lo stesso.

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