Note: Episodio importante per la trama
PROLOGO:
Un nuovo detective è arrivato in città. Il suo nome è Alex Fedele. Il diciottenne al suo primo caso. Al suo fianco, un uomo col passato tormentato ed una donzella senza peccato. Sta per cominciare Alex Fedele!
LA
PROMESSA
CASE
1 – L’arrivo
Volevo andarmene.
Onestamente. I miei capelli castani scuri, quasi neri, cadevano sulla mia
fronte corrucciata e toccavano le folte sopracciglia. Gli occhi castani scrutavano ogni millimetro
del vuoto. Non pensavo a nulla di particolare, ma era così. Per me che avevo
sempre vissuto in una piccola città, era uno shock arrivare in una metropoli.
Era uno shock la circostanza stessa. Ritrovarsi a diciotto anni, a cambiare
realtà, usi, costumi, abitudini e movenze abitudinarie. Il taxi su cui ormai
ero salito, stava giungendo a destinazione. Doveva portarmi in Via Galileo 10,
nella stessa strada dove avrei dovuto abitare per chissà quanto tempo. Già.
Avevo superato brillantemente il corso ministeriale PSD (Promesse Settore Detective)
e, sempre per ordini dall’alto, mi accingevo a trasferirmi in una grande città
per un periodo di collaborazione con un’agenzia investigativa che si era messa
a disposizione del ministero anche per (forse solo per quello) scopi economici.
Il ministero offriva una rendita annuale di 12000 euro a ogni agenzia che si
dimostrasse volenterosa. Valeva a dire 1000 euro al mese. Un bel gruzzolo se
sommati ai proventi dell’agenzia stessa.
«Siamo arrivati
fratellino?».
«Non ancora
Andrea, porta ancora un po’ di pazienza».
Per lo più, mi
ritrovavo con il mio fratellino a carico. Andrea non era un elemento di
disturbo. Assolutamente. Sapete però com’è. Accudire e occuparsi di un bimbo di
cinque anni è impegnativo per chi è genitore, figuriamoci per chi, come me era
ancora un ragazzino. Il fatto è che mio fratello maggiore era in viaggio per
motivi universitari nei vecchi USA, mia madre lavorava presso una compagnia
televisiva abbastanza nota in Giappone e non avevamo un padre da circa cinque anni.
«Siamo arrivati ragazzo»
la voce del tassista risuonò nel silenzio dell’auto coperto solo dal rumore
incessante e fastidioso del motore. Il mio fratellino si distolse dal suo
giochino, il noto “cubo di Rubik” e alzò la testa per guardare in che razza di
posto ci trovassimo. Ricordo che la sua espressione non mi piacque per niente.
«Grazie signore,
quanto le devo?» dissi esordendo nel mio miglior sorriso triste.
«Quindici euro»
rispose lui con freddezza.
Andrea ed io
scendemmo dal taxi. Lui aveva voluto per forza venire con me. Non gli andava
l’idea di vivere negli Stati Uniti con Stefano, né quella di cambiare
completamente cultura in Giappone, seppur ci lavorasse la mamma, donna
straordinaria e nel pieno della carriera giornalistica. Per esclusione era
stato affidato a me e lui a casa, nella nostra piccola Fondi, si era dimostrato
entusiasta, tanto da definire il lavoro di detective privato “uno spasso”.
Adesso non sembrava più così. Eravamo fermi di fronte ad un cancello ferrato di
color ruggine. Fissavamo il palazzotto che c’era al di là del giardinetto
tenuto in ordine quanto bastava per fare una discreta impressione. A tutto
questo, faceva da contorno un tempo non certo da suscitare applausi e feste. Il
cielo di Torino era grigio. Grigio come il mio umore. Ero pentito di aver
accettato questa strada, ma un po’ per amor mio, un po’ perché il commissario
Marbelli, intimo amico di famiglia e che mi aveva visto crescere, aveva
insistito giudicandomi “un talento nel mestiere”, avevo accettato con
sufficiente entusiasmo. Non voglio farvi equivocare. A me il lavoro da
detective piaceva, eccome. Era un mio sogno fin da bambino. Solo che le cose
finché non ti ci trovi ti sembrano tutte più strane.
«Dobbiamo suonare
piccolo» sussurrai
«Sicuro?».
Risi. La tenerezza
di un bambino che aveva paura della nuova realtà.
«Eh sì. Non vorrai
buscarti un raffreddore fuori al freddo?» Non mi rispose per nulla. Abbassò la testa
e scomparve nel piumotto color verde scuro. Mi abbassai sulle ginocchia, gli
sollevai il capo e lo guardai negli occhi.
«Andrà tutto bene» tentai di consolarlo.
Mi guardò con aria sfiduciata.
«Tu non dovrai temere nulla. Starai con me, andrai a scuola, come
sempre. Non abbiamo alternative fratellino. Ti prometto che se farai il bravo
ti farò un bel regalo».
Il suo sguardo s’illuminò. Forse lo avevo parzialmente
rassicurato. Era la cosa più importante in quel momento. Ci accostammo al
cancello, avvicinammo al campanello, l’unico con la scritta d’identificazione.
“AGENZIA INVESTIGATIVA FLAVIO MOGGELLI”. C’era poi un campanello
sopra la scritta con l’adesivo leggermente scolorito che recitava “MOGGELLI”.
Non feci in tempo a suonare. Alle mie spalle si era insediato
qualcuno.
«Scusa, cosa stai facendo?» mi domando candidamente.
Mi girai. Devo ammettere che non mi pentii affatto di averlo
fatto. La mia vista si era rallegrata alla vista di una ragazza pressoché della
mia età, forse leggermente più piccola, ma doveva essere comunque questione di poca
roba. Il viso che mi ritrovavo di fronte era davvero gradevole e quanto di più
affascinante potessi desiderare. Gli occhi castani scuri scrutavano ogni
centimetro della scena che si era ritrovata di fronte. Le sottili sopracciglia,
il nasino minuto e la bocca piccolina erano il preludio di una cascata di
capelli neri, lunghissimi e molto ben tenuti. Non erano lisci al cento per
cento. Avevano qualche “rimbalzo” alterno di tanto in tanto e pur non essendo
mai stato un maniaco del trucco e della moda in generale, mi accorsi che erano
scalati. Le meches di colore castano chiaro risplendevano come pietre preziose
sui neri capelli e davano quel tocco sbarazzino di cui quel taglio aveva
bisogno. Dopo essere stato circa dieci secondi a fissarla come un perfetto
idiota, la lingua cominciò a voler essere indipendente dal cervello e così riuscì
a bofonchiare qualcosa.
«Mi chiamo Alex Fedele, sono stato mandato qui dal ministero. Sai
è per quel progetto che ha a che fare con il signor Moggelli».
«Ah sì, hai ragione» sussurrò. «Dovevo immaginarlo. Be’ ma chi è
questo bimbo?» disse illuminandosi rivolgendosi ad Andrea.
«E’ il mio fratellino. Si chiama Andrea».
La ragazza tentò di socializzare con mio fratello, ma il
piccoletto era abbastanza diffidente e quindi si nascose dietro la mia figura
peraltro non certo imponente.
«Scusalo» dissi con un po’ di imbarazzo. «E’ molto timido».
«Oh non c’è problema. Ma che ci facciamo ancora qui? Entriamo, ti
faccio vedere la casa e l’agenzia» disse sciogliendo il ghiaccio.
Così facendo aprì il cancelletto color ruggine con un mazzo di
chiavi vecchio quanto il mondo.
«A proposito non mi sono presentata. Mi chiamo Bianca. Sono la
figlia del signor Moggelli»
«Molto piacere. In qualche senso l’avevo già immaginato»
sussurrai.
«Roba da detective?» domandò.
«Già» e risi in modo naturale. Lei fece lo stesso.
CASE 2 – Casa Moggelli
Aprì la porta di mogano ed entrò. La casa si apriva con un
corridoio abbastanza stretto, dove c’era solo un mobiletto con su un telefono
fisso collegato a una presa.
Bianca ci fece strada, dimostrando di essere un’ottima padrona di
casa. Svoltò a destra e ci portò in una cucina abbastanza accogliente. Oltre al
consueto piano di lavoro, con tanto di forno e quant’altro, c’erano la
lavastoviglie e un tavolo, sempre di mogano, con al centro un contenitore di
frutta finta. Usciti dalla cucina, a sinistra del piccolo corridoio, c’era un
salottino abbastanza spazioso, con un divano bianco ad angolo e una televisione
al plasma ultimo modello. Non mancavano poltroncine e un tavolino (accerchiato
da divani e poltrone) di vetro con alcuni posacenere sopra. Alle spalle del
divano ad angolo, verso sinistra, era posta una scrivania di legno antico che
dava le spalle ad una grande vetrata, coperta da tende color salmone. Accanto
ad essa, verso l’angolo della stanza una lampada grandissima molto elegante. Di
certo era una casa dove vigeva il buon gusto. Verso la parte destra del
salottino, c’erano un’altra vetrata, una libreria molto grande dove erano stati
accatastati una moltitudine di libri e alcune piante che sentivano la presenza
del tempo. C’era inoltre una scala che portava al piano superiore. Nel piano
superiore erano accostate quattro camere da letto, due bagni e una piccola
saletta con tavolo e sedie. C’erano numerose finestre e numerosi balconi. Scesi
poi al piano di sotto, Bianca continuava a parlare, ma francamente e in tutta
sincerità, non la stavo a sentire poi tanto. Ero molto impegnato ad ambientarmi
nella casa nella quale avrei dovuto abitare per un po’ di tempo. Sempre all’uscita
del piccolo corridoio, verso giù, c’era una porta di legno, molto più vecchia
delle porte della casa, dava spazio nell’ufficio di Moggelli. L’ufficio era
arredato in modo abbastanza sobrio. Era spazioso. Ad occhio e croce circa
trenta metri quadrati. Una scrivania di legno troneggiava in fondo alla stanza,
con delle sedie modernissime al di là di essa. Un piccolo salotto era stato
allestito ai piedi della stanza. A tutto si aggiungeva una piccola televisione
attaccata al muro e volta verso la scrivania, una libreria con poche pratiche cartacee
messe in evidente disordine e molti fogli messi in terra. A dir la verità mi
sembrava tutto, tranne che un ufficio di un detective. Mi avevano detto che
l’agenzia non andava come avrebbe dovuto, ma comunque devo dire che mi aspettavo
di più.
Nell’ufficio, verso il fondo in diagonale, c’era un piccolo
portoncino, sempre di legno, impreziosito da alcuni scalini che permettevano di
aprire solo se percorsi.
«Allora, che ve ne pare?» domandò Bianca. Quella fu l’unica cosa
che ascoltai durante il discorso che mi aveva fatto in precedenza.
«E’ una casa molto carina, complimenti. E’ davvero bellissima»
affermai
«Sono contento che ti piaccia. Tu e tuo fratello starete in camere
separate, ma comunque starete vicini, va bene così?».
«Certo, è perfetto. Ti ringrazio molto di avermi guidato»
«Di niente.» disse con gentilezza.
La porta dell’ufficio, quella degli scalini, si aprì
improvvisamente. La chiave girò nella toppa, la serratura scattò e mi ritrovai
di fronte un uomo altissimo, che sfiorava sicuramente il metro e novanta. Era
molto magro, direi longilineo. Aveva sicuramente qualche rotolino, che però non
aggravava la sua persona. La barba incolta gli incorniciava il volto.
Alla nostra vista si sorprese, quasi non si aspettasse di trovarci
lì.
«Be’, Bianca cosa ci fai qui?»
«Ciao papà. Stavo mostrando la casa ad Alex».
«Alex?» pronunciò il mio nome quasi con disprezzo. Forse era solo
una mia impressione. Essendo diffidente per natura me lo sarei dovuto aspettare
da me stesso.
«Ah» continuò poi, «sei tu ragazzo?» disse rivolgendosi a me.
Gli tesi la mano per stringergliela, per presentarmi, per
educazione. Lui la guardò con diffidenza e sorrise in modo sarcastico. Non
nascondo che ci rimasi piuttosto male.
«Allora se non sbaglio, tu dovresti essere il ragazzino che il
ministero ha mandato qui, dico bene?».
«Sì».
«Be’ ragazzo, non hai proprio l’aria del detective, anzi non hai
proprio l’aria di uno sveglio». Che gentile vero? Aveva subito instaurato un
clima pesante. Bianca aveva abbassato lo sguardo come per dire “perché a me
questo guaio?”; lui si era tolto la giacca ed era rimasto in camicia con una
cravatta nera. Si sedette alla sedia della sua scrivania e cominciò ad
esaminare alcuni fogli che aveva messo, probabilmente distrattamente, in quella
posizione.
«Allora?» continuò. «Cosa fate lì impalati come due idioti?
Bianca, non hai compiti?».
«Si papà».
«E allora non c’è motivo per il quale tu rimanga ancora nel mio
ufficio».
Bianca si allontanò, con un’espressione che onestamente non mi
sembrava né delusa, né amareggiata, né impressa di qualsiasi altro sentimento
controverso. Probabilmente quei dialoghi erano abitudinari tra padre e figlia.
Probabilmente Flavio, quello il suo nome, non era così scorbutico, oppure lo
era ma solo per rafforzare un carattere necessariamente troppo debole. Forse
però stavo fantasticando troppo e mentre ero assorto nei miei pensieri, la voce
dura, rude e stoica dell’uomo mi fece sobbalzare.
«Anche tu ragazzo, come hai detto di chiamarti? »
«Alex».
«Alex, siediti di fronte a me e attendi un momento. Dovremo fare
un bel discorsetto noi due»
Mi sedetti di fronte a lui. Flavio aveva la testa abbassata sulle
pratiche, le esaminava, le spulciava minuziosamente e talvolta le correggeva a
penna. Poi alcune le strappava e le “cestinava”
letteralmente ed altre invece le riponeva nel cassetto della scrivania
alla quale era seduto. Il silenzio totale durò circa dieci minuti. Non si mosse
una foglia. Poi ad un tratto, grazie ad un urlo che mi si stava strozzando in
gola, il signor Moggelli cominciò a parlare sollevando lentamente la testa
dalle pratiche e togliendosi gli occhialini per leggere da vicino che aveva
indossato.
«Allora Alex, dimmi un po’» esordì «cosa ti spinge a fare questo
mestiere?».
Mi imbarazzai. «Be’ signore io…» mi interruppe.
«Non cominciare ad incantarmi con queste cose formali. Dammi del
tu e chiamami Flavio»
«Ok. Come dicevo, non c’è un motivo particolare per il quale ho
deciso di intraprendere questa strada».
Fece un mezzo sorriso, naturalmente sarcastico, prese fiato e
rispose con una calma invidiabile.
«Quindi, tu ti sei trasferito da…da dove ti sei trasferito?».
«Fondi».
«Dov’è?».
«Provincia di Latina».
«Dicevo … ti sei trasferito da Fondi, piccola città ridente, a
Torino grande metropoli per fare carriera e non sai il perché? Hai bisogno di
fosforo ragazzo.»
«Diciamo che ho sempre amato collaborare con la giustizia, ma con
quella vera».
«Cosa vuoi dire?» sussurrò mantenendo il ghigno.
«Che mi piacerebbe garantire la vera giustizia».
«E cosa ti fa pensare che non tutta la giustizia sia autentica?».
«Be’ tante cose»
«Sei vago … perché non approfondisci e mi fai capire davvero cosa
pensi?».
«Semplicemente penso che non sempre la legge sia uguale per tutti».
Il suo volto s’incupì. Probabilmente avevo colpito nel segno. A
Fondi mi avevano detto che Flavio era stato per quindici anni nelle forze
dell’ordine. Un uomo di giustizia come lui non poteva sopportare che un
ragazzino gli dicesse cose così forti. Si alzò lentamente dalla sedia. Andò
verso la sua destra, a consultare la libreria. Poi prese un fascicolo di colore
giallo ocra, e lo lanciò sul tavolo in segno di sfida. Poi si risedette al suo
posto e cominciò a parlare prendendo tanto fiato.
«Davvero pensi questo ragazzo?»
«Perché non dovrei?»
Aprì il fascicolo. All’interno c’erano un sacco di cartelline
trasparenti, un sacco di documenti, un sacco di articoli di giornale, di
ritagli fotografici, di attestati al merito poliziesco e quant’altro.
Prese una cartellina, estrasse un foglio di giornale sotto
l’evidente peso degli anni e lo aprì con scioltezza.
«”Padova”» disse cominciando a leggere «”Brillante operazione poliziesca
oggi nella cittadina veneta di Padova. La collaborazione delle forze
dell’ordine nostrane con quelle della città di Torino è stata provvidenziale per catturare Giancarlo
Fannorini, noto ricettatore. Per Fannorini sono stati necessari tre anni di
appostamenti. I leader dell’operazione sono stati l’ispettore Giovanni Andrelli
del distretto padovano e l’ispettore Flavio Moggelli del distretto di Torino”».
«Conosco questa storia»
Sembrò non ascoltarmi, prese un altro foglio e ricominciò a
leggere.
«”Torino”. La polizia ha finalmente arrestato Bernardo Mastroni,
noto spacciatore assassino che aveva seminato panico in tutto il nord del
Belpaese. Mastroni è stato brillantemente fermato al termine di un inseguimento
per tutta Torino dall’ispettore Flavio Moggelli che ha dichiarato che questa è
stata la vittoria definitiva della giustizia».
Mi guardò con aria di sfida
«Allora ragazzino. Cosa ti fa pensare che la giustizia sia
sporca?».
«Il fatto che ci sono decine di reati civili e penali rimasti
impuniti».
«Davvero? E tu sai perché?».
«Perché la polizia si rifiuta di indagare oltre».
Diede un violentissimo pugno sulla scrivania. Pensai che se non si
era rotta con quel gesto, probabilmente sarebbe durata ancora una buona decina
d’anni. Si alzò di scatto, ispezionò la stanza con il suo passo aggressivo e
felpato.
«Che insolenza! Un ragazzino viene nello studio di un uomo di
giustizia a dire che questa è corrotta. Non hai un briciolo di vergogna».
«Che c’è? Non posso esprimere una mia opinione?».
«E’ un’opinione abbastanza stupida».
«Potrei dire lo stesso della tua».
La stanza si gelò. Ci eravamo conosciuti da nemmeno mezz’ora
eppure avevamo già tastato i punti di cedimento dell’uno e dell’altro. Mi
guardò con occhi di fuoco, spiritati. Le sue braccia possenti appoggiate alla
scrivania tremavano per l’agitazione. Si era sbottonato i primi bottoni della
camicia e si intravedeva il suo respiro. Un misto di adrenalina all’ennesima
potenza mescolata con violenza.
Poi si voltò e vide mio fratello. Già Andrea. Era rimasto seduto
su una piccola sedia sistemata al vertice sinistro della stanza. Non mi ero
nemmeno accorto ci fosse in quella circostanza. Non aveva aperto bocca da
quando avevamo conosciuto la famiglia Moggelli.
«Chi è quel piccoletto?» disse a voce alta.
«Mio fratello Andrea».
«Resterà con noi?».
«Se ci sono io deve starci anche lui».
Si avvicinò con aria da sbruffone a mio fratello. Seguii i suoi
movimenti con lo sguardo. Gli si mise davanti e abbassandosi sulle ginocchia
sussurrò testuali parole.
«Allora giovanotto, quanti anni hai?».
«Cinque» rispose timidamente Andrea.
«Bene. Quindi vai ancora all’asilo?».
«Sì».
«Mi sembri un po’ agitato. Vuoi qualcosa da bere, vuoi mangiare
qualcosa?».
Insolitamente gentile il tipo. Stavo scoprendo un Flavio che mi
era stato oscuro fino ad allora. Con i bambini sapeva essere quantomeno
premuroso. Dovevo aspettarmelo. Aveva anche lui una figlia.
«No grazie signore» rispose educatamente mio fratello.
«I tuoi genitori ti hanno educato bene ragazzino. Sicuro però di
non volere niente? Ho della cioccolata in casa, un pezzo di torta, un po’ di
semplice acqua?».
«No grazie, sto bene così».
Flavio si sollevò da terra e disse:
«Ok. Allora mangerai a cena come tutti».
Flavio ritornò alla scrivania con fare militaresco e fissandomi
cominciò un nuovo discorso.
«Bene ragazzo.» disse guardandosi l’orologio. «Sono le sei e
trenta. Tra poco si cena. Tu intanto sistema la tua roba e quella del tuo
fratellino nelle camere da letto. Fatti aiutare da Bianca se vuoi per il
bambino».
«Grazie mille». Mi alzai e gli augurai buon lavoro. Presi per mano
Andrea ed uscì dall’ufficio.
Uscito dall’ufficio mi diressi ciondolante nel corridoio. Il
dialogo con Flavio mi aveva leggermente scosso. Non era stato molto ospitale ,al
contrario di sua figlia.
Entrando in salotto Bianca mi vide e decise di accompagnarmi alle
camere da letto. Per le scale parlò del più e del meno, dei suoi impegni
scolastici, del mestiere del padre così affascinante e del fatto che da lui
potevo imparare molto.
Arrivati al piano superiore mi aprì una porta in fondo al largo
corridoio che teneva camere, saletta e bagno e mi mostrò la mia camera da
letto. Era una camera normale, con un balconcino per affacciarmi. Il letto era
disposto in modo verticale verso la parte sinistra della stanza. In fondo a
sinistra c’era una piccola scrivania e a destra un armadio.
Nella camera del piccolo invece, accanto alla mia, un lettino
messo in modo orizzontale, una piccola finestrella, un armadio di fronte al
letto ed anche per lui, una piccola scrivania di legno piena zeppa di
foglietti.
«Allora che ne dite?» domandò Bianca.
«Ci troveremo benissimo».
«Sono felice. Allora, hai fatto amicizia con papà?».
«Amicizia è una parola grossa, diciamo che abbiamo avuto modo di
parlare».
«Scommetto che avete discusso».
«Be’…»
«Lo sapevo!» disse piuttosto irritata. «E’ sempre il solito burbero.
Ma gliene dirò quattro».
«No, no che hai capito? Era solo una visione diversa di vedere una
cosa».
«Quindi non avete litigato?»
«No, battibeccato,
ma sempre con il dovuto rispetto».
CASE
3 – Cena a base di intuizioni
Passammo circa
un’oretta a sistemare le nostre cose. Andrea era stato leggermente aiutato da
Bianca
Mentre ultimavamo
le ultime cose, la voce di Bianca risuonò nell’aria piena di un assordante
silenzio.
«La cena è
pronta!» si sentì dire dal piano di sotto.
Io e Andrea ci
recammo al piano inferiore della casa, percorremmo il salotto ed arrivati in
cucina ci sedemmo nei due posti vuoti che ci avevano riservato. Notai come
Bianca fosse perfettamente a suo agio nel muoversi in cucina. La vidi compiere
una serie di azioni casalinghe che non avrei mai immaginato che una ragazza
della sua età potesse fare. Sicuramente la cena era compito di Bianca. Flavio
svolgeva piccoli lavoretti per aiutarla, ma probabilmente i mestieri di casa
toccavano alla ragazza. In quel momento mi domandai dov’era la signora
Moggelli, ma non dissi niente. Dopotutto ero in quella casa da meno di tre ore
e fare troppe domande avrebbe significato essere invadenti e maleducati.
«Allora Alex,
quando inizierai ad indagare con mio padre?» è con questa frase che Bianca aprì
le danze
«Indagare…tsk!»
disse con diffidenza Flavio, per poi continuare «mi darà una mano, nulla più.
Le indagini non sono certo un gioco da ragazzini».
«Lo credo anch’io»
intervenni.
«Cosa credi anche
tu?» domandò un istigato Flavio.
«Credo che le
indagini non siano cose da ragazzini».
«Quindi, la mia
domanda è: Cosa sei venuto a fare qui?».
«Papà!» lo interruppe
la figlia con un rimprovero.
«No, no Bianca
tranquilla. Flavio ha perfettamente ragione. Be’, diciamo che non mi definisco
un ragazzino».
«Davvero? E allora
cosa sei?» disse Flavio
«Non lo so di
preciso, ma credo di avere la stoffa per questo mestiere».
«Sei modesto»
disse con ironia.
«Non mi credi? Be’
allora vediamo, scommetto che riesco ad indovinare tre cose di ognuno di voi
senza che me le diciate?».
Bianca si illuminò
in volto, mantenendo comunque un’espressione dubbiosa. Flavio mi guardava con
diffidenza. Presi la parola mentre Andrea sorseggiava un bicchiere d’acqua.
«Cominciamo con te
Bianca».
«Ok, dimmi pure»
disse nel modo più gentile possibile.
«Vediamo…tu
frequenti un istituto tecnico commerciale, non hai interessi come il calcio o
la politica, ma ti piace molto la pallavolo e gli sport di questo
genere…uhm…inoltre posso dire che ti sei passata lo smalto per le unghie da
poco.»
Bianca rimase stupefatta.
Era mia abitudine identificare con i particolari la gente. Non era cosa nuova
per me. Da piccolo era il mio passatempo preferito.
«C-come hai
fatto?» domandò incredula.
Risi. «Be’, di
sicuro non è magia. Prima ho visto che nei tuoi libri c’era un registro
mastrino. I registri mastrini li usa chi va a questo tipo di scuola. Inoltre
prima in televisione il tg ha mandato in onda un servizio sul calcio e tu hai
cambiato immediatamente canale voltandoti spalle alla televisione. Stessa cosa
hai fatto quando hanno parlato di politica nazionale ed estera. Inoltre i tuoi
polsi hanno dei piccoli lividi. I lividi sorgono quando si fanno sforzi con i
polsi ed in questo caso, come tu saprai bene, i pallavolisti eseguono la
manovra del “bagher”, dove è necessario mettere le braccia tese davanti a sé e
colpire la palla con la parte del braccio vicino ai polsi. Inoltre nell’aria si
sente un odore forte. Potrebbe essere acetone. Ho indovinato vero?
«Uao! Sarai di
grande aiuto a mio padre!»disse con entusiasmo.
«Bah…»la
interruppe Flavio. «E’ stata sola fortuna. Provaci con me, non lascio
trasparire nulla di me, avanti, su, provaci».
Mi stava sfidando.
Mi avevano insegnato fin da piccolo che quando qualcuno mi sfidava non dovevo
mai tirarmi indietro.
«Ok.» dissi a voce
bassa e pacata. «Dammi un attimo» e così dicendo lo osservai dall’alto verso il
basso.
Ripresi a parlare.
«Sei stato dal barbiere non più di tre giorni fa. Inoltre ami indossare orologi
diversi tutti i giorni e probabilmente ne hai una vasta collezione in casa. Per
ultimo…be’…posso dire che hai avuto un incidente alle unghie poco fa»
Non nascondo che
lo sguardo di Flavio fu di fuoco. Non immaginava potessi constatare tre
particolari in pochi secondi.
«Da cosa lo deduci?»
disse
«Oh, è semplice.
Sul collo, nella parte posteriore non è presente peluria. Inoltre si nota come
sia stata passata la macchinetta a quei capelli e come il taglio sia ancora
perfettamente regolare. Quindi è da poco che tu non vai dal barbiere. Per il
discorso degli orologi è stato ancora più semplice. Sul braccio sinistro,
all’altezza del polso, hai l’orologio scostato. Si vedono dei segni del
cinturino,ma se si guarda bene attentamente, si nota che ci sono altri
segni,sempre di cinturino, ma dalla manifattura diversa. Devi avere una
collezione di orologi da qualche parte e li indossi a rotazione. Inoltre
qualche ora fa, quando abbiamo parlato, le tue mani erano perfettamente curate,
le unghie pulite e lucide, mentre ora il pollice sinistro è tumefatto. Forse
hai sbattuto contro uno spigolo, oppure ti sei chiuso il pollice nel cassetto
della scrivania. Giusto?»
Flavio fece un
risolino ad occhi bassi, poi mormorò tra il silenzio che si era creato.
«Niente male. Davvero
niente male. Bravo ragazzo».
Sorrisi.
Ritornammo a
mangiare. La cena si susseguì in chiacchiere veloci e piatti prelibati. Non sto
qui a dirvi i dialoghi che facemmo quella sera, ma potete ben immaginarli. Si
trattarono di tutti quei convenevoli tipici delle neo-conoscenze. Si parlò di
scuola(dalla quale mi ero appena liberato), di famiglia, di interessi, di
futuro e Flavio non mancò occasione di mettermi in difficoltà con qualche
domandina del tipo: “Cosa farai adesso?”, oppure “La ragazza ce l’hai?”.
Essendo un tipo piuttosto riservato, risposi con cenni del capo affermativi e
negativi, mezze frasi varie e parole pragmatiche.
Ci recammo nel
salottino e continuammo a parlare della stessa cosa. In quella stanza si prestò
più attenzione ad Andrea. Era incredibile come Bianca si mostra amabile nei
confronti di quella creatura ed era ancora più incredibile la questione che
riguardava Flavio. Il detective si mostrava scorbutico, stoico e battagliero
con chiunque gli si ponesse davanti, ma con i bambini si ammorbidiva e
diventava un compagno di giochi, quasi tentasse di diventare uno di loro. Devo
dire che per essere la prima sera ci fu un clima abbastanza disteso e sereno.
Aspettavo di peggio. O meglio, mi aspettavo di peggio. Avevo pensato ai disagi,
alle prime impressioni, agli imbarazzi ed invece la famiglia Moggelli si dimostrò
davvero esemplare (ok, lo ammetto, più Bianca che Flavio), nel mettere a
proprio agio gli ospiti. Verso le undici, decidemmo di andare a dormire. Ci
salutammo con un “buonanotte” sincero e ci rinchiudemmo nelle nostre stanze.
Per quella notte Andrea insistette per voler dormire con me. Bianca rise,
Flavio sorrise ed io dovetti assecondarli ed assecondare mio fratello. Non
dormii quella notte. Pensavo a come sarebbe stata la mia collaborazione, se
fosse risultata indispensabile, o se mi avessero ricacciato a casa a calci.
Insomma, sono pensieri che fai, un po’ come quando pensai a mio padre. Pensai a
lui tutta la notte.
CASE
4 – Inizia l’avventura
La mattina dopo
scesi per la colazione. Bianca era di fretta e ci salutò con un cenno della
mano veloce, sparendo dietro la porta di mogano.
«E’ una brava
ragazza. Complimenti Flavio» dissi cercando di rompere il ghiaccio.
«Grazie» rispose
con tutta la diffidenza di questo mondo.
Poi, bevuto un
sorso di caffè, continuò. «Andrea non deve andare a scuola?»
«No. Di comune
accordo con la mia famiglia abbiamo deciso di fargli passare la prima settimana
a spasso. Così per farlo ambientare meglio. Per un bambino è più difficile».
«Capisco».
La colazione passò
in un silenzio abbastanza fastidioso e che, naturalmente, era “impreziosito”
dallo sguardo di fuoco di Flavio che, seduto sulla sedia in modo scomposto,
leggeva il giornale del mattino con aria scocciata. Poi un suono. Un trillo di
un telefono. Era il telefono dell’ufficio di Flavio.
Si alzò di scatto,
buttando il giornale a terra. Quasi rovesciò la tazzina del caffè e in
repentina fretta, lo sentii aprire la porta dell’ufficio ed esordire con la
migliore delle frasi di presentazione. Certo non era un tipo che voleva farsi
attendere.
«Agenzia
investigativa di Flavio Moggelli. La ascolto, dica pure».
Rimase al telefono
per circa cinque minuti buoni. La maggior parte del tempo la passò ad annuire,
visto che non si sentiva la sua voce. Poi di botto entrò in cucina e fissandomi
disse:
«Preparati
ragazzo. Si va sulla scena del crimine».
«Cosa? Adesso?».
«Cosa credi? Che i
delitti aspettino te per essere compiuti? Muoviti e vieni con me».
«E Andrea?».
«Portalo con noi,
non c’è altra scelta ragazzo. Ripeto. Sbrigati».
Di corsa andai al
piano superiore, svegliai Andrea in modo abbastanza difficile. Mi chiese più
volte cosa stesse succedendo, ma non gli risposi in modo dettagliato dicendogli
che c’era un caso da risolvere. Immaginate che un bambino si impressioni sulla
scena del crimine? Non conoscete mio fratello. A cinque anni aveva visto più
film dell’orrore lui, che io in tutta la mia vita. Inoltre aveva sempre
desiderato lavorare, proprio come suo fratello, in quell’ambito e si dimostrò
subito entusiasta non appena seppe che dovevo trasferirmi a Torino per motivi
di lavoro. Non che gli piacesse vedere cadaveri, assolutamente no. Ma per lui
era bello respirare l’aria della polizia, riuscire a starci, anche senza
parlare. Lui insomma, voleva stare lì, vedere come facevano detective e
poliziotti a risolvere i casi più difficili. Era un patito degli uomini di
giustizia. Prendemmo la macchina di Flavio. Moggelli si mise al volante e
sfrecciò in quella fresca mattina autunnale. Ci dirigemmo verso il centro. Non
avevo mai visitato il centro di una grande città e devo dire che rimasi
affascinato. In macchina naturalmente volevo sapere di più. E così cominciai a
parlare del caso che ci avevano affidato.
«Di cosa dobbiamo
occuparci?».
«Di cosa DEVO
occuparmi. Non cominciare a portare fretta. Tu osserverai come lavora un vero
detective e forse imparerai qualcosa».
«Quindi non devo…»
«Bravo. Non devi
toccare, fare nulla. Pensa a tenerti calmo il tuo fratellino e tieni gli occhi
aperti. Ti chiamerò io se avrò bisogno di verificare le tue opinioni».
Rimasi zitto.
«Comunque» riprese
a parlare «La chiamata è di un noto studio legale».
«Ok».
Arrivati di fronte
ad una palazzina color grigio chiaro, decidemmo di entrare. Salimmo alcune
scale di pietra che ci avrebbero indirizzati dalla hall fino al piano superiore
dove probabilmente erano presenti gli studi. Appena finite le scale ci
ritrovammo in una piccolissima saletta d’attesa dove c’erano già tre persone.
Appena ci videro strabuzzarono gli occhi ed uno di loro, un uomo sulla
quarantina, pallido, con i capelli castano chiaro e con degli occhialini da
dottore ci venne incontro.
«Oh, detective,
finalmente è arrivato!» disse stringendo la mano a Flavio. «Avevo chiamato la
polizia, ma mi hanno detto che era meglio se di questo caso se ne occupava lei.
La squadra omicidi è di là».
«Bene. Vogliamo
presentarci, o meglio. Volete presentarvi?».
«Oh, certo che
sciocco» disse l’uomo di fronte a noi. «Mi chiamo Oreste Norgi e sono
l’assistente della vittima. Lei è Veronica Buondini, segretaria» disse
indicando una donna abbastanza giovane con lunghi capelli neri; «e quella
laggiù che sta piangendo è la signora Fratti, la moglie della vittima». La
signora Fratti era una donna sulla sessantina. Aveva capelli biondo platino,
corti e cotonati. Un fisico normale e dei lineamenti pesanti.
«Dov’è la
vittima?».
«Nel suo studio»
rispose la segretaria.
Flavio mi fece un
cenno con il capo con l’intenzione di farsi seguire ed entrammo in un piccolo
studio elegante che era proprio di fronte a noi. All’interno di esso c’era già
una parte della squadra omicidi di Torino. L’Ispettore Vincenzo Ducato, un uomo
sulla cinquantina, con capelli neri, pizzetto intero dello stesso colore,
leggermente affaticato dal peso degli anni e con un lieve velo di peluria
bianca. Aveva un aspetto severo. Con lui c’erano un paio di agenti della squadra.
«Ispettore!» disse
chiamandolo ad alta voce Flavio
«Flavio, allora
come va?» rispose l’interpellato con voce rauca.
«Tutto bene. Sono
accorso subito».
«E questo
ragazzino? E’ quello del ministero?» disse l’ispettore
«Sì, si chiama
Alex» disse con diffidenza.
Strinsi la mano a
Ducato e sfoderai un sorriso da “sono nuovo, ciao amico”.
«Allora» continuò
Flavio « cos’è successo?».
«La moglie della
vittima era venuta qui per portare al marito il pranzo che aveva dimenticato a
casa. Aperto la porta, ha trovato il corpo ed ha allarmato assistente e
segretaria».
«Capisco»
«Secondo la
scientifica e la squadra,il decesso è avvenuto circa un’ora fa».
Intervenni
incuriosito. «Possibile che nel giro di un’ora nessuno si sia accorto che la
vittima era stata uccisa?» Flavio mi guardò storto.
«No.» rispose
l’Ispettore. «Il signor Fratti, avvocato di professione e dalla sfavillante
carriera, aveva l’abitudine di entrare nel suo studio dall’entrata posteriore»
disse indicando una porticina posizionata contro il muro; «E non consentiva a
nessuno di entrare nel suo ufficio in quanto doveva sistemare alcune pratiche.
I suoi assistenti aspettavano la sua chiamata per entrare ed iniziare il
programma della giornata e pare che se qualcuno si azzardasse ad aprire la porta,
Fratti reagisse in modo violento.».
«Chiaro» dissi a
voce alta
«Non ti avevo
detto di stare zitto?» mi rimproverò Flavio.
«No, no lascialo
fare, forse potrà esserci d’aiuto» disse l’ispettore.
Guardai Flavio e
lo vidi letteralmente “girato”.
«Mi dica
ispettore» continuò Flavio «i tre sospetti hanno un alibi?».
«Chi ti dice che
sia stato uno di loro tre? Potrebbe essere stato ucciso da qualcuno entrato
dalla porta posteriore che da sull’ufficio».
«No.» intervenni
ancora. «Non può essere ispettore. Guardi bene la porta. E’ chiusa dall’interno
con un chiavistello e non ha nemmeno segni di forzatura. Flavio ha ragione. I
sospetti sono i tre che sono nella saletta».
«Già. Hai ragione
ragazzo. Non ci avevo fatto caso». Poi, gesticolando a più non posso con le
mani, l’ispettore Ducato chiamò a se un uomo che stava chinato sul cadavere
della povera vittima chiedendogli di andare ad interrogare i sospetti e
verificare se avessero un alibi convincente.
Passammo circa una
trentina di minuti a parlare amabilmente. Facemmo ipotesi. Cercai di scoprire
di più e mentre stavo esaminando la scena del delitto, tra le urla di Flavio
che mi voleva da parte, notai che la porta dalla quale il signor Fratti era
entrato era rovinata sulla parte inferiore. Parte del legno, si era scorticato,
forse con un oggetto appuntito. Quello che era certo è che era abbastanza
recente. Non c’erano tracce di vecchio o di sporco sulla parte rovinata, quindi
era una cosa abbastanza recente.
L’agente
incaricato di verificare gli alibi, portò con sé tutti e tre i sospetti. Erano
tutti e tre agitati. Tremavano come foglie sotto il peso incessante del vento.
Notai una cosa che
prima non avevo notato. La moglie della vittima era molto più alta sia della
segretaria che dell’assistente di Fratti. Questo era dovuto alle vertiginose
scarpe con la punta e con un tacco di almeno cinque - sei centimetri.
«Ispettor Ducato,
ho chiesto qualcosa, ma credo sia meglio parlino direttamente con lei e con il
detective» disse l’agente.
«Ok, grazie
comunque Vertoni. Bene signori, accomodatevi. Uno alla volta ci racconterete i
vostri comportamenti nell’ora in cui è avvenuto il delitto».
Ducato si sedette
alla scrivania della vittima e cominciò ad interrogare Veronica, la segretaria.
Veronica doveva essere una ragazza abbastanza giovane. Non aveva sicuramente
più di vent’anni. I lunghi capelli neri, arruffati, che consentivano a malapena
di inquadrarle il viso e gli occhi, probabilmente sofferenti già per natura e
non certo per la circostanza orribile in quale si era inconsciamente trovata,
completavano il tutto.
«Allora signorina.
Collabori con noi e non avrà problemi» disse Ducato. Flavio annuì, Veronica
anche.
«Voglio che lei mi
dica cosa ha fatto … diciamo tra le sette e trenta e le otto e trenta, periodo
secondo il quale la scientifica ha accertato che sia avvenuto il decesso».
Veronica abbassò
lo sguardo. Tremava più degli altri adesso, che stavano alle sue spalle e
fissavano la scena come ignoti spettatori esterni privi di un qualsivoglia
rumore dell’anima.
«Io… sono uscita
di casa verso le sei e quarantacinque. Poi mi sono diretta allo studio. Sono
entrata come al solito dalla porta principale e sono andata nel mio ufficio a
sistemare l’agenda e programmare la giornata del signor Fratti.».
«Sa dirmi a che
ora è entrata nell’ufficio signorina?» chiese Flavio.
«Be’…era molto
presto…forse potevano essere le sette e quindici, non più tardi».
«Quindi lei
sostiene di essere arrivata ben prima che avvenisse l’omicidio. Lei sostiene di
essere stata già presente in ufficio quando il decesso è avvenuto. E possibile
che lei non abbia udito alcun rumore? Un tonfo ad esempio?» chiese Ducato.
«N-no … non credo».
«Ne è proprio
sicura?».
«Sì, ne sono
sicura. Non ho sentito nessun rumore sospetto.»
«Lei ha un alibi
per quello che dice?» dissi a voce alta
«C-come?»
«Domandavo se per
caso, lei ha qualcuno che possa confermare che è uscita di casa alle sei e
quarantacinque, che sia arrivata in ufficio alle sette e quindici e così via».
«Sì. Prima di
arrivare in ufficio sono rimasta a parlare cinque minuti con la signora che
abita qui di fianco. Può chiederglielo. Ogni mattina ci intratteniamo e
scambiamo due chiacchiere».
«Grazie signorina,
con lei ho finito, può andare.» disse Ducato che mi guardò con un’espressione
del tipo “dovevo chiederlo io!”.
Ducato chiamò
Oreste. Oreste era stato il primo che ci aveva accolto. Un uomo molto pacifico.
Da lui di certo non potevi aspettarti un delitto, ma è anche vero che tutti
possono commettere un crimine. Anche la persona meno indicata.
«Signor Norgi. Lei
è l’assistente dello studio legale. Ripercorra i suoi movimenti. A che ora è
arrivato in ufficio?»
«Verso le sette e
trentacinque. Ero in ritardo stamattina»
«Può confermare
qualcuno per lei?»
«Certo. Quando
sono arrivato, Veronica era in sala d’attesa a sistemare le riviste del signor
Fratti e mi ha visto andare in ufficio».
«Signorina
conferma?» chiese con severità Ducato.
Veronica annuì con
un semplice cenno della testa affermativo.
Poi intervenni io.
«Ispettore mi scusi. Posso fare io una domanda al Signor Norgi?».
«Fai pure» disse
infastidito l’ispettore. Eh già. Nessuno era contento di vedersi scippare le
idee da sotto il naso.
«Prima di arrivare
in ufficio? Lei cosa ha fatto?»
«Sono uscito di
casa».
«Dove abita?».
«A due isolati da
qui».
«Non è molto
lontano. Come mai ha affermato di aver fatto tardi?».
«Be’ stamattina la
sveglia non ha suonato e così ho fatto qualche minuto di ritardo».
Qualcuno ci
interruppe. La signora Fratti si era alzata di scatto dalla sedia posta vicino
alla porta. Nulla poteva fermarla. Gli occhi vitrei, davano forza immane alla
sua voce rotta dal pianto. L’espressione del viso aveva quel non so che di
tremendo. La bocca deformata a furia di singhiozzare, si aprì con una repentina
movenza delle labbra.
«Sei solo un volgare
bugiardo!» disse rivolgendosi a Oreste. L’assistente si girò di scatto in preda
al panico, i suoi occhi si posarono sulla donna in fremito che gli puntava il
dito contro. L’ispettore Ducato non seppe resistere alla tentazione e
immediatamente prese parola
«Cosa? Signora si
spieghi meglio!».
«Quel volgare
bugiardo aveva un motivo per uccidere mio marito, è stato di sicuro lui!».
«Ma cosa sta
dicendo signora? Io non ho ucciso nessuno, né tantomeno il signor Fratti!»
rispose Oreste nel panico.
«E’ quello che
vuoi farci credere assassino!» concluse scoppiando in lacrime. Ducato guardò
storto Oreste. L’uomo era piegato su se stesso sulla sedia di fronte alla
scrivania, parzialmente voltato verso la signora. Guardava imperterrito la
donna piangere e singhiozzare. Aveva incolpato lui, il fedele assistente
dell’avvocato. Lui, l’assistente da vent’anni, assassino del suo datore di
lavoro.
Guardai bene la
scena. La signora non faceva testo ormai. Piangeva più che parlare. Oreste era
molto teso, scalpitava nella sua posizione, muoveva gli occhi in modo
superveloce e si mordeva le labbra con un tic nervoso. La segretaria se ne
stava in disparte, con gli occhi da cucciolo, l’espressione di chi non vede
l’ora di tirarsi fuori da una situazione di estrema delicatezza qual è
l’omicidio.
«Signora» attaccò
Flavio. «La prego di collaborare con noi. Se sa qualcosa di controverso a
proposito delle relazioni tra il signor Norgi, lo dica immediatamente. Ne va
della giustizia che dobbiamo garantire al suo povero marito»
«Il signor Norgi» attaccò
continuando a singhiozzare «aveva avuto una lite furiosa con mio marito solo
qualche giorno fa! Me l’aveva raccontata! Diceva che per poco non arrivavano
alle mani!»
Tutti guardammo
Norgi. Lui guardò noi con l’espressione della povera vittima.
«Non le crederete
vero?» disse rivolgendosi a Ducato.
«Be’…».
«Che cosa?
Ispettore non può basarsi solo su una testimonianza di una visionaria!».
«Visionaria io?»
rispose offesa la signora Fratti «Lei è un assassino senza nemmeno un po’ di
vergogna!» e riprese a piangere.
«Ah si? Allora se
la polizia si basa su inutili supposizioni di una persona comune, anche io
posso farlo! Alla signorina Veronica, l’avvocato Fratti aveva appena negato le
ferie! Anche lei aveva un movente per ucciderlo non è vero?».
Veronica per poco
non scoppiava in lacrime. Si limitò a rispondere con la solita timidezza che ci
aveva mostrato per tutto il tempo che eravamo stati lì.
«Ma-Ma cosa dice
signor Norgi? E’ impazzito?»
«Ah no! Se qui ci
si basa sulle supposizioni di una vipera trasformata in donna, ho il diritto di
dire ciò che penso! Senza contare che il signor Fratti si confidava spesso con
me e diceva che aveva dei problemi a casa con la moglie che non gli
consentivano di lavorare serenamente! Anche la signora avrebbe avuto un valido
movente».
«Ma come si
permette!» La povera vedova si fiondò su Oreste e per fortuna tra loro c’erano
un paio di agenti della scientifica che sedarono la tensione e stemperarono i
toni. L’ispettore richiamò all’attenzione tutti con un urlo ed un pugno sul
tavolo dicendo che non ci si poteva basare su false verità costruite al solo
scopo di liberarsi dai sospetti.
Poi disse con il
nervosismo in pancia: «Signor Norgi. Ci racconti del suo litigio con Fratti.
Poi può andare.»
«Ok. Ma sappiate
che non avrei mai potuto ucciderlo come dicono. L’altra sera ho confuso alcune
pratiche di lavoro e il signor Fratti ha sprecato per colpa mia un paio d’ore
di lavoro. Così, una volta accortomi dell’errore sono andato in ufficio a
comunicarglielo, ma lui ha reagito violentemente tirandomi addosso un portapenne
e dandomi dell’incompetente».
«Bene, può
andare.»
«Signora Fratti,
venga qua per favore» disse Flavio.
Mentre la signora
si accomodava, Flavio si voltò verso di me, che ero rimasto a pensare
ininterrottamente su quei pochi indizi a disposizione. Perché la porta di legno
era sfregiata? Perché Fratti era stato ucciso e soprattutto da chi? Stando alle
dichiarazioni tutti avevano un valido movente per ucciderlo, ma la mia logica
non poteva agire in quel momento, non senza un altro indizio.
«Hai qualche idea
pivellino?».
«Forse sì, forse
no. Diciamo che mi sono fatto un’idea, ma mi mancano le prove».
Flavio non mi
rispose. La testimonianza della vedova era appena iniziata e non voleva
perdersela.
«Signora Fratti»
cominciò l’ispettore «lei è la moglie della povera vittima. Per caso stamattina
ha notato qualcosa di insolito in suo marito? Qualcosa che abbia potuto, che
so, innervosirlo?».
«No ispettore.
Giancarlo era calmo e tranquillo come al solito. Non ho notato nulla di
insolito»
«Stamattina suo
marito, stando alle prime ipotesi, è arrivato in ufficio verso le sette e
venticinque.Che cosa avete fatto a casa?»
«Nulla di
particolare ispettore» disse abbassando gli occhi «Abbiamo fatto colazione
insieme, poi ha preso le sue cose e si è diretto a lavoro».
«C’è qualcuno che
può confermarlo?».
«No mi dispiace».
«Non avevate
figli?».
«No ispettore. Mio
marito era sterile. Abbiamo provato in ogni modo ad avere figli in gioventù, ma
nulla».
Mi avvicinai al
cadavere. La morte era avvenuta per strangolamento. Probabilmente l’assassino
aveva agito a mani nude, senza utilizzare nessun’arma. Sul collo della vittima
c’erano segni delle dita delle mani, ma non era stato possibile verificare il
DNA, perché l’omicida aveva indossato dei guanti per aggredire la povera
vittima. Mentre stavo allontanandomi dal corpo e mentre la signora continuava a
parlare, notai qualcosa di strano sotto le unghie della vittima. L’unghia del
dito medio sinistro era parzialmente scheggiata e sotto di essa c’erano dei
piccolissimi frammenti di pelle. Mi avvicinai alla mano della vittima, annusai
il medio ed ebbi un’illuminazione. Ora tutto quadrava! Le mie deduzioni in
principio erano giuste e adesso avevo anche le prove che dimostravano la
colpevolezza dell’infame omicida. C’era solo una persona che poteva uccidere la
vittima.
CASE
5 – Game Over
Decisi di far
concludere l’interrogatorio della signora per agire. Dopotutto, nella polizia
vige una certa etica/burocrazia, a seconda della circostanza. Terminata la
circostanza, Ducato si alzò in piedi e rivolgendosi a Flavio disse:
«Ok Flavio, noi
andiamo in questura. Se vuoi seguirci…»
Prima che Flavio
potesse proferire parola, decisi di intervenire.
«Non sarà
necessario ispettore. O almeno, non lo sarà per il momento»
«Ma cosa vai
dicendo pivello!» esclamò Flavio con rabbia.
«Questo pivello»
dissi guardando Flavio «ha appena risolto il caso».
La stanza puntò
gli occhi verso di me e si riempì di un “che cosa?” generale, detto a voce alta
e anche abbastanza fastidioso per le orecchie di un detective. Insomma, avevo
voglia di dire “ho diciotto anni, non sono mica stupido!” ma mi trattenni per
buon gusto. Mi balenò l’idea di rinunciare e lasciare a Flavio il tempo
necessario per capire il mio ragionamento, ma decisi di non tergiversare e
presi parola.
«Proprio così
ispettore. Ho risolto il caso. Ho scoperto chi è l’assassino dell’Avvocato
Fratti, e so anche come incastrare il colpevole».
«Ma non dire
sciocchezze ragazzo! Non abbiamo prove a sufficienza per inchiodare qualcuno.
Non siamo riusciti a trarre niente noi, figuriamoci uno alle prime armi come
te!».
«Ispettore, per
favore. Si fidi di me»
.Ducato parve
quasi rassegnato. E con un gesto della mano di leggerezza che non dimenticherò
mai mi diede il consenso di parlare.
«La ringrazio»
dissi
Flavio si avvicinò
a me e repentinamente mi sussurrò testuali parole «Se sbagli e mi fai fare
brutta figura ti rispedisco a casa» Tenete presente che disse questa frase con
un tipico sorriso bonario sulla faccia, tenendo denti stretti e occhi fissi
sull’ispettore. Incoraggiante per un novellino arrivato da poco in una grande
città.
«Se non vi
dispiace, passo alla spiegazione».
«Prego» disse
Ducato.
Tutti mi
fissavano. Vi confesso che ero un tantino nervoso.
«L’assassino ha
costruito un piano ben congeniato che è riuscito ad ingannarci tutti fin dal
primo momento. L’astuzia di questa persona è stata degna di un grande libro
giallo e devo dire che sono sorpreso che una mente umana possa arrivare a
questo. Innanzitutto, come comunicato prima dalla scientifica e dall’ispettore,
il delitto è stato commesso da uno di questi tre sospetti, che a turno sono
stati interrogati.
Tutti e tre
avevano un movente valido per uccidere la povera vittima e non negatelo
signori. Tutti potevate commettere questo efferato delitto».
«Allora? Che cosa
aspetta a dirci il nome del colpevole?» disse la signora Fratti
«Signora Fratti,
non avrei tanta fretta se fossi in lei. Infatti stavo giusto per comunicare
alla polizia che il colpevole dell’omicidio di suo marito è proprio lei!».
«Lei è solo un
ciarlatano!» urlò la signora che fu sedata da Ducato in modo pacifico
«Spero tu possa
spiegarci» incitò Ducato. Flavio era rimasto a guardare.
«Certo ispettore.
Sappiamo che il delitto deve essere avvenuto nell’intervallo di tempo che va
dalle sette del mattino alle sette e trenta. Possiamo dire che il delitto è
avvenuto, visto la mia tesi che mi accingo a spiegarvi, verso le sette e
quindici».
«Ecco che hai
commesso un erroraccio da dilettante! Non può essere! Il signor Fratti è
arrivato in ufficio intorno alle sette e venticinque. E il delitto è stato
commesso qui signori, ricordiamoci di questo piccolo ma importante particolare».
«Ed è qui che vi
sbagliate. La scientifica ha detto che il delitto è stato commesso circa un’ora
prima che noi arrivassimo sul posto, quindi intorno alle sette e quindici.
Tuttavia, come noi sappiamo, la scientifica non può calcolare l’ora esatta.
Perciò è possibile che il tempo del decesso sballi, visto che non sono stati
fatti ancora esami approfonditi ma solo qualche ipotesi, calata
dall’irrigidimento del corpo. Chiami pure la scientifica. Sono sicuro che l’ora
del decesso corrisponda a circa quarantacinque-cinquanta minuti prima del
nostro arrivo.» dissi con tono serio
«Cosa?».
«Sì. E’ questo
l’errore. Credere che il delitto sia avvenuto nell’ufficio, e credere che il
signor Fratti sia stato ucciso da qualcuno che sia entrato nell’ufficio in modo
fittizio. Inoltre al nostro arrivo il corpo della vittima era completamente
flaccido e come voi sicuramente sappiate l’irrigidimento del corpo avviene
solitamente in un intervallo di una - tre ore dalla morte. Ora che sono passate
circa due ore dal decesso il processo di rigor mortis si sta susseguendo con
l’irrigidimento delle ginocchia, dopo quello della mascella e dei gomiti.
«E’ vero! Ma…vuoi
spiegarci come ha fatto l’assassino?» disse spazientito Ducato.
«Certo ispettore.
Il decesso non è avvenuto in ufficio, bensì nell’abitazione dei Fratti! La
signora, dopo aver fatto colazione con suo marito, ha approfittato di un
evidente momento di distrazione della povera vittima, ha indossato dei guanti
ed ha cercato di strangolare suo marito. Non ha calcolato bene i tempi però ed
ha effettuato la presa mentre suo marito si stava voltando. La signora però ha
approfittato della corporatura esile di suo marito ed ha stretto ancora di più
la morsa. Il signor Fratti ha cercato di difendersi e con le ultime forze è
riuscito a imprimere le mani sul collo del suo assassino.».
«Cosa?» disse
l’ispettore.
«Faccia
controllare da uno degli agenti. Sotto il dito medio sinistro della vittima
sono presenti frammenti di pelle. In più l’unghia è scheggiata, segno che per
la troppa forza esercitata l’avvocato si sia rovinato l’unghia».
«Corrisponde
ispettore» disse l’agente della scientifica che nel frattempo si era
precipitato a verificare che le mie affermazioni fossero corrette.
«E’ incredibile»
disse l’ispettore a voce alta. L’impressione è che probabilmente non voleva
dirlo in modo da poter essere sentito da tutti, ma comunque per sua sfortuna,
lo sentirono eccome.
«E non è tutto.
Come le dicevo, dopo che il signor Fratti era definitivamente morto, sua moglie
ha avuto la lucida freddezza di caricarlo in macchina, approfittando del magro
corpo, credo nel cofano, e di portarlo qui in ufficio. Insomma, quanto poteva
pesare la vittima? Cinquanta chili? Cinquantacinque? La signora, mi perdoni,
pesa sicuramente di più ed ha la forza necessaria per trasportarlo.
Sicuramente, quando la signora è arrivata all’ufficio suo marito era già morto
da un pezzo ed erano le sette e venticinque circa. Lei, signora Fratti, sapeva
benissimo delle abitudini di suo marito. Sapeva che entrava sempre dalla
porticina posteriore, sapeva che non voleva essere disturbato per almeno un po’
di tempo, ed ha sfruttato tutto questo a suo vantaggio. Un piano veramente ben
congeniato. Ha messo quindi il cadavere a terra, ed ha rovesciato al suolo
qualche soprammobile e qualche libro in modo che noi potessimo credere che suo
marito era stato vittima di un’aggressione».
La vedova era in
preda ad una crisi di nervi. Lo sguardo spento e vitreo illuminava la sua
indubbia colpevolezza. Mi guardò e parlando così velocemente, quasi da non
poter essere capita, ricominciò ad insultarmi ripetutamente.
«Lei non ha prove
contro di me! Lei è solo un insulso detective da quattro soldi! E lei» disse
rivolgendosi a Ducato «Lei fa mettere il becco di un ragazzino in queste
circostanze? Dovrebbe vergognarsi!»
Ducato mi guardò e
mi fece un cenno del tipo “continua pure”.
«Lei si sbaglia
signora.»dissi a voce bassa. «Io le ho eccome le prove della sua colpevolezza.
Purtroppo per lei, sono più di un semplice terzo incomodo. Non posso stare
zitto di fronte alla sua crudeltà».
«Hai le prove? E
quali sono? Sono curiosa!» ostentò con visibile aria di sfida.
«Come ho detto
prima, sotto le unghie della vittima ci sono frammenti di pelle. Sono sicuro
inoltre che se saranno mostrati i risultati delle prove del DNA che sicuramente
la polizia farà, risulterà un codice genetico esattamente identico al suo. Come
se non bastasse, annusando le unghie della vittima, o più precisamente i
frammenti di pelle sotto le unghie della vittima, si può notare come siano
impregnate di un profumo tipicamente femminile».
«Forse lei»
continuò la signora «ha dimenticato che c’è anche la segretaria che potrebbe
aver indossato il mio stesso profumo».
«No signora. Non
l’ho dimenticato. E’ solo che non volevo arrivare a questo punto. Sa,
l’ostinazione di fronte alle prove certe è una delle forme di ignoranze più
diffuse. Lei le prove della sua colpevolezza ce le ha addosso. Infatti, sono
convinto che se avrà la cortesia di spostare i suoi lunghi capelli, da qualche
parte sul collo ci saranno i segni lasciati dal tentativo disperato della
vittima di salvarsi.».
Il suo sguardo si
fece ancora più spietato e cattivo. Dovevo aver colpito nel segno.
«Inoltre»
continuai mentre stava cercando di rispondere «sulla porticina sul retro dalla
quale suo marito entrava in ufficio tutte le mattine, ci sono dei segni di
scorticamento, proprio all’altezza dei piedi.».
«E allora?» disse
l’ispettore
«Osservi bene le
scarpe dei sospetti ispettore. La signora Veronica indossa comuni scarpe da
tennis, mentre Oreste ha delle scarpe comuni. L’unica ad avere scarpe con il
tacco,anzi in questo caso con la punta adunca è la signora Fratti».
Lo sguardo
dell’ispettore divenne di fuoco. Flavio guardava e riguardava i volti dei sospetti
e sudava.
«Infatti»
continuai tra lo stupore generale «i segni di scorticamento vicino alla porta
in legno, possono essere stati fatti solo in modo accidentale, e quale miglior
modo casuale ed accidentale del trasporto di un cadavere?».
«Cosa? Vuoi dire
che la vittima ha fatto quei segni?» chiese Flavio spazientito.
«No. Non ho detto
questo. La signora, ha aperto la porta dell’ufficio e mentre trascinava il
cadavere e lo metteva a terra, ha urtato casualmente contro la porta con la
punta della sua scarpa. La punta della scarpa deve aver raschiato minimamente
la porta».
«Questa non è una
prova! Potrebbe essersi rovinata prima non credi?» disse l’ispettore.
«Eh no! Se la
porta fosse stata rovinata in precedenza, non credete che sulla parte sulla
quale manca il legno raschiato ci debbano essere tracce di sporco? Ricordiamoci
che il legno è stato tolto sulla facciata della porta che si volgeva verso
l’esterno. In questi giorno ha piovuto e vicino al legno rovinato doveva
esserci almeno un segno di rovina. Invece nulla, pulitissimo. Ne deduco che il
taglio è stato fatto da poco. Il resto della storia la conoscete. Cosa ha da
dire signora?».
Un agente della
scientifica controllò sotto i capelli della signora. Sulla parte posteriore del
collo, c’erano esattamente i segni che la vittima aveva provocato al suo
aggressore per tentare di salvarsi disperatamente.
La signora si
gettò in ginocchio tra lo stupore generale.
«Lo ammetto» disse
con la testa tra le mani «l’ho ucciso io, ma l’ho fatto per una buona ragione».
«Signora, non
esiste nessuna buona ragione per togliere la vita ad una persona » sussurrò Flavio.
«Stia zitto! Lei
non sa nulla della mia famiglia! Mio marito mi tradiva da anni con mia sorella,
una sgualdrina senza cuore. Quando, tre mesi fa scoprii alcuni messaggi sul suo
cellulare, litigammo come furie. Sapete che mi disse? “Preferisco tua sorella a
te, perché lei sa come prendermi. Tu sei solo una povera illusa!”. Non mi pento
di averlo ucciso. Non ho nessun rimorso!».
Tutti noi ci
stavamo guardando stupiti. Era incredibile dove poteva arrivare la follia
umana. Quella donna aveva ucciso suo marito, con il quale aveva condiviso anni
e anni di vita, con una freddezza disarmante e, colta in flagrante non mostrava
nessun segno di pentimento. Ero basito. Gli agenti e l’ispettore misero le
manette all’assassina, che si alzò da terra a fatica con un fare bellicoso.
Giustizia era stata fatta. Una famiglia distrutta per l’ira di una donna che
aveva subìto il peggior tradimento della sua vita.
L’ispettore poco
prima di andare mi salutò con un cenno della testa e disse «Bel lavoro
ragazzo». Successivamente si rivolse a Flavio sussurrandogli «E’sorprendente!».
Il mio caro tutor si limitò ad annuire con la testa e con mia grande gioia
riuscii a cogliere sul suo volto una nota di soddisfazione. Forse avrebbe avuto
maggior rispetto. Ma forse sbagliavo io. “Il rispetto te lo devi guadagnare” mi
ripetei a dentro di me.
Pensavo. Pensavo a
come sarebbe potuta andare la mia esperienza a Torino. Pensai a mio padre in
quel momento. Pensai a Bianca, a come avrebbe reagito nel sapere che io,
persona incoraggiata da lei fin dal mio arrivo, avevo risolto il mio primo caso
in quel di Torino. Il pensiero andò anche a Marbelli. Il commissario era un
vecchio amico di famiglia. Come ho già detto, fu lui ad iscrivermi al PDS e a
farmi tentare questo genere di carriera, dopo che, ancora minorenne avevo
collaborato con varie intuizioni corrette al lavoro della polizia. Il corso mi
aveva arricchito tecnicamente parlando. Ma penso che per avere una formazione
completa ed a trecentosessanta gradi della professione che volevo
intraprendere, forse dovevo stare accanto a qualcuno che il mestiere lo
masticava, lo digeriva e lo riproponeva ormai da almeno un ventennio. Flavio
era senza dubbio, nonostante i modi scorbutici, abbastanza competente. Forse
mancava di lucidità. L’impressione è che avesse effettive doti di deduzioni più
o meno giuste, ma senza dubbio non era un detective basato su quello. Forse in
carriera aveva solo guidato qualche operazione. Forse sapeva come nessun altro
come organizzare un’operazione di polizia. Forse, sapeva come nessun altro
intuire dalle confessioni chi fosse il colpevole. Forse, ero io ad essere
troppo gasato in quel momento. Meno male che Andrea contribuì a riportarmi
sulla Terra.
«Fratellone,
andiamo? Ho fame, devo ancora fare colazione!» disse scuotendomi il braccio.
«Oh si certo
piccolo, scusami ero sovrappensiero».
Ci dirigemmo verso
l’esterno dell’ufficio. Salutammo Oreste Norgi e Veronica Buondini. Innocenti trapiantati
in un incubo. Oreste sembrava quello più provato. Nonostante Veronica si
dimostrava abbastanza timida, in quel momento ebbi l’impressione che i due
fossero completamente diversi. Oreste assomigliava ad un castello di carte ed
aveva costruito il suo su una base di sabbia. Veronica, nel suo silenzio,
possedeva un castello di pietra, con base di cemento, utile per resistere agli
urti.
Usciti
dall’ufficio ci dirigemmo verso un bar. Anzi, verso il bar più vicino.
Presi un caffè
macchiato. Flavio si concesse un ulteriore caffè corretto, mentre il piccolo
chiese espressamente «cornetto e cappuccino».
Andrea era un
bambino abbastanza silenzioso. Era rimasto in silenzio per più di un’ora. Avevo
visto suo fratello in bilico nelle indagini. Aveva visto Flavio comportarsi
bene con lui, aveva assistito ad una confessione di un assassino, eppure non
sembrava né spaventato, né turbato. Sarà che subiva il fascino di quel
mestiere. Sarà che aveva così tanta voglia di vedere da vicino un caso poliziesco
colmo di detective che
la voglia di
vederlo soppiantava la paura.
«Niente male» mi
disse Flavio mentre mi accingevo a pagare
«Grazie Flavio».
«Non montarti la
testa però. Ho conosciuto agenti di polizia che avevano capacità deduttive
straordinarie e si sono persi per la strada, mi raccomando, non fare lo
sbruffone, non sentirti già formato».
«Prometto. Non lo
farò» dissi sorridente a trentadue denti.
Flavio ricambiò il
sorriso, ma l’impressione che ebbi fu davvero strana. Non era il mio sorriso
pacifico. Nascondeva un non so che di sfida aperta, come se con un semplice
gesto involontario (o volontario) avesse voluto dirmi “hai appena cominciato,
ti darò filo da torcere”. D’altronde avevo voluto questo. Nessuno mi puntava
una pistola alla tempia, nessuno voleva spararmi. Marbelli mi ha messo sulla
strada, alla macchina ci ho pensato io. Giusto così, il carburante si sarebbe
chiamato responsabilità.
ALEX FEDELE-EPISODIO 2: SOLO PER INTERESSE---Solo su questo blog a partire dal 23 Agosto!
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