Statistiche del Blog

martedì 16 agosto 2011

Alex Fedele: La promessa (stagione 1; episodio 1)

Ciao ragazzi, ecco finalmente il debutto del mio personaggio letterario, Alex Fedele. Nei giorni scorsi avete avuto modo di conoscere l'opera e la trama. Molti di voi ne hanno parlato con me ed ho deciso personalmente che la data dell'esordio sul blog sarebbe dovuta coincidere con quella di oggi. Spero che vi piaccia e mi farebbe piacere se commentaste con dei pareri/critiche e cose varie che mi permetteranno di migliorare. Prima di ogni episodio ci sarà un piccolo prologo che vi annuncerà la puntata. Allo stesso modo, alla fine dell'episodio troverete un'anticipazione sul prossimo caso. Ringrazio tutti coloro che hanno reso possibile quest'opera tranne il proprio sostegno. I racconti/episodi verranno pubblicati ogni settimana. Mi raccomando, seguiteci! Man-mano che andremo avanti la trama si farà più fitta, una trama molto oscura che si rivelerà solo con il tempo. Intanto spero di emozionarvi e di farvi innamorare di quest personaggio giorno dopo giorno, esattamente come me ne sono innamorato io. Comincia l'avventura!

Note: Episodio importante per la trama

PROLOGO:
Un nuovo detective è arrivato in città. Il suo nome è Alex Fedele. Il diciottenne al suo primo caso. Al suo fianco, un uomo col passato tormentato ed una donzella senza peccato. Sta per cominciare Alex Fedele!



LA PROMESSA

CASE 1 – L’arrivo

Volevo andarmene. Onestamente. I miei capelli castani scuri, quasi neri, cadevano sulla mia fronte corrucciata e toccavano le folte sopracciglia.  Gli occhi castani scrutavano ogni millimetro del vuoto. Non pensavo a nulla di particolare, ma era così. Per me che avevo sempre vissuto in una piccola città, era uno shock arrivare in una metropoli. Era uno shock la circostanza stessa. Ritrovarsi a diciotto anni, a cambiare realtà, usi, costumi, abitudini e movenze abitudinarie. Il taxi su cui ormai ero salito, stava giungendo a destinazione. Doveva portarmi in Via Galileo 10, nella stessa strada dove avrei dovuto abitare per chissà quanto tempo. Già. Avevo superato brillantemente il corso ministeriale PSD (Promesse Settore Detective) e, sempre per ordini dall’alto, mi accingevo a trasferirmi in una grande città per un periodo di collaborazione con un’agenzia investigativa che si era messa a disposizione del ministero anche per (forse solo per quello) scopi economici. Il ministero offriva una rendita annuale di 12000 euro a ogni agenzia che si dimostrasse volenterosa. Valeva a dire 1000 euro al mese. Un bel gruzzolo se sommati ai proventi dell’agenzia stessa.
«Siamo arrivati fratellino?».
«Non ancora Andrea, porta ancora un po’ di pazienza».
Per lo più, mi ritrovavo con il mio fratellino a carico. Andrea non era un elemento di disturbo. Assolutamente. Sapete però com’è. Accudire e occuparsi di un bimbo di cinque anni è impegnativo per chi è genitore, figuriamoci per chi, come me era ancora un ragazzino. Il fatto è che mio fratello maggiore era in viaggio per motivi universitari nei vecchi USA, mia madre lavorava presso una compagnia televisiva abbastanza nota in Giappone e non avevamo un padre da circa cinque anni.
«Siamo arrivati ragazzo» la voce del tassista risuonò nel silenzio dell’auto coperto solo dal rumore incessante e fastidioso del motore. Il mio fratellino si distolse dal suo giochino, il noto “cubo di Rubik” e alzò la testa per guardare in che razza di posto ci trovassimo. Ricordo che la sua espressione non mi piacque per niente.
«Grazie signore, quanto le devo?» dissi esordendo nel mio miglior sorriso triste.
«Quindici euro» rispose lui con freddezza.
Andrea ed io scendemmo dal taxi. Lui aveva voluto per forza venire con me. Non gli andava l’idea di vivere negli Stati Uniti con Stefano, né quella di cambiare completamente cultura in Giappone, seppur ci lavorasse la mamma, donna straordinaria e nel pieno della carriera giornalistica. Per esclusione era stato affidato a me e lui a casa, nella nostra piccola Fondi, si era dimostrato entusiasta, tanto da definire il lavoro di detective privato “uno spasso”. Adesso non sembrava più così. Eravamo fermi di fronte ad un cancello ferrato di color ruggine. Fissavamo il palazzotto che c’era al di là del giardinetto tenuto in ordine quanto bastava per fare una discreta impressione. A tutto questo, faceva da contorno un tempo non certo da suscitare applausi e feste. Il cielo di Torino era grigio. Grigio come il mio umore. Ero pentito di aver accettato questa strada, ma un po’ per amor mio, un po’ perché il commissario Marbelli, intimo amico di famiglia e che mi aveva visto crescere, aveva insistito giudicandomi “un talento nel mestiere”, avevo accettato con sufficiente entusiasmo. Non voglio farvi equivocare. A me il lavoro da detective piaceva, eccome. Era un mio sogno fin da bambino. Solo che le cose finché non ti ci trovi ti sembrano tutte più strane.
«Dobbiamo suonare piccolo» sussurrai
«Sicuro?».
Risi. La tenerezza di un bambino che aveva paura della nuova realtà.
«Eh sì. Non vorrai buscarti un raffreddore fuori al freddo?» Non mi rispose per nulla. Abbassò la testa e scomparve nel piumotto color verde scuro. Mi abbassai sulle ginocchia, gli sollevai il capo e lo guardai negli occhi.
«Andrà tutto bene» tentai di consolarlo.
Mi guardò con aria sfiduciata.
«Tu non dovrai temere nulla. Starai con me, andrai a scuola, come sempre. Non abbiamo alternative fratellino. Ti prometto che se farai il bravo ti farò un bel regalo».
Il suo sguardo s’illuminò. Forse lo avevo parzialmente rassicurato. Era la cosa più importante in quel momento. Ci accostammo al cancello, avvicinammo al campanello, l’unico con la scritta d’identificazione.
“AGENZIA INVESTIGATIVA FLAVIO MOGGELLI”. C’era poi un campanello sopra la scritta con l’adesivo leggermente scolorito che recitava “MOGGELLI”.
Non feci in tempo a suonare. Alle mie spalle si era insediato qualcuno.
«Scusa, cosa stai facendo?» mi domando candidamente.
Mi girai. Devo ammettere che non mi pentii affatto di averlo fatto. La mia vista si era rallegrata alla vista di una ragazza pressoché della mia età, forse leggermente più piccola, ma doveva essere comunque questione di poca roba. Il viso che mi ritrovavo di fronte era davvero gradevole e quanto di più affascinante potessi desiderare. Gli occhi castani scuri scrutavano ogni centimetro della scena che si era ritrovata di fronte. Le sottili sopracciglia, il nasino minuto e la bocca piccolina erano il preludio di una cascata di capelli neri, lunghissimi e molto ben tenuti. Non erano lisci al cento per cento. Avevano qualche “rimbalzo” alterno di tanto in tanto e pur non essendo mai stato un maniaco del trucco e della moda in generale, mi accorsi che erano scalati. Le meches di colore castano chiaro risplendevano come pietre preziose sui neri capelli e davano quel tocco sbarazzino di cui quel taglio aveva bisogno. Dopo essere stato circa dieci secondi a fissarla come un perfetto idiota, la lingua cominciò a voler essere indipendente dal cervello e così riuscì a bofonchiare qualcosa.
«Mi chiamo Alex Fedele, sono stato mandato qui dal ministero. Sai è per quel progetto che ha a che fare con il signor Moggelli».
«Ah sì, hai ragione» sussurrò. «Dovevo immaginarlo. Be’ ma chi è questo bimbo?» disse illuminandosi rivolgendosi ad Andrea.
«E’ il mio fratellino. Si chiama Andrea».
La ragazza tentò di socializzare con mio fratello, ma il piccoletto era abbastanza diffidente e quindi si nascose dietro la mia figura peraltro non certo imponente.
«Scusalo» dissi con un po’ di imbarazzo. «E’ molto timido».
«Oh non c’è problema. Ma che ci facciamo ancora qui? Entriamo, ti faccio vedere la casa e l’agenzia» disse sciogliendo il ghiaccio.
Così facendo aprì il cancelletto color ruggine con un mazzo di chiavi vecchio quanto il mondo.
«A proposito non mi sono presentata. Mi chiamo Bianca. Sono la figlia del signor Moggelli»
«Molto piacere. In qualche senso l’avevo già immaginato» sussurrai.
«Roba da detective?» domandò.
«Già» e risi in modo naturale. Lei fece lo stesso.


CASE 2 – Casa Moggelli

Aprì la porta di mogano ed entrò. La casa si apriva con un corridoio abbastanza stretto, dove c’era solo un mobiletto con su un telefono fisso collegato a una presa.
Bianca ci fece strada, dimostrando di essere un’ottima padrona di casa. Svoltò a destra e ci portò in una cucina abbastanza accogliente. Oltre al consueto piano di lavoro, con tanto di forno e quant’altro, c’erano la lavastoviglie e un tavolo, sempre di mogano, con al centro un contenitore di frutta finta. Usciti dalla cucina, a sinistra del piccolo corridoio, c’era un salottino abbastanza spazioso, con un divano bianco ad angolo e una televisione al plasma ultimo modello. Non mancavano poltroncine e un tavolino (accerchiato da divani e poltrone) di vetro con alcuni posacenere sopra. Alle spalle del divano ad angolo, verso sinistra, era posta una scrivania di legno antico che dava le spalle ad una grande vetrata, coperta da tende color salmone. Accanto ad essa, verso l’angolo della stanza una lampada grandissima molto elegante. Di certo era una casa dove vigeva il buon gusto. Verso la parte destra del salottino, c’erano un’altra vetrata, una libreria molto grande dove erano stati accatastati una moltitudine di libri e alcune piante che sentivano la presenza del tempo. C’era inoltre una scala che portava al piano superiore. Nel piano superiore erano accostate quattro camere da letto, due bagni e una piccola saletta con tavolo e sedie. C’erano numerose finestre e numerosi balconi. Scesi poi al piano di sotto, Bianca continuava a parlare, ma francamente e in tutta sincerità, non la stavo a sentire poi tanto. Ero molto impegnato ad ambientarmi nella casa nella quale avrei dovuto abitare per un po’ di tempo. Sempre all’uscita del piccolo corridoio, verso giù, c’era una porta di legno, molto più vecchia delle porte della casa, dava spazio nell’ufficio di Moggelli. L’ufficio era arredato in modo abbastanza sobrio. Era spazioso. Ad occhio e croce circa trenta metri quadrati. Una scrivania di legno troneggiava in fondo alla stanza, con delle sedie modernissime al di là di essa. Un piccolo salotto era stato allestito ai piedi della stanza. A tutto si aggiungeva una piccola televisione attaccata al muro e volta verso la scrivania, una libreria con poche pratiche cartacee messe in evidente disordine e molti fogli messi in terra. A dir la verità mi sembrava tutto, tranne che un ufficio di un detective. Mi avevano detto che l’agenzia non andava come avrebbe dovuto, ma comunque devo dire che mi aspettavo di più.
Nell’ufficio, verso il fondo in diagonale, c’era un piccolo portoncino, sempre di legno, impreziosito da alcuni scalini che permettevano di aprire solo se percorsi.
«Allora, che ve ne pare?» domandò Bianca. Quella fu l’unica cosa che ascoltai durante il discorso che mi aveva fatto in precedenza.
«E’ una casa molto carina, complimenti. E’ davvero bellissima» affermai
«Sono contento che ti piaccia. Tu e tuo fratello starete in camere separate, ma comunque starete vicini, va bene così?».
«Certo, è perfetto. Ti ringrazio molto di avermi guidato»
«Di niente.» disse con gentilezza.
La porta dell’ufficio, quella degli scalini, si aprì improvvisamente. La chiave girò nella toppa, la serratura scattò e mi ritrovai di fronte un uomo altissimo, che sfiorava sicuramente il metro e novanta. Era molto magro, direi longilineo. Aveva sicuramente qualche rotolino, che però non aggravava la sua persona. La barba incolta gli incorniciava il volto.
Alla nostra vista si sorprese, quasi non si aspettasse di trovarci lì.
«Be’, Bianca cosa ci fai qui?»
«Ciao papà. Stavo mostrando la casa ad Alex».
«Alex?» pronunciò il mio nome quasi con disprezzo. Forse era solo una mia impressione. Essendo diffidente per natura me lo sarei dovuto aspettare da me stesso.
«Ah» continuò poi, «sei tu ragazzo?» disse rivolgendosi a me.
Gli tesi la mano per stringergliela, per presentarmi, per educazione. Lui la guardò con diffidenza e sorrise in modo sarcastico. Non nascondo che ci rimasi piuttosto male.
«Allora se non sbaglio, tu dovresti essere il ragazzino che il ministero ha mandato qui, dico bene?».
«Sì».
«Be’ ragazzo, non hai proprio l’aria del detective, anzi non hai proprio l’aria di uno sveglio». Che gentile vero? Aveva subito instaurato un clima pesante. Bianca aveva abbassato lo sguardo come per dire “perché a me questo guaio?”; lui si era tolto la giacca ed era rimasto in camicia con una cravatta nera. Si sedette alla sedia della sua scrivania e cominciò ad esaminare alcuni fogli che aveva messo, probabilmente distrattamente, in quella posizione.
«Allora?» continuò. «Cosa fate lì impalati come due idioti? Bianca, non hai compiti?».
«Si papà».
«E allora non c’è motivo per il quale tu rimanga ancora nel mio ufficio».
Bianca si allontanò, con un’espressione che onestamente non mi sembrava né delusa, né amareggiata, né impressa di qualsiasi altro sentimento controverso. Probabilmente quei dialoghi erano abitudinari tra padre e figlia. Probabilmente Flavio, quello il suo nome, non era così scorbutico, oppure lo era ma solo per rafforzare un carattere necessariamente troppo debole. Forse però stavo fantasticando troppo e mentre ero assorto nei miei pensieri, la voce dura, rude e stoica dell’uomo mi fece sobbalzare.
«Anche tu ragazzo, come hai detto di chiamarti? »
«Alex».
«Alex, siediti di fronte a me e attendi un momento. Dovremo fare un bel discorsetto noi due»
Mi sedetti di fronte a lui. Flavio aveva la testa abbassata sulle pratiche, le esaminava, le spulciava minuziosamente e talvolta le correggeva a penna. Poi alcune le strappava e le “cestinava”  letteralmente ed altre invece le riponeva nel cassetto della scrivania alla quale era seduto. Il silenzio totale durò circa dieci minuti. Non si mosse una foglia. Poi ad un tratto, grazie ad un urlo che mi si stava strozzando in gola, il signor Moggelli cominciò a parlare sollevando lentamente la testa dalle pratiche e togliendosi gli occhialini per leggere da vicino che aveva indossato.
«Allora Alex, dimmi un po’» esordì «cosa ti spinge a fare questo mestiere?».
Mi imbarazzai. «Be’ signore io…» mi interruppe.
«Non cominciare ad incantarmi con queste cose formali. Dammi del tu e chiamami Flavio»
«Ok. Come dicevo, non c’è un motivo particolare per il quale ho deciso di intraprendere questa strada».
Fece un mezzo sorriso, naturalmente sarcastico, prese fiato e rispose con una calma invidiabile.
«Quindi, tu ti sei trasferito da…da dove ti sei trasferito?».
«Fondi».
«Dov’è?».
«Provincia di Latina».
«Dicevo … ti sei trasferito da Fondi, piccola città ridente, a Torino grande metropoli per fare carriera e non sai il perché? Hai bisogno di fosforo ragazzo.»
«Diciamo che ho sempre amato collaborare con la giustizia, ma con quella vera».
«Cosa vuoi dire?» sussurrò mantenendo il ghigno.
«Che mi piacerebbe garantire la vera giustizia».
«E cosa ti fa pensare che non tutta la giustizia sia autentica?».
«Be’ tante cose»
«Sei vago … perché non approfondisci e mi fai capire davvero cosa pensi?».
«Semplicemente penso che non sempre la legge sia uguale per tutti».
Il suo volto s’incupì. Probabilmente avevo colpito nel segno. A Fondi mi avevano detto che Flavio era stato per quindici anni nelle forze dell’ordine. Un uomo di giustizia come lui non poteva sopportare che un ragazzino gli dicesse cose così forti. Si alzò lentamente dalla sedia. Andò verso la sua destra, a consultare la libreria. Poi prese un fascicolo di colore giallo ocra, e lo lanciò sul tavolo in segno di sfida. Poi si risedette al suo posto e cominciò a parlare prendendo tanto fiato.
«Davvero pensi questo ragazzo?»
«Perché non dovrei?»
Aprì il fascicolo. All’interno c’erano un sacco di cartelline trasparenti, un sacco di documenti, un sacco di articoli di giornale, di ritagli fotografici, di attestati al merito poliziesco e quant’altro.
Prese una cartellina, estrasse un foglio di giornale sotto l’evidente peso degli anni e lo aprì con scioltezza.
«”Padova”» disse cominciando a leggere «”Brillante operazione poliziesca oggi nella cittadina veneta di Padova. La collaborazione delle forze dell’ordine nostrane con quelle della città di Torino è stata  provvidenziale per catturare Giancarlo Fannorini, noto ricettatore. Per Fannorini sono stati necessari tre anni di appostamenti. I leader dell’operazione sono stati l’ispettore Giovanni Andrelli del distretto padovano e l’ispettore Flavio Moggelli del distretto di Torino”».
«Conosco questa storia»
Sembrò non ascoltarmi, prese un altro foglio e ricominciò a leggere.
«”Torino”. La polizia ha finalmente arrestato Bernardo Mastroni, noto spacciatore assassino che aveva seminato panico in tutto il nord del Belpaese. Mastroni è stato brillantemente fermato al termine di un inseguimento per tutta Torino dall’ispettore Flavio Moggelli che ha dichiarato che questa è stata la vittoria definitiva della giustizia».
Mi guardò con aria di sfida
«Allora ragazzino. Cosa ti fa pensare che la giustizia sia sporca?».
«Il fatto che ci sono decine di reati civili e penali rimasti impuniti».
«Davvero? E tu sai perché?».
«Perché la polizia si rifiuta di indagare oltre».
Diede un violentissimo pugno sulla scrivania. Pensai che se non si era rotta con quel gesto, probabilmente sarebbe durata ancora una buona decina d’anni. Si alzò di scatto, ispezionò la stanza con il suo passo aggressivo e felpato.
«Che insolenza! Un ragazzino viene nello studio di un uomo di giustizia a dire che questa è corrotta. Non hai un briciolo di vergogna».
«Che c’è? Non posso esprimere una mia opinione?».
«E’ un’opinione abbastanza stupida».
«Potrei dire lo stesso della tua».
La stanza si gelò. Ci eravamo conosciuti da nemmeno mezz’ora eppure avevamo già tastato i punti di cedimento dell’uno e dell’altro. Mi guardò con occhi di fuoco, spiritati. Le sue braccia possenti appoggiate alla scrivania tremavano per l’agitazione. Si era sbottonato i primi bottoni della camicia e si intravedeva il suo respiro. Un misto di adrenalina all’ennesima potenza mescolata con violenza.
Poi si voltò e vide mio fratello. Già Andrea. Era rimasto seduto su una piccola sedia sistemata al vertice sinistro della stanza. Non mi ero nemmeno accorto ci fosse in quella circostanza. Non aveva aperto bocca da quando avevamo conosciuto la famiglia Moggelli.
«Chi è quel piccoletto?» disse a voce alta.
«Mio fratello Andrea».
«Resterà con noi?».
«Se ci sono io deve starci anche lui».
Si avvicinò con aria da sbruffone a mio fratello. Seguii i suoi movimenti con lo sguardo. Gli si mise davanti e abbassandosi sulle ginocchia sussurrò testuali parole.
«Allora giovanotto, quanti anni hai?».
«Cinque» rispose timidamente Andrea.
«Bene. Quindi vai ancora all’asilo?».
«Sì».
«Mi sembri un po’ agitato. Vuoi qualcosa da bere, vuoi mangiare qualcosa?».
Insolitamente gentile il tipo. Stavo scoprendo un Flavio che mi era stato oscuro fino ad allora. Con i bambini sapeva essere quantomeno premuroso. Dovevo aspettarmelo. Aveva anche lui una figlia.
«No grazie signore» rispose educatamente mio fratello.
«I tuoi genitori ti hanno educato bene ragazzino. Sicuro però di non volere niente? Ho della cioccolata in casa, un pezzo di torta, un po’ di semplice acqua?».
«No grazie, sto bene così».
Flavio si sollevò da terra e disse:
«Ok. Allora mangerai a cena come tutti».
Flavio ritornò alla scrivania con fare militaresco e fissandomi cominciò un  nuovo discorso.
«Bene ragazzo.» disse guardandosi l’orologio. «Sono le sei e trenta. Tra poco si cena. Tu intanto sistema la tua roba e quella del tuo fratellino nelle camere da letto. Fatti aiutare da Bianca se vuoi per il bambino».
«Grazie mille». Mi alzai e gli augurai buon lavoro. Presi per mano Andrea ed uscì dall’ufficio.
Uscito dall’ufficio mi diressi ciondolante nel corridoio. Il dialogo con Flavio mi aveva leggermente scosso. Non era stato molto ospitale ,al contrario di sua figlia.
Entrando in salotto Bianca mi vide e decise di accompagnarmi alle camere da letto. Per le scale parlò del più e del meno, dei suoi impegni scolastici, del mestiere del padre così affascinante e del fatto che da lui potevo imparare molto.
Arrivati al piano superiore mi aprì una porta in fondo al largo corridoio che teneva camere, saletta e bagno e mi mostrò la mia camera da letto. Era una camera normale, con un balconcino per affacciarmi. Il letto era disposto in modo verticale verso la parte sinistra della stanza. In fondo a sinistra c’era una piccola scrivania e a destra un armadio.
Nella camera del piccolo invece, accanto alla mia, un lettino messo in modo orizzontale, una piccola finestrella, un armadio di fronte al letto ed anche per lui, una piccola scrivania di legno piena zeppa di foglietti.
«Allora che ne dite?» domandò Bianca.
«Ci troveremo benissimo».
«Sono felice. Allora, hai fatto amicizia con papà?».
«Amicizia è una parola grossa, diciamo che abbiamo avuto modo di parlare».
«Scommetto che avete discusso».
«Be’…»
«Lo sapevo!» disse piuttosto irritata. «E’ sempre il solito burbero. Ma gliene dirò quattro».
«No, no che hai capito? Era solo una visione diversa di vedere una cosa».
«Quindi non avete litigato?»
«No, battibeccato, ma sempre con il dovuto rispetto».

CASE 3 – Cena a base di intuizioni

Passammo circa un’oretta a sistemare le nostre cose. Andrea era stato leggermente aiutato da Bianca
Mentre ultimavamo le ultime cose, la voce di Bianca risuonò nell’aria piena di un assordante silenzio.
«La cena è pronta!» si sentì dire dal piano di sotto.
Io e Andrea ci recammo al piano inferiore della casa, percorremmo il salotto ed arrivati in cucina ci sedemmo nei due posti vuoti che ci avevano riservato. Notai come Bianca fosse perfettamente a suo agio nel muoversi in cucina. La vidi compiere una serie di azioni casalinghe che non avrei mai immaginato che una ragazza della sua età potesse fare. Sicuramente la cena era compito di Bianca. Flavio svolgeva piccoli lavoretti per aiutarla, ma probabilmente i mestieri di casa toccavano alla ragazza. In quel momento mi domandai dov’era la signora Moggelli, ma non dissi niente. Dopotutto ero in quella casa da meno di tre ore e fare troppe domande avrebbe significato essere invadenti e maleducati.
«Allora Alex, quando inizierai ad indagare con mio padre?» è con questa frase che Bianca aprì le danze
«Indagare…tsk!» disse con diffidenza Flavio, per poi continuare «mi darà una mano, nulla più. Le indagini non sono certo un gioco da ragazzini».
«Lo credo anch’io» intervenni.
«Cosa credi anche tu?» domandò un istigato Flavio.
«Credo che le indagini non siano cose da ragazzini».
«Quindi, la mia domanda è: Cosa sei venuto a fare qui?».
«Papà!» lo interruppe la figlia con un rimprovero.
«No, no Bianca tranquilla. Flavio ha perfettamente ragione. Be’, diciamo che non mi definisco un ragazzino».
«Davvero? E allora cosa sei?» disse Flavio
«Non lo so di preciso, ma credo di avere la stoffa per questo mestiere».
«Sei modesto» disse con ironia.
«Non mi credi? Be’ allora vediamo, scommetto che riesco ad indovinare tre cose di ognuno di voi senza che me le diciate?».
Bianca si illuminò in volto, mantenendo comunque un’espressione dubbiosa. Flavio mi guardava con diffidenza. Presi la parola mentre Andrea sorseggiava un bicchiere d’acqua.
«Cominciamo con te Bianca».
«Ok, dimmi pure» disse nel modo più gentile possibile.
«Vediamo…tu frequenti un istituto tecnico commerciale, non hai interessi come il calcio o la politica, ma ti piace molto la pallavolo e gli sport di questo genere…uhm…inoltre posso dire che ti sei passata lo smalto per le unghie da poco.»
Bianca rimase stupefatta. Era mia abitudine identificare con i particolari la gente. Non era cosa nuova per me. Da piccolo era il mio passatempo preferito.
«C-come hai fatto?» domandò incredula.
Risi. «Be’, di sicuro non è magia. Prima ho visto che nei tuoi libri c’era un registro mastrino. I registri mastrini li usa chi va a questo tipo di scuola. Inoltre prima in televisione il tg ha mandato in onda un servizio sul calcio e tu hai cambiato immediatamente canale voltandoti spalle alla televisione. Stessa cosa hai fatto quando hanno parlato di politica nazionale ed estera. Inoltre i tuoi polsi hanno dei piccoli lividi. I lividi sorgono quando si fanno sforzi con i polsi ed in questo caso, come tu saprai bene, i pallavolisti eseguono la manovra del “bagher”, dove è necessario mettere le braccia tese davanti a sé e colpire la palla con la parte del braccio vicino ai polsi. Inoltre nell’aria si sente un odore forte. Potrebbe essere acetone. Ho indovinato vero?
«Uao! Sarai di grande aiuto a mio padre!»disse con entusiasmo.
«Bah…»la interruppe Flavio. «E’ stata sola fortuna. Provaci con me, non lascio trasparire nulla di me, avanti, su, provaci».
Mi stava sfidando. Mi avevano insegnato fin da piccolo che quando qualcuno mi sfidava non dovevo mai tirarmi indietro.
«Ok.» dissi a voce bassa e pacata. «Dammi un attimo» e così dicendo lo osservai dall’alto verso il basso.
Ripresi a parlare. «Sei stato dal barbiere non più di tre giorni fa. Inoltre ami indossare orologi diversi tutti i giorni e probabilmente ne hai una vasta collezione in casa. Per ultimo…be’…posso dire che hai avuto un incidente alle unghie poco fa»
Non nascondo che lo sguardo di Flavio fu di fuoco. Non immaginava potessi constatare tre particolari in pochi secondi.
«Da cosa lo deduci?» disse
«Oh, è semplice. Sul collo, nella parte posteriore non è presente peluria. Inoltre si nota come sia stata passata la macchinetta a quei capelli e come il taglio sia ancora perfettamente regolare. Quindi è da poco che tu non vai dal barbiere. Per il discorso degli orologi è stato ancora più semplice. Sul braccio sinistro, all’altezza del polso, hai l’orologio scostato. Si vedono dei segni del cinturino,ma se si guarda bene attentamente, si nota che ci sono altri segni,sempre di cinturino, ma dalla manifattura diversa. Devi avere una collezione di orologi da qualche parte e li indossi a rotazione. Inoltre qualche ora fa, quando abbiamo parlato, le tue mani erano perfettamente curate, le unghie pulite e lucide, mentre ora il pollice sinistro è tumefatto. Forse hai sbattuto contro uno spigolo, oppure ti sei chiuso il pollice nel cassetto della scrivania. Giusto?»
Flavio fece un risolino ad occhi bassi, poi mormorò tra il silenzio che si era creato.
«Niente male. Davvero niente male. Bravo ragazzo».
Sorrisi.
Ritornammo a mangiare. La cena si susseguì in chiacchiere veloci e piatti prelibati. Non sto qui a dirvi i dialoghi che facemmo quella sera, ma potete ben immaginarli. Si trattarono di tutti quei convenevoli tipici delle neo-conoscenze. Si parlò di scuola(dalla quale mi ero appena liberato), di famiglia, di interessi, di futuro e Flavio non mancò occasione di mettermi in difficoltà con qualche domandina del tipo: “Cosa farai adesso?”, oppure “La ragazza ce l’hai?”. Essendo un tipo piuttosto riservato, risposi con cenni del capo affermativi e negativi, mezze frasi varie e parole pragmatiche.
Ci recammo nel salottino e continuammo a parlare della stessa cosa. In quella stanza si prestò più attenzione ad Andrea. Era incredibile come Bianca si mostra amabile nei confronti di quella creatura ed era ancora più incredibile la questione che riguardava Flavio. Il detective si mostrava scorbutico, stoico e battagliero con chiunque gli si ponesse davanti, ma con i bambini si ammorbidiva e diventava un compagno di giochi, quasi tentasse di diventare uno di loro. Devo dire che per essere la prima sera ci fu un clima abbastanza disteso e sereno. Aspettavo di peggio. O meglio, mi aspettavo di peggio. Avevo pensato ai disagi, alle prime impressioni, agli imbarazzi ed invece la famiglia Moggelli si dimostrò davvero esemplare (ok, lo ammetto, più Bianca che Flavio), nel mettere a proprio agio gli ospiti. Verso le undici, decidemmo di andare a dormire. Ci salutammo con un “buonanotte” sincero e ci rinchiudemmo nelle nostre stanze. Per quella notte Andrea insistette per voler dormire con me. Bianca rise, Flavio sorrise ed io dovetti assecondarli ed assecondare mio fratello. Non dormii quella notte. Pensavo a come sarebbe stata la mia collaborazione, se fosse risultata indispensabile, o se mi avessero ricacciato a casa a calci. Insomma, sono pensieri che fai, un po’ come quando pensai a mio padre. Pensai a lui tutta la notte.

CASE 4 – Inizia l’avventura

La mattina dopo scesi per la colazione. Bianca era di fretta e ci salutò con un cenno della mano veloce, sparendo dietro la porta di mogano.
«E’ una brava ragazza. Complimenti Flavio» dissi cercando di rompere il ghiaccio.
«Grazie» rispose con tutta la diffidenza di questo mondo.
Poi, bevuto un sorso di caffè, continuò. «Andrea non deve andare a scuola?»
«No. Di comune accordo con la mia famiglia abbiamo deciso di fargli passare la prima settimana a spasso. Così per farlo ambientare meglio. Per un bambino è più difficile».
«Capisco».
La colazione passò in un silenzio abbastanza fastidioso e che, naturalmente, era “impreziosito” dallo sguardo di fuoco di Flavio che, seduto sulla sedia in modo scomposto, leggeva il giornale del mattino con aria scocciata. Poi un suono. Un trillo di un telefono. Era il telefono dell’ufficio di Flavio.
Si alzò di scatto, buttando il giornale a terra. Quasi rovesciò la tazzina del caffè e in repentina fretta, lo sentii aprire la porta dell’ufficio ed esordire con la migliore delle frasi di presentazione.  Certo non era un tipo che voleva farsi attendere.
«Agenzia investigativa di Flavio Moggelli. La ascolto, dica pure».
Rimase al telefono per circa cinque minuti buoni. La maggior parte del tempo la passò ad annuire, visto che non si sentiva la sua voce. Poi di botto entrò in cucina e fissandomi disse:
«Preparati ragazzo. Si va sulla scena del crimine».
«Cosa? Adesso?».
«Cosa credi? Che i delitti aspettino te per essere compiuti? Muoviti e vieni con me».
«E Andrea?».
«Portalo con noi, non c’è altra scelta ragazzo. Ripeto. Sbrigati».
Di corsa andai al piano superiore, svegliai Andrea in modo abbastanza difficile. Mi chiese più volte cosa stesse succedendo, ma non gli risposi in modo dettagliato dicendogli che c’era un caso da risolvere. Immaginate che un bambino si impressioni sulla scena del crimine? Non conoscete mio fratello. A cinque anni aveva visto più film dell’orrore lui, che io in tutta la mia vita. Inoltre aveva sempre desiderato lavorare, proprio come suo fratello, in quell’ambito e si dimostrò subito entusiasta non appena seppe che dovevo trasferirmi a Torino per motivi di lavoro. Non che gli piacesse vedere cadaveri, assolutamente no. Ma per lui era bello respirare l’aria della polizia, riuscire a starci, anche senza parlare. Lui insomma, voleva stare lì, vedere come facevano detective e poliziotti a risolvere i casi più difficili. Era un patito degli uomini di giustizia. Prendemmo la macchina di Flavio. Moggelli si mise al volante e sfrecciò in quella fresca mattina autunnale. Ci dirigemmo verso il centro. Non avevo mai visitato il centro di una grande città e devo dire che rimasi affascinato. In macchina naturalmente volevo sapere di più. E così cominciai a parlare del caso che ci avevano affidato.
«Di cosa dobbiamo occuparci?».
«Di cosa DEVO occuparmi. Non cominciare a portare fretta. Tu osserverai come lavora un vero detective e forse imparerai qualcosa».
«Quindi non devo…»
«Bravo. Non devi toccare, fare nulla. Pensa a tenerti calmo il tuo fratellino e tieni gli occhi aperti. Ti chiamerò io se avrò bisogno di verificare le tue opinioni».
Rimasi zitto.
«Comunque» riprese a parlare «La chiamata è di un noto studio legale».
«Ok».
Arrivati di fronte ad una palazzina color grigio chiaro, decidemmo di entrare. Salimmo alcune scale di pietra che ci avrebbero indirizzati dalla hall fino al piano superiore dove probabilmente erano presenti gli studi. Appena finite le scale ci ritrovammo in una piccolissima saletta d’attesa dove c’erano già tre persone. Appena ci videro strabuzzarono gli occhi ed uno di loro, un uomo sulla quarantina, pallido, con i capelli castano chiaro e con degli occhialini da dottore ci venne incontro.
«Oh, detective, finalmente è arrivato!» disse stringendo la mano a Flavio. «Avevo chiamato la polizia, ma mi hanno detto che era meglio se di questo caso se ne occupava lei. La squadra omicidi è di là».
«Bene. Vogliamo presentarci, o meglio. Volete presentarvi?».
«Oh, certo che sciocco» disse l’uomo di fronte a noi. «Mi chiamo Oreste Norgi e sono l’assistente della vittima. Lei è Veronica Buondini, segretaria» disse indicando una donna abbastanza giovane con lunghi capelli neri; «e quella laggiù che sta piangendo è la signora Fratti, la moglie della vittima». La signora Fratti era una donna sulla sessantina. Aveva capelli biondo platino, corti e cotonati. Un fisico normale e dei lineamenti pesanti.
«Dov’è la vittima?».
«Nel suo studio» rispose la segretaria.
Flavio mi fece un cenno con il capo con l’intenzione di farsi seguire ed entrammo in un piccolo studio elegante che era proprio di fronte a noi. All’interno di esso c’era già una parte della squadra omicidi di Torino. L’Ispettore Vincenzo Ducato, un uomo sulla cinquantina, con capelli neri, pizzetto intero dello stesso colore, leggermente affaticato dal peso degli anni e con un lieve velo di peluria bianca. Aveva un aspetto severo. Con lui c’erano  un paio di agenti della squadra.
«Ispettore!» disse chiamandolo ad alta voce Flavio
«Flavio, allora come va?» rispose l’interpellato con voce rauca.
«Tutto bene. Sono accorso subito».
«E questo ragazzino? E’ quello del ministero?» disse l’ispettore
«Sì, si chiama Alex» disse con diffidenza.
Strinsi la mano a Ducato e sfoderai un sorriso da “sono nuovo, ciao amico”.
«Allora» continuò Flavio « cos’è successo?».
«La moglie della vittima era venuta qui per portare al marito il pranzo che aveva dimenticato a casa. Aperto la porta, ha trovato il corpo ed ha allarmato assistente e segretaria».
«Capisco»
«Secondo la scientifica e la squadra,il decesso è avvenuto circa un’ora fa».
Intervenni incuriosito. «Possibile che nel giro di un’ora nessuno si sia accorto che la vittima era stata uccisa?» Flavio mi guardò storto.
«No.» rispose l’Ispettore. «Il signor Fratti, avvocato di professione e dalla sfavillante carriera, aveva l’abitudine di entrare nel suo studio dall’entrata posteriore» disse indicando una porticina posizionata contro il muro; «E non consentiva a nessuno di entrare nel suo ufficio in quanto doveva sistemare alcune pratiche. I suoi assistenti aspettavano la sua chiamata per entrare ed iniziare il programma della giornata e pare che se qualcuno si azzardasse ad aprire la porta, Fratti reagisse in modo violento.».
«Chiaro» dissi a voce alta
«Non ti avevo detto di stare zitto?» mi rimproverò Flavio.
«No, no lascialo fare, forse potrà esserci d’aiuto» disse l’ispettore.
Guardai Flavio e lo vidi letteralmente “girato”.
«Mi dica ispettore» continuò Flavio «i tre sospetti hanno un alibi?».
«Chi ti dice che sia stato uno di loro tre? Potrebbe essere stato ucciso da qualcuno entrato dalla porta posteriore che da sull’ufficio».
«No.» intervenni ancora. «Non può essere ispettore. Guardi bene la porta. E’ chiusa dall’interno con un chiavistello e non ha nemmeno segni di forzatura. Flavio ha ragione. I sospetti sono i tre che sono nella saletta».
«Già. Hai ragione ragazzo. Non ci avevo fatto caso». Poi, gesticolando a più non posso con le mani, l’ispettore Ducato chiamò a se un uomo che stava chinato sul cadavere della povera vittima chiedendogli di andare ad interrogare i sospetti e verificare se avessero un alibi convincente.
Passammo circa una trentina di minuti a parlare amabilmente. Facemmo ipotesi. Cercai di scoprire di più e mentre stavo esaminando la scena del delitto, tra le urla di Flavio che mi voleva da parte, notai che la porta dalla quale il signor Fratti era entrato era rovinata sulla parte inferiore. Parte del legno, si era scorticato, forse con un oggetto appuntito. Quello che era certo è che era abbastanza recente. Non c’erano tracce di vecchio o di sporco sulla parte rovinata, quindi era una cosa abbastanza recente.
L’agente incaricato di verificare gli alibi, portò con sé tutti e tre i sospetti. Erano tutti e tre agitati. Tremavano come foglie sotto il peso incessante del vento.
Notai una cosa che prima non avevo notato. La moglie della vittima era molto più alta sia della segretaria che dell’assistente di Fratti. Questo era dovuto alle vertiginose scarpe con la punta e con un tacco di almeno cinque - sei centimetri.
«Ispettor Ducato, ho chiesto qualcosa, ma credo sia meglio parlino direttamente con lei e con il detective» disse l’agente.
«Ok, grazie comunque Vertoni. Bene signori, accomodatevi. Uno alla volta ci racconterete i vostri comportamenti nell’ora in cui è avvenuto il delitto».
Ducato si sedette alla scrivania della vittima e cominciò ad interrogare Veronica, la segretaria. Veronica doveva essere una ragazza abbastanza giovane. Non aveva sicuramente più di vent’anni. I lunghi capelli neri, arruffati, che consentivano a malapena di inquadrarle il viso e gli occhi, probabilmente sofferenti già per natura e non certo per la circostanza orribile in quale si era inconsciamente trovata, completavano il tutto.
«Allora signorina. Collabori con noi e non avrà problemi» disse Ducato. Flavio annuì, Veronica anche.
«Voglio che lei mi dica cosa ha fatto … diciamo tra le sette e trenta e le otto e trenta, periodo secondo il quale la scientifica ha accertato che sia avvenuto il decesso».
Veronica abbassò lo sguardo. Tremava più degli altri adesso, che stavano alle sue spalle e fissavano la scena come ignoti spettatori esterni privi di un qualsivoglia rumore dell’anima.
«Io… sono uscita di casa verso le sei e quarantacinque. Poi mi sono diretta allo studio. Sono entrata come al solito dalla porta principale e sono andata nel mio ufficio a sistemare l’agenda e programmare la giornata del signor Fratti.».
«Sa dirmi a che ora è entrata nell’ufficio signorina?» chiese Flavio.
«Be’…era molto presto…forse potevano essere le sette e quindici, non più tardi».
«Quindi lei sostiene di essere arrivata ben prima che avvenisse l’omicidio. Lei sostiene di essere stata già presente in ufficio quando il decesso è avvenuto. E possibile che lei non abbia udito alcun rumore? Un tonfo ad esempio?» chiese Ducato.
«N-no … non credo».
«Ne è proprio sicura?».
«Sì, ne sono sicura. Non ho sentito nessun rumore sospetto.»
«Lei ha un alibi per quello che dice?» dissi a voce alta
«C-come?»
«Domandavo se per caso, lei ha qualcuno che possa confermare che è uscita di casa alle sei e quarantacinque, che sia arrivata in ufficio alle sette e quindici e così via».
«Sì. Prima di arrivare in ufficio sono rimasta a parlare cinque minuti con la signora che abita qui di fianco. Può chiederglielo. Ogni mattina ci intratteniamo e scambiamo due chiacchiere».
«Grazie signorina, con lei ho finito, può andare.» disse Ducato che mi guardò con un’espressione del tipo “dovevo chiederlo io!”.
Ducato chiamò Oreste. Oreste era stato il primo che ci aveva accolto. Un uomo molto pacifico. Da lui di certo non potevi aspettarti un delitto, ma è anche vero che tutti possono commettere un crimine. Anche la persona meno indicata.
«Signor Norgi. Lei è l’assistente dello studio legale. Ripercorra i suoi movimenti. A che ora è arrivato in ufficio?»
«Verso le sette e trentacinque. Ero in ritardo stamattina»
«Può confermare qualcuno per lei?»
«Certo. Quando sono arrivato, Veronica era in sala d’attesa a sistemare le riviste del signor Fratti e mi ha visto andare in ufficio».
«Signorina conferma?» chiese con severità Ducato.
Veronica annuì con un semplice cenno della testa affermativo.
Poi intervenni io. «Ispettore mi scusi. Posso fare io una domanda al Signor Norgi?».
«Fai pure» disse infastidito l’ispettore. Eh già. Nessuno era contento di vedersi scippare le idee da sotto il naso.
«Prima di arrivare in ufficio? Lei cosa ha fatto?»
«Sono uscito di casa».
«Dove abita?».
«A due isolati da qui».
«Non è molto lontano. Come mai ha affermato di aver fatto tardi?».
«Be’ stamattina la sveglia non ha suonato e così ho fatto qualche minuto di ritardo».
Qualcuno ci interruppe. La signora Fratti si era alzata di scatto dalla sedia posta vicino alla porta. Nulla poteva fermarla. Gli occhi vitrei, davano forza immane alla sua voce rotta dal pianto. L’espressione del viso aveva quel non so che di tremendo. La bocca deformata a furia di singhiozzare, si aprì con una repentina movenza delle labbra.
«Sei solo un volgare bugiardo!» disse rivolgendosi a Oreste. L’assistente si girò di scatto in preda al panico, i suoi occhi si posarono sulla donna in fremito che gli puntava il dito contro. L’ispettore Ducato non seppe resistere alla tentazione e immediatamente prese parola
«Cosa? Signora si spieghi meglio!».
«Quel volgare bugiardo aveva un motivo per uccidere mio marito, è stato di sicuro lui!».
«Ma cosa sta dicendo signora? Io non ho ucciso nessuno, né tantomeno il signor Fratti!» rispose Oreste nel panico.
«E’ quello che vuoi farci credere assassino!» concluse scoppiando in lacrime. Ducato guardò storto Oreste. L’uomo era piegato su se stesso sulla sedia di fronte alla scrivania, parzialmente voltato verso la signora. Guardava imperterrito la donna piangere e singhiozzare. Aveva incolpato lui, il fedele assistente dell’avvocato. Lui, l’assistente da vent’anni, assassino del suo datore di lavoro.
Guardai bene la scena. La signora non faceva testo ormai. Piangeva più che parlare. Oreste era molto teso, scalpitava nella sua posizione, muoveva gli occhi in modo superveloce e si mordeva le labbra con un tic nervoso. La segretaria se ne stava in disparte, con gli occhi da cucciolo, l’espressione di chi non vede l’ora di tirarsi fuori da una situazione di estrema delicatezza qual è l’omicidio.
«Signora» attaccò Flavio. «La prego di collaborare con noi. Se sa qualcosa di controverso a proposito delle relazioni tra il signor Norgi, lo dica immediatamente. Ne va della giustizia che dobbiamo garantire al suo povero marito»
«Il signor Norgi» attaccò continuando a singhiozzare «aveva avuto una lite furiosa con mio marito solo qualche giorno fa! Me l’aveva raccontata! Diceva che per poco non arrivavano alle mani!»
Tutti guardammo Norgi. Lui guardò noi con l’espressione della povera vittima.
«Non le crederete vero?» disse rivolgendosi a Ducato.
«Be’…».
«Che cosa? Ispettore non può basarsi solo su una testimonianza di una visionaria!».
«Visionaria io?» rispose offesa la signora Fratti «Lei è un assassino senza nemmeno un po’ di vergogna!» e riprese a piangere.
«Ah si? Allora se la polizia si basa su inutili supposizioni di una persona comune, anche io posso farlo! Alla signorina Veronica, l’avvocato Fratti aveva appena negato le ferie! Anche lei aveva un movente per ucciderlo non è vero?».
Veronica per poco non scoppiava in lacrime. Si limitò a rispondere con la solita timidezza che ci aveva mostrato per tutto il tempo che eravamo stati lì.
«Ma-Ma cosa dice signor Norgi? E’ impazzito?»
«Ah no! Se qui ci si basa sulle supposizioni di una vipera trasformata in donna, ho il diritto di dire ciò che penso! Senza contare che il signor Fratti si confidava spesso con me e diceva che aveva dei problemi a casa con la moglie che non gli consentivano di lavorare serenamente! Anche la signora avrebbe avuto un valido movente».
«Ma come si permette!» La povera vedova si fiondò su Oreste e per fortuna tra loro c’erano un paio di agenti della scientifica che sedarono la tensione e stemperarono i toni. L’ispettore richiamò all’attenzione tutti con un urlo ed un pugno sul tavolo dicendo che non ci si poteva basare su false verità costruite al solo scopo di liberarsi dai sospetti.
Poi disse con il nervosismo in pancia: «Signor Norgi. Ci racconti del suo litigio con Fratti. Poi può andare.»
«Ok. Ma sappiate che non avrei mai potuto ucciderlo come dicono. L’altra sera ho confuso alcune pratiche di lavoro e il signor Fratti ha sprecato per colpa mia un paio d’ore di lavoro. Così, una volta accortomi dell’errore sono andato in ufficio a comunicarglielo, ma lui ha reagito violentemente tirandomi addosso un portapenne e dandomi dell’incompetente».
«Bene, può andare.»
«Signora Fratti, venga qua per favore» disse Flavio.
Mentre la signora si accomodava, Flavio si voltò verso di me, che ero rimasto a pensare ininterrottamente su quei pochi indizi a disposizione. Perché la porta di legno era sfregiata? Perché Fratti era stato ucciso e soprattutto da chi? Stando alle dichiarazioni tutti avevano un valido movente per ucciderlo, ma la mia logica non poteva agire in quel momento, non senza un altro indizio.
«Hai qualche idea pivellino?».
«Forse sì, forse no. Diciamo che mi sono fatto un’idea, ma mi mancano le prove».
Flavio non mi rispose. La testimonianza della vedova era appena iniziata e non voleva perdersela.
«Signora Fratti» cominciò l’ispettore «lei è la moglie della povera vittima. Per caso stamattina ha notato qualcosa di insolito in suo marito? Qualcosa che abbia potuto, che so, innervosirlo?».
«No ispettore. Giancarlo era calmo e tranquillo come al solito. Non ho notato nulla di insolito»
«Stamattina suo marito, stando alle prime ipotesi, è arrivato in ufficio verso le sette e venticinque.Che cosa avete fatto a casa?»
«Nulla di particolare ispettore» disse abbassando gli occhi «Abbiamo fatto colazione insieme, poi ha preso le sue cose e si è diretto a lavoro».
«C’è qualcuno che può confermarlo?».
«No mi dispiace».
«Non avevate figli?».
«No ispettore. Mio marito era sterile. Abbiamo provato in ogni modo ad avere figli in gioventù, ma nulla».
Mi avvicinai al cadavere. La morte era avvenuta per strangolamento. Probabilmente l’assassino aveva agito a mani nude, senza utilizzare nessun’arma. Sul collo della vittima c’erano segni delle dita delle mani, ma non era stato possibile verificare il DNA, perché l’omicida aveva indossato dei guanti per aggredire la povera vittima. Mentre stavo allontanandomi dal corpo e mentre la signora continuava a parlare, notai qualcosa di strano sotto le unghie della vittima. L’unghia del dito medio sinistro era parzialmente scheggiata e sotto di essa c’erano dei piccolissimi frammenti di pelle. Mi avvicinai alla mano della vittima, annusai il medio ed ebbi un’illuminazione. Ora tutto quadrava! Le mie deduzioni in principio erano giuste e adesso avevo anche le prove che dimostravano la colpevolezza dell’infame omicida. C’era solo una persona che poteva uccidere la vittima.

CASE 5 – Game Over

Decisi di far concludere l’interrogatorio della signora per agire. Dopotutto, nella polizia vige una certa etica/burocrazia, a seconda della circostanza. Terminata la circostanza, Ducato si alzò in piedi e rivolgendosi a Flavio disse:
«Ok Flavio, noi andiamo in questura. Se vuoi seguirci…»
Prima che Flavio potesse proferire parola, decisi di intervenire.
«Non sarà necessario ispettore. O almeno, non lo sarà per il momento»
«Ma cosa vai dicendo pivello!» esclamò Flavio con rabbia.
«Questo pivello» dissi guardando Flavio «ha appena risolto il caso».
La stanza puntò gli occhi verso di me e si riempì di un “che cosa?” generale, detto a voce alta e anche abbastanza fastidioso per le orecchie di un detective. Insomma, avevo voglia di dire “ho diciotto anni, non sono mica stupido!” ma mi trattenni per buon gusto. Mi balenò l’idea di rinunciare e lasciare a Flavio il tempo necessario per capire il mio ragionamento, ma decisi di non tergiversare e presi parola.
«Proprio così ispettore. Ho risolto il caso. Ho scoperto chi è l’assassino dell’Avvocato Fratti, e so anche come incastrare il colpevole».
«Ma non dire sciocchezze ragazzo! Non abbiamo prove a sufficienza per inchiodare qualcuno. Non siamo riusciti a trarre niente noi, figuriamoci uno alle prime armi come te!».
«Ispettore, per favore. Si fidi di me»
.Ducato parve quasi rassegnato. E con un gesto della mano di leggerezza che non dimenticherò mai mi diede il consenso di parlare.
«La ringrazio» dissi
Flavio si avvicinò a me e repentinamente mi sussurrò testuali parole «Se sbagli e mi fai fare brutta figura ti rispedisco a casa» Tenete presente che disse questa frase con un tipico sorriso bonario sulla faccia, tenendo denti stretti e occhi fissi sull’ispettore. Incoraggiante per un novellino arrivato da poco in una grande città.
«Se non vi dispiace, passo alla spiegazione».
«Prego» disse Ducato.
Tutti mi fissavano. Vi confesso che ero un tantino nervoso.
«L’assassino ha costruito un piano ben congeniato che è riuscito ad ingannarci tutti fin dal primo momento. L’astuzia di questa persona è stata degna di un grande libro giallo e devo dire che sono sorpreso che una mente umana possa arrivare a questo. Innanzitutto, come comunicato prima dalla scientifica e dall’ispettore, il delitto è stato commesso da uno di questi tre sospetti, che a turno sono stati interrogati.
Tutti e tre avevano un movente valido per uccidere la povera vittima e non negatelo signori. Tutti potevate commettere questo efferato delitto».
«Allora? Che cosa aspetta a dirci il nome del colpevole?» disse la signora Fratti
«Signora Fratti, non avrei tanta fretta se fossi in lei. Infatti stavo giusto per comunicare alla polizia che il colpevole dell’omicidio di suo marito è proprio lei!».
«Lei è solo un ciarlatano!» urlò la signora che fu sedata da Ducato in modo pacifico
«Spero tu possa spiegarci» incitò Ducato. Flavio era rimasto a guardare.
«Certo ispettore. Sappiamo che il delitto deve essere avvenuto nell’intervallo di tempo che va dalle sette del mattino alle sette e trenta. Possiamo dire che il delitto è avvenuto, visto la mia tesi che mi accingo a spiegarvi, verso le sette e quindici».
«Ecco che hai commesso un erroraccio da dilettante! Non può essere! Il signor Fratti è arrivato in ufficio intorno alle sette e venticinque. E il delitto è stato commesso qui signori, ricordiamoci di questo piccolo ma importante particolare».
«Ed è qui che vi sbagliate. La scientifica ha detto che il delitto è stato commesso circa un’ora prima che noi arrivassimo sul posto, quindi intorno alle sette e quindici. Tuttavia, come noi sappiamo, la scientifica non può calcolare l’ora esatta. Perciò è possibile che il tempo del decesso sballi, visto che non sono stati fatti ancora esami approfonditi ma solo qualche ipotesi, calata dall’irrigidimento del corpo. Chiami pure la scientifica. Sono sicuro che l’ora del decesso corrisponda a circa quarantacinque-cinquanta minuti prima del nostro arrivo.» dissi con tono serio
«Cosa?».
«Sì. E’ questo l’errore. Credere che il delitto sia avvenuto nell’ufficio, e credere che il signor Fratti sia stato ucciso da qualcuno che sia entrato nell’ufficio in modo fittizio. Inoltre al nostro arrivo il corpo della vittima era completamente flaccido e come voi sicuramente sappiate l’irrigidimento del corpo avviene solitamente in un intervallo di una - tre ore dalla morte. Ora che sono passate circa due ore dal decesso il processo di rigor mortis si sta susseguendo con l’irrigidimento delle ginocchia, dopo quello della mascella e dei gomiti.
«E’ vero! Ma…vuoi spiegarci come ha fatto l’assassino?» disse spazientito Ducato.
«Certo ispettore. Il decesso non è avvenuto in ufficio, bensì nell’abitazione dei Fratti! La signora, dopo aver fatto colazione con suo marito, ha approfittato di un evidente momento di distrazione della povera vittima, ha indossato dei guanti ed ha cercato di strangolare suo marito. Non ha calcolato bene i tempi però ed ha effettuato la presa mentre suo marito si stava voltando. La signora però ha approfittato della corporatura esile di suo marito ed ha stretto ancora di più la morsa. Il signor Fratti ha cercato di difendersi e con le ultime forze è riuscito a imprimere le mani sul collo del suo assassino.».
«Cosa?» disse l’ispettore.
«Faccia controllare da uno degli agenti. Sotto il dito medio sinistro della vittima sono presenti frammenti di pelle. In più l’unghia è scheggiata, segno che per la troppa forza esercitata l’avvocato si sia rovinato l’unghia».
«Corrisponde ispettore» disse l’agente della scientifica che nel frattempo si era precipitato a verificare che le mie affermazioni fossero corrette.
«E’ incredibile» disse l’ispettore a voce alta. L’impressione è che probabilmente non voleva dirlo in modo da poter essere sentito da tutti, ma comunque per sua sfortuna, lo sentirono eccome.
«E non è tutto. Come le dicevo, dopo che il signor Fratti era definitivamente morto, sua moglie ha avuto la lucida freddezza di caricarlo in macchina, approfittando del magro corpo, credo nel cofano, e di portarlo qui in ufficio. Insomma, quanto poteva pesare la vittima? Cinquanta chili? Cinquantacinque? La signora, mi perdoni, pesa sicuramente di più ed ha la forza necessaria per trasportarlo. Sicuramente, quando la signora è arrivata all’ufficio suo marito era già morto da un pezzo ed erano le sette e venticinque circa. Lei, signora Fratti, sapeva benissimo delle abitudini di suo marito. Sapeva che entrava sempre dalla porticina posteriore, sapeva che non voleva essere disturbato per almeno un po’ di tempo, ed ha sfruttato tutto questo a suo vantaggio. Un piano veramente ben congeniato. Ha messo quindi il cadavere a terra, ed ha rovesciato al suolo qualche soprammobile e qualche libro in modo che noi potessimo credere che suo marito era stato vittima di un’aggressione».
La vedova era in preda ad una crisi di nervi. Lo sguardo spento e vitreo illuminava la sua indubbia colpevolezza. Mi guardò e parlando così velocemente, quasi da non poter essere capita, ricominciò ad insultarmi ripetutamente.
«Lei non ha prove contro di me! Lei è solo un insulso detective da quattro soldi! E lei» disse rivolgendosi a Ducato «Lei fa mettere il becco di un ragazzino in queste circostanze? Dovrebbe vergognarsi!»
Ducato mi guardò e mi fece un cenno del tipo “continua pure”.
«Lei si sbaglia signora.»dissi a voce bassa. «Io le ho eccome le prove della sua colpevolezza. Purtroppo per lei, sono più di un semplice terzo incomodo. Non posso stare zitto di fronte alla sua crudeltà».
«Hai le prove? E quali sono? Sono curiosa!» ostentò con visibile aria di sfida.
«Come ho detto prima, sotto le unghie della vittima ci sono frammenti di pelle. Sono sicuro inoltre che se saranno mostrati i risultati delle prove del DNA che sicuramente la polizia farà, risulterà un codice genetico esattamente identico al suo. Come se non bastasse, annusando le unghie della vittima, o più precisamente i frammenti di pelle sotto le unghie della vittima, si può notare come siano impregnate di un profumo tipicamente femminile».
«Forse lei» continuò la signora «ha dimenticato che c’è anche la segretaria che potrebbe aver indossato il mio stesso profumo».
«No signora. Non l’ho dimenticato. E’ solo che non volevo arrivare a questo punto. Sa, l’ostinazione di fronte alle prove certe è una delle forme di ignoranze più diffuse. Lei le prove della sua colpevolezza ce le ha addosso. Infatti, sono convinto che se avrà la cortesia di spostare i suoi lunghi capelli, da qualche parte sul collo ci saranno i segni lasciati dal tentativo disperato della vittima di salvarsi.».
Il suo sguardo si fece ancora più spietato e cattivo. Dovevo aver colpito nel segno.
«Inoltre» continuai mentre stava cercando di rispondere «sulla porticina sul retro dalla quale suo marito entrava in ufficio tutte le mattine, ci sono dei segni di scorticamento, proprio all’altezza dei piedi.».
«E allora?» disse l’ispettore
«Osservi bene le scarpe dei sospetti ispettore. La signora Veronica indossa comuni scarpe da tennis, mentre Oreste ha delle scarpe comuni. L’unica ad avere scarpe con il tacco,anzi in questo caso con la punta adunca è la signora Fratti».
Lo sguardo dell’ispettore divenne di fuoco. Flavio guardava e riguardava i volti dei sospetti e sudava.
«Infatti» continuai tra lo stupore generale «i segni di scorticamento vicino alla porta in legno, possono essere stati fatti solo in modo accidentale, e quale miglior modo casuale ed accidentale del trasporto di un cadavere?».
«Cosa? Vuoi dire che la vittima ha fatto quei segni?» chiese Flavio spazientito.
«No. Non ho detto questo. La signora, ha aperto la porta dell’ufficio e mentre trascinava il cadavere e lo metteva a terra, ha urtato casualmente contro la porta con la punta della sua scarpa. La punta della scarpa deve aver raschiato minimamente la porta».
«Questa non è una prova! Potrebbe essersi rovinata prima non credi?» disse l’ispettore.
«Eh no! Se la porta fosse stata rovinata in precedenza, non credete che sulla parte sulla quale manca il legno raschiato ci debbano essere tracce di sporco? Ricordiamoci che il legno è stato tolto sulla facciata della porta che si volgeva verso l’esterno. In questi giorno ha piovuto e vicino al legno rovinato doveva esserci almeno un segno di rovina. Invece nulla, pulitissimo. Ne deduco che il taglio è stato fatto da poco. Il resto della storia la conoscete. Cosa ha da dire signora?».
Un agente della scientifica controllò sotto i capelli della signora. Sulla parte posteriore del collo, c’erano esattamente i segni che la vittima aveva provocato al suo aggressore per tentare di salvarsi disperatamente.
La signora si gettò in ginocchio tra lo stupore generale.
«Lo ammetto» disse con la testa tra le mani «l’ho ucciso io, ma l’ho fatto per una buona ragione».
«Signora, non esiste nessuna buona ragione per togliere la vita ad una persona » sussurrò Flavio.
«Stia zitto! Lei non sa nulla della mia famiglia! Mio marito mi tradiva da anni con mia sorella, una sgualdrina senza cuore. Quando, tre mesi fa scoprii alcuni messaggi sul suo cellulare, litigammo come furie. Sapete che mi disse? “Preferisco tua sorella a te, perché lei sa come prendermi. Tu sei solo una povera illusa!”. Non mi pento di averlo ucciso. Non ho nessun rimorso!».
Tutti noi ci stavamo guardando stupiti. Era incredibile dove poteva arrivare la follia umana. Quella donna aveva ucciso suo marito, con il quale aveva condiviso anni e anni di vita, con una freddezza disarmante e, colta in flagrante non mostrava nessun segno di pentimento. Ero basito. Gli agenti e l’ispettore misero le manette all’assassina, che si alzò da terra a fatica con un fare bellicoso. Giustizia era stata fatta. Una famiglia distrutta per l’ira di una donna che aveva subìto il peggior tradimento della sua vita.
L’ispettore poco prima di andare mi salutò con un cenno della testa e disse «Bel lavoro ragazzo». Successivamente si rivolse a Flavio sussurrandogli «E’sorprendente!». Il mio caro tutor si limitò ad annuire con la testa e con mia grande gioia riuscii a cogliere sul suo volto una nota di soddisfazione. Forse avrebbe avuto maggior rispetto. Ma forse sbagliavo io. “Il rispetto te lo devi guadagnare” mi ripetei a dentro di me.
Pensavo. Pensavo a come sarebbe potuta andare la mia esperienza a Torino. Pensai a mio padre in quel momento. Pensai a Bianca, a come avrebbe reagito nel sapere che io, persona incoraggiata da lei fin dal mio arrivo, avevo risolto il mio primo caso in quel di Torino. Il pensiero andò anche a Marbelli. Il commissario era un vecchio amico di famiglia. Come ho già detto, fu lui ad iscrivermi al PDS e a farmi tentare questo genere di carriera, dopo che, ancora minorenne avevo collaborato con varie intuizioni corrette al lavoro della polizia. Il corso mi aveva arricchito tecnicamente parlando. Ma penso che per avere una formazione completa ed a trecentosessanta gradi della professione che volevo intraprendere, forse dovevo stare accanto a qualcuno che il mestiere lo masticava, lo digeriva e lo riproponeva ormai da almeno un ventennio. Flavio era senza dubbio, nonostante i modi scorbutici, abbastanza competente. Forse mancava di lucidità. L’impressione è che avesse effettive doti di deduzioni più o meno giuste, ma senza dubbio non era un detective basato su quello. Forse in carriera aveva solo guidato qualche operazione. Forse sapeva come nessun altro come organizzare un’operazione di polizia. Forse, sapeva come nessun altro intuire dalle confessioni chi fosse il colpevole. Forse, ero io ad essere troppo gasato in quel momento. Meno male che Andrea contribuì a riportarmi sulla Terra.
«Fratellone, andiamo? Ho fame, devo ancora fare colazione!» disse scuotendomi il braccio.
«Oh si certo piccolo, scusami ero sovrappensiero».
Ci dirigemmo verso l’esterno dell’ufficio. Salutammo Oreste Norgi e Veronica Buondini. Innocenti trapiantati in un incubo. Oreste sembrava quello più provato. Nonostante Veronica si dimostrava abbastanza timida, in quel momento ebbi l’impressione che i due fossero completamente diversi. Oreste assomigliava ad un castello di carte ed aveva costruito il suo su una base di sabbia. Veronica, nel suo silenzio, possedeva un castello di pietra, con base di cemento, utile per resistere agli urti.
Usciti dall’ufficio ci dirigemmo verso un bar. Anzi, verso il bar più vicino.
Presi un caffè macchiato. Flavio si concesse un ulteriore caffè corretto, mentre il piccolo chiese espressamente «cornetto e cappuccino».
Andrea era un bambino abbastanza silenzioso. Era rimasto in silenzio per più di un’ora. Avevo visto suo fratello in bilico nelle indagini. Aveva visto Flavio comportarsi bene con lui, aveva assistito ad una confessione di un assassino, eppure non sembrava né spaventato, né turbato. Sarà che subiva il fascino di quel mestiere. Sarà che aveva così tanta voglia di vedere da vicino un caso poliziesco colmo di detective che
la voglia di vederlo soppiantava la paura.
«Niente male» mi disse Flavio mentre mi accingevo a pagare
«Grazie Flavio».
«Non montarti la testa però. Ho conosciuto agenti di polizia che avevano capacità deduttive straordinarie e si sono persi per la strada, mi raccomando, non fare lo sbruffone, non sentirti già formato».
«Prometto. Non lo farò» dissi sorridente a trentadue denti.
Flavio ricambiò il sorriso, ma l’impressione che ebbi fu davvero strana. Non era il mio sorriso pacifico. Nascondeva un non so che di sfida aperta, come se con un semplice gesto involontario (o volontario) avesse voluto dirmi “hai appena cominciato, ti darò filo da torcere”. D’altronde avevo voluto questo. Nessuno mi puntava una pistola alla tempia, nessuno voleva spararmi. Marbelli mi ha messo sulla strada, alla macchina ci ho pensato io. Giusto così, il carburante si sarebbe chiamato responsabilità.








ANTICIPAZIONE EPISODIO 2!

L'interesse e l'ambizione divorano le persone. Nel prossimo caso, l'omicidio di una donna d'affari che all'apparenza non sembrava potesse nascondere segreti. Un caso che sfida le capacità deduttive per il nuovo eroe del giallo! 
ALEX FEDELE-EPISODIO 2: SOLO PER INTERESSE---Solo su questo blog a partire dal 23 Agosto!



Nessun commento:

Posta un commento

Commenta qui e dimmi che ne pensi!