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sabato 24 settembre 2011

Alex Fedele: Il malato (stagione 1; episodio 6)


IL MALATO




Note: New entry di un personaggio determinante nella seconda stagione: Maria Grazia Losti

 PROLOGO: (New entry di un personaggio importante per la trama principale): Può una tranquilla famigliola di città, tramutarsi da modello di vita e di ispirazione, a gruppo di killer? La risposta è semplice. Per Alex Fedele, tutti possono commettere un reato. Anche quando non sembra tale, la bravura del detective, sta nell'individuare dettagli, che alla fine, possono rivelarsi letali! 

CAPITOLO I – La visita

La Fiat Croma di Flavio aveva un po’ di anni. Mi aveva detto in una chiacchierata di averla comprata già usata circa cinque anni prima. Non era male come auto. Di sicuro, non era un auto da detective, ma almeno sapeva portarci in giro. Quel giorno freddo ed umido di autunno nessuno aveva voglia di uscire di casa. Bianca doveva terminare il suo libro poichè il giorno dopo lei e le sue amiche del club della lettura ne avrebbero parlato, Andrea si stava perdendo il suo programma preferito, mentre io onestamente pensavo di passare il pomeriggio a fare le parole crociate. Quantomeno allenavano la mente. Furbo erano stati Sergio e Fabio. L’assistente aveva esplicitamente detto che avrebbe passato il pomeriggio a riordinare le carte dello studio investigativo. In quanto al figlio di Flavio, mise come scusa il fatto di dover lavorare ad una relazione sulla medicina o quant’altro. Non capii bene. L’unica cosa che capii è che si stava arrampicando sugli specchi. Ma quando un padre sente la parola “studio” accollata a “figlio”, allora puoi chiedergli anche il mondo e ti accontenterà. Anche mio padre era così. In fondo, lo sono un po’ tutti i genitori.
Il motivo per il quale ci eravamo vestiti di tutto punto e ci stavamo dirigendo in Via Po, era che Flavio qualche giorno prima, aveva ricevuto via posta elettronica una mail di una sua vecchia amica, che lo aveva invitato per un motivo particolare. Suo padre. L’uomo infatti era malato da tempo e stando a quanto affermava la mail non gli rimaneva molto tempo da vivere, a causa dei continui attacchi epilettici. Flavio, cresciuto a contatto con quella famiglia, non se l’era sentita di rifiutare l’invito. Così, ci trascinò anche noi nella sua visita. Su noti social network, aveva chattato con questa vecchia amica e le aveva accennato il fatto di aver avuto una figlia e di avere uno “sconosciuto dentro casa”, che poi sarei io. La signora si era appassionata alla storia e così voleva conoscerci entrambi.  So cosa state pensando. Sì, Flavio sapeva usare un computer. Dall’aspetto e dai modi di fare non si direbbe, ma devo dire che ci sapeva fare. Non era un genio, ma avevo decisamente visto di peggio.
«Allora papà, come hai conosciuto questa tua vecchia amica?»
«Be’, Bianca. Quando eravamo bambini vivevamo nella stessa strada. Eravamo vicini di casa e così ogni pomeriggio andavamo a giocare insieme. Pian piano è nata un’amicizia»
«Ma lei quanti anni ha? Come si chiama? Non ci hai detto ancora nulla!»
«Ha la mia stessa età. Si chiama Maria Grazia e fa la disegnatrice di interni.»
«Uao!»
«Puoi dirlo forte. Ha avuto proprio una bella carriera e francamente sono contento per lei. Fin da quando eravamo mocciosi, ha sempre avuto la passione per il disegno.»
«Dimmi un po’» intervenni «da quanto tempo non vi vedete?»
«Domanda difficile. Sono sicuramente molti anni. Conta che l’ultima volta che la vidi fu in occasione della festa per la sua tesi di laura. Si è laureata circa dieci anni fa … quindi direi che è da quell’occasione che non la vedo più.»
«Accidenti! Come fanno due persone che vivono nella stessa città a non vedersi per più di dieci anni? Non vi siete mai incontrati nemmeno per caso?» disse Bianca.
«No. Ma il fatto è che lei non ha vissuto sempre qui. Dopo la laurea ha avuto l’opportunità di andare a fare degli stage in Giappone. Così si è trasferita a Tokyo per circa tre anni. Un giorno mi chiamò e mi disse che stava mangiando sushi. E poi ha attraversato mezzo mondo. Il mestiere di designer è molto impegnativo, anche se devo dire che c’è pochissima gloria.»
«Già. Com’è fisicamente papà?»
«Bianca, questo è il colmo. Un investigatore privato soggetto ad un interrogatorio»
«Non è mica un interrogatorio? Sto solo cercando di fare un po’ di conversazione. Come sei suscettibile!»
«Io suscettibile?»
«Già. Ho diciassette anni. Potevo anche rifiutare di venire con te. Non sono più una bambina e onestamente pensavo di passare il pomeriggio a leggere la parte finale del mio libro. Domani avrei dovuto parlarne al club di lettura della scuola.»
«Uh, quante storie! Quante pagine ti mancano?»
«Circa settanta»
«Scusa ma che libro è Bianca?» sussurrò Andrea in modo dolce.
«”Cime tempestose”»
«Cime cosa … ?»
«”Cime tempestose” piccolo. E- un capolavoro di Emily Bronte»
«Emily chi?»
«Lascia stare» gli disse sorridendo.«Capirai quando sarai più grande»
«Meglio di no Andrea» gli dissi guardando Bianca con ironia.
«Cosa vuoi dire? Che forse non è un buon libro?»
«Sicuramente è un buon libro … per suicidarsi all’istante» e scoppiai in una risata. Bianca dal canto suo rimase impassibile, con lo sguardo che mi scrutava con diffidenza.
«Ma cosa volete capirne voi ragazzi di queste cose? “Cime tempestose” è un capolavoro senza eguali nel mondo della letteratura.»
«Non dico che non sia un capolavoro. Dico solo che per un maschio, il tuo libro potrebbe rivelarsi, ecco …  come dire … noioso?»
«Guarda che ci sono maschietti molto più sensibili di te, Alex»
«Senza dubbio. Ma forse ce ne sarà uno su un milione che apprezzerà quel libro»
«Umpf!» sbuffò facendo la faccia delusa.
«E dai, non ti arrabbiare. Stavo scherzando» le dissi guardandola negli occhi.
 «D-davvero?».
«Certo. E’ sicuramente un libro che si è consegnato alla storia come capolavoro. Fa parte di quei libri difficili da leggere però. Ed è per questo che non tutti possono apprezzarne la stesura»
«Esatto» disse sorpresa «Non sapevo fossi esperto»
«Ed infatti non lo sono. In vita mia se ho letto “La gabbianella e il gatto” è anche tanto» dissi sorridendo.
«Come? Un detective come te? Mi aspettavo avessi letto fior fiori di gialli!»
«Be’ naturalmente ho escluso i libri gialli. Ancora oggi li mastico alla perfezione. Eppure li ho letti milioni di volte.»
«Non capisco cosa ci troviate. Insomma … ce l’ho anche con mio padre, appassionato di quei libri gialli di Arthur Conan Doyle.»
«Doyle, Christie, Allan Poe … sono maestri unici nel proprio genere. Il loro modo di raccontare vicende è inimitabile. Il loro fiuto è impareggiabile.»
«Sarà … Ma io non capisco ancora cosa ci troviate»
«Mettiamola così. E’ come una partita a scacchi»
«Cioè?»
«Tu quando giochi a scacchi devi usare il cervello. E’ faticoso, ma devi farlo. Be’, una buona opera gialla è una sfida del giallista al lettore. Sta a te che leggi il libro scoprire l’assassino. E citando qualcuno sicuramente più autorevole di me … un libro che si appresta ad essere riletto è proprio il giallo. Prima puoi divertirti a scoprire gli indizi. Successivamente puoi riviverlo con le viscere di un assassino.»
«Come sei profondo! Devo dedurre che abbandonerai l’aspirazione di detective per dedicarti alla filosofia? Forse devo smettere di farti da mentore?» affermò Flavio guardando all’indietro.
«No di certo» dissi ridendo.
«Comunque» disse Flavio «questo appuntamento per me è molto importante. Maria Grazia è una vecchia amica. Comportatevi bene mi raccomando.»
Il viaggio in macchina durò circa venti minuti. Scesi dall’auto ci ritrovammo di fronte ad un appartamento in pietra, uno di quei vecchi mattoni che erano stati posati dopo la seconda guerra mondiale. All’apparenza sembrava un rudere, ma probabilmente chi ci abitava aveva le idee chiare e l’aveva arredata secondo i propri gusti. Suonammo il citofono e ci risposero subito. Procedemmo quindi in un piccolo cortiletto con il suolo in pietra, pieno di sassi e da qualche pezzo di erba verdognola.
«Flavio!» una signora con i capelli neri corvini e che li teneva raccolti in un acconciatura particolare ci venne in fronte salutando Flavio. Doveva essere Maria Grazia.
«Maria Grazia! Da quanto tempo! Come stai?» fece Flavio abbracciandola calorosamente.
«Tutto bene, tu? Vi prego entrate!»
Entrammo in una sorta di corridoio esterno sempre fatto di pietra e, quando eravamo entrati in una porta di mogano che stava sulla superficie di un palazzetto interno, ci ritrovammo di fronte una scala a chiocciola.
«Prego salite, ma state attenti a non cadere mi raccomando»
La scala a chiocciola dava su un locale abbastanza ampio, pavimentato da parquet. Era un salottino con un’ampia vetrata sulla parte ovest della casa. C’era un camino, un divano rosa e delle poltrone dello stesso colore. Ad adornare il tutto, dipinti presi ad un discount, lampade ad altezza umana e televisione di non so quanti pollici.

CAPITOLO II – Maria Grazia
La signora Maria Grazia, che avevo appena scoperto far di cognome Losti, fu una padrona di casa essenziale ed esemplare. Non esagerò davvero in nulla. Sorseggiammo del caffè e mangiammo alcuni biscottini.
«Allora» disse sollevando la bocca dalla tazzina di caffè e aguzzando lo sguardo «non mi presenti i tuoi ragazzi?»
«Oh si, certo. Questa bellissima fanciulla è mia figlia Bianca. Ha diciassette anni, mi somiglia molto vero?»
«Papà! Scusatelo signora, a volte esagera con i complimenti».
«Non è questo il caso Bianca. Sei davvero bellissima. Assomigli a tua madre. Lei era un fiore».
«Davvero signora? Lei conosceva la mamma?».
«Altroché. Quando eravamo piccolini giocava anche lei con noi e già da allora si intuiva che qualcosa sarebbe sbocciato con tuo padre» disse sorridendo maliziosamente.
Lo sguardo di Bianca si illuminò. Avevo studiato quella ragazza negli ultimi tempi. Mi era sembrata davvero straordinaria. La sua dolcezza nel fare le cose, nel rimediare a piccoli disordini quotidiani della vita,mi aveva davvero stupito. Il mistero della signora Moggelli non era ancora stato risolto. Sapevo che era deceduta, ma non sapevo le circostanze, né i modi in cui era accaduto. Non che volessi a tutti i costi saperlo. Ma parliamoci chiaro, non avrei mai voluto che un giorno, un discorso diverso dal solito tra me ed uno dei componenti di quella famiglia fosse degenerato magari per vie a me sconosciute. Avevo provato ad accennare qualcosa a Bianca. Ma forse non capiva o faceva finta di non capire. Non ve lo so dire. Tutto quello che vidi in quel pomeriggio freddo e umido fu che lo sguardo di quella ragazza, così bella, così fragile ma al contempo forte, divenne assolutamente pieno di gioia e colmo di un rancore mai svelato agli altri.
«E chi è quel bel ragazzo che sta affianco a tua figlia? E quel bambino?» disse Maria Grazia. Arrossii. Non ero abituato a ricevere complimenti. Ok, non ero un mostro chiariamoci. Ma nella mia vita la sezione “donne” era rimasta chiusa ed intonsa dai peccati per un bel po’ di tempo e ricevere anche un solo “bel ragazzo” da una donna così affascinante mi rendeva fiero ed imbarazzato allo stesso tempo.
«Quello è un nostro amico. Si chiama Alex. E’ venuto a vivere da noi per un po’ per il PSD, quella cosa della quale ti accennavo via chat, ricordi?».
«Certo, il corso per detective».
«Esatto. Per quanto riguarda quel bambino, si chiama Andrea ed è il fratellino di Alex»
«Salve signora» salutò educatamente mio fratello.
«Salve piccolo!» gli rispose sorridendo.
«Mi pare di capire che non ti senta mai solo? Non ho ragione Flavio?» disse la donna.
«In effetti no. Diciamo che siamo molto movimentati, ma d’altronde il lavoro di un detective è questo»
Nel mentre che stavamo parlando, dalla porta situata alle nostre spalle sentimmo una voce maschile, decisamente rauca.
«Maria, allora Flavio è arrivato?»
«Certo è qui!»
Flavio si alzò di scatto e andò incontro all’uomo.
«Tu sei Riccardo! Quanto tempo!»
«Flavio, lasciati abbracciare!»
L’aspetto dell’uomo sembrava da vero duro. Aveva una sorta di amplesso rude che lo contraddistingueva. La barba lunga ed incolta che portava ed i capelli rasati gli conferivano un aspetto decisamente poco raccomandabile, ma forse era solo una stupida sfaccettatura dell’essere detective.
«Come stai? Che fai adesso?»
«Sto bene Flavio. Lavoro per un’azienda agricola. Faccio il supervisore biologico.»
«Capisco. Guarda come ti sei fatto grande! E pensare che quando ti conobbi avevi solo sette anni in meno di noi. Eri un bambino.»
«Cosa succede? C’è papà di qua che … Flavio!» affermò affacciandosi dal bordo della porta una donna sulla trentina con lunghi capelli castani e profondi occhi verdi. «Sei proprio tu! Che bello vederti!» E corse ad abbracciarlo.
«Oh cavoli! Sei diventata bellissima anche tu! Maria Grazia, mi sa che stiamo diventando vecchi!» disse facendo girare su stessa tenendo per mano la ragazza.
«Ti ricordi di me vero? Sono Patrizia!»
«Certo che mi ricordo di te! Come quella volta in cui i tuoi genitori andarono a fare la spesa e ci lasciarono a casa da soli. Tu avevi solo tre anni e passai tutto il pomeriggio a giocare con te. Mi presi una ripassata di sganassoni da mia madre, ma non mi importava.»
Patrizia rise di gusto, poi gli altri due si accomodarono con noi per bere una tazza di caffè. Fatte le relative presentazioni che si rispettino,Flavio trovò l’audacia di cambiare argomento(insomma, quello attuale non era proprio esaltante, parlavamo di concime e cose varie, vi lascio immaginare).
«Dove sono i vostri genitori ragazzi? Voglio salutarli»
«Be’» disse Riccardo. «Papà è a letto. Credevo sapessi fosse malato.»
«Sì, purtroppo lo so. E vostra madre? Che bella donna! Una madre di famiglia esemplare.»
«Purtroppo mamma è andata via qualche anno fa per un incidente stradale» disse Patrizia.
«Oh, mi dispiace. Scusatemi, io non sapevo.»
«Non fa nulla. Non te l’ho detto in chat perché mi sembrava inopportuno dirtelo in quella circostanza.» affermò Maria Grazia aggiustandosi l’acconciatura tenuta ferma con un mollettone.. Poi continuò. «Capiamo il tuo dolore. Il nostro ha la stessa intensità. Mia madre era una donna straordinaria.»
«Altroché. In cucina era una draga, nelle faccende un’esperta. E che dire poi di come prendeva la vita? Aveva sempre il sorriso sulle labbra. Mi dispiace infinitamente, davvero. Una madre da cui prendere esempio.»
«Già, era unica» disse Riccardo non riuscendo a nascondere una lacrima.
«Basta con questi discorsi tristi» disse Patrizia sorridendo solo parzialmente. «Mentre parlate d’altro, vado a controllare come sta papà». E così facendo uscì dalla stanza lentamente.
Nella salottino si faceva conversazione, o almeno ci si provava. Saggio è chi dice che quando si mette in mezzo un argomento delicato è meglio scappare. In quella stanza si era instaurato un clima decisamente pesante. Non c’era tensione, direi che il sentimento che prevalesse fosse l’imbarazzo. La perdita di un genitore è come un colpo al cuore. Può ucciderti o no. Ma la cosa peggiore è che può portarti ripercussioni per tutta la vita. Ed in ogni piccolo gesto, in ogni piccolo sforzo accuserai il dolore provato quella volta, la prima. Quella volta che, bello e in piedi su un piedistallo d’amore hai subìto un attentato che ti ha praticamente sbalzato fuori dagli schemi.
Nel bel mezzo dei miei contorti ragionamenti mentali, che spesso sfociavano in veri e proprio enigmi costruiti da non so chi, le persone che partecipavano all’amabile quanto imbarazzante conversazione furono richiamati da alcuni versi strani e da qualche urlo di Patrizia.
«Oddio papà! Papà!» continuava a ripetere. Subito sia Maria Grazia che Riccardo si alzarono mentre noi francamente non sapevamo come comportarci e rimanemmo immobili con lo sguardo perso. Fu solo dopo alcuni secondi che trovai la forza di alzarmi e di andare a vedere cosa stesse succedendo nella camera del signor Losti. Lo spettacolo non fu gradevole. Il signor Losti soffriva sicuramente di una malattia che era conosciuta come epilessia. Il signor Losti, un uomo anziano, con le tempie imbiancate e con un fisico minuto era a terra in preda a delle convulsioni violentissime che lo facevano sbattere violentemente al suolo. I movimenti dei muscoli erano ampi e veloci e gli occhi si erano completamente girati all’indietro. L’uomo continuava a soffrire imperterrito al suolo con i suoi figli che tentavano di avvicinarsi per salvare il salvabile ma che sembravano inetti di fronte a quella spiacevolissima circostanza. Flavio era dietro di me e stava osservando anche lui ad occhi sbarrati. La crisi si concluse dopo circa un paio di minuti che parvero davvero interminabili. L’uomo era ancora inerme al suolo. Aveva saliva e muco vicino alla bocca, caratteristica comune a quel tipo di crisi epilettica.
Tutti e tre i figli sollevarono loro padre a fatica e lo rimisero nel letto curandolo e medicandolo come era dovuto. Provavo profonda pena per quell’uomo. Insomma, chi non avrebbe provato pena guardando quel triste spettacolo? Solo un mostro.
Dopo circa quindici minuti tornammo nel salotto.
«Da quando vostro padre è malato?» chiese Flavio a Maria Grazia.
«Ormai sono più di sette anni».
«E’ molto tempo. E ha queste crisi da molto?».
«Be’ le crisi fanno parte dell’epilessia. Le ha da quando è malato. Ma ultimamente ha aumentato la frequenza. Prima ne aveva una o due al mese. Adesso purtroppo ne ha almeno due alla settimana»
«Il medico che dice?»
«Il medico ha prescritto alcune medicine … ma sembrano impotenti».
«Capisco. Be’ mi dispiace enormemente per vostro padre. Anche lui, come vostra madre, è sempre stato un uomo dalle mille risorse. Ricordo che quando eravamo piccoli lavorava tutto il giorno nei campi».
«Già. Mio padre è molto speciale». Disse Riccardo.
«Verissimo. Una volta io e tua sorella» continuò Flavio «combinammo un guaio. Rompemmo il vaso preferito di vostra madre giocando a palla. Eravamo piccolissimi, credo non avessimo più di cinque anni. Vostro padre si prese la colpa al nostro posto. Fu un mito in quella circostanza».
«Be’ sarà meglio che vada a dargli la sua medicina» disse Riccardo.
Onestamente tra i tre sembrava indubbiamente il più premuroso dei fratelli. Ma se si potessero quantificare le doti di una persona solo mettendo in esame il loro carattere, ci sarebbe un mondo migliore. Pensateci. I buoni sarebbero buoni e da quelli scorbutici andrebbero tutti a farsi friggere. Al mondo però, ci sono molte pecore travestite da leone.
Riccardo uscì dalla cucina con un vassoio. Su di esso, un bicchiere di vetro ed una scatola di farmaci dal colore arancione.
«Aspetta» disse Maria Grazia.«Fammi vedere se gliel’hai sciolte come si deve». La donna afferrò il bicchiere dall’alto, facendoselo passare da Patrizia che quasi non lo rovesciava.
«Ahi! Tutto bene» disse toccandosi il pollice destro. Non ci avevo fatto caso era fasciato.
«Cos’ha fatto lì signorina?» le chiesi.
«Mi sono tagliata l’altro giorno mentre tagliavo le verdure a tocchetti. Sono proprio un’imbranata».
«E’ molto profondo?».
«No Alex, nulla di grave» rispose con un sorriso.
Servirono anche dei pasticcini al cioccolato quel pomeriggio. Mio fratello ne mangiò un paio. Tutti ne assaggiammo uno.
«Riccardo, non posso offrirteli. Sei allergico al cioccolato vero?» gli chiese Flavio
«Uao! Ricordi ancora? Stupefacente!»
«E tu Patrizia? Non ne prendi? Sono buonissimi!»
«No, no. Ho appena deciso di mettermi a dieta» disse la donna appena tornata dal bagno.
«Ma se ieri ne hai mangiati almeno dieci! Su, non fare la timida» disse intervenendo Maria Grazia.
Mi costava ammetterlo, ma la signora Maria Grazia era riuscita con la sua classe, il suo bohemièn, i suoi modi di fare da perfetta padrona di casa, a farmi dimenticare la mia precedente spossatezza pomeridiana. Volevo stare in casa quel giorno, ma devo dire che Maria Grazia stava mettendo a nostro agio tutti noi. Parlava amabilmente con Bianca, le dava consigli che le facevano illuminare gli occhi. Coccolava Andrea, intratteneva Flavio con una conversazione da vecchia amica mescolando ricordi ad aneddoti ed era gentile anche con me.
«Papà! No! Non mi lasciare papà!» la voce di Riccardo fu più efficace di un allarme antincendio. Balzammo in piedi e ci avventurammo nella camera del signor Losti. Il povero malato era chinato in avanti, aveva degli spasmi, dei movimenti che forse stavano ad indicare la volontà di liberarsi da qualcosa, da divincolarsi da un male. Poi cadde all’indietro e sbatté la testa violentemente sul cuscino. Teneva le mani strette attorno alla gola.

CAPITOLO III – Non è per malattia

I tre figli urlarono all’unisono «papà!» cercando di smuoverlo. Flavio si avvicinò. Tastò il polso del signor Losti e guardando Maria Grazia con gli occhi velati dalle lacrime più buie della sua carriera scosse la testa. Ebbe la grande classe di allontanarsi. Riccardo si fiondò a piangere come un bambino sulla pancia di suo padre, appena deceduto. Patrizia voltò lo sguardo al cielo, mentre Maria Grazia rimase inerme, ferma a fissare il vuoto.
«Vado a chiamare un medico» disse Flavio.
«Flavio» lo chiamai amareggiato.
«Chiama anche la polizia»
«Cosa?»
«Chiama Ducato e la squadra omicidi»
«Vuoi dire … ?» disse Bianca accennando ad una frase.
«Sì. Forse siamo davanti ad un omicidio»
«Cosa diavolo stai dicendo? Non è ora di giocare al detective, imbecille!» disse Flavio.
«Non sto giocando Flavio. Convoca la squadra omicidi, per favore».
Non so come ci riuscii, ma alla fine Ducato, seguito da Giuseppe Novato e da alcuni agenti della scientifica arrivarono in quella casa. Con loro, quasi in contemporanea, anche il dottor Archimede Basetta.
Il medico analizzò immediatamente il corpo.
«Sì, non c’è dubbio signori» disse dopo un esame togliendosi i vistosi occhiali. «Si tratta di un rarissimo caso di attacco epilettico ritardatario. Ditemi, la vittima ha avuto un attacco poco prima del decesso?»
«Sì, circa una ventina di minuti prima» rispose Maria Grazia.
«E’ tutto chiaro. Vostro padre non è stato benedetto dal cielo. L’epilessia ritardataria è più unica che rara. In pratica vostro padre scientificamente e biologicamente doveva morire al primo attacco avvenuto. Ma non so come, è venuto fuori che ha avuto una riacutizzarsi dell’attacco, che stavolta gli è stato inevitabilmente fatale. Mi dispiace ragazzi».
«Papà!» disse urlando e piangendo Riccardo. Di sicuro era il più emotivo.
Mentre Patrizia parlava e discuteva di possibili diagnosi con il dottor Basetta, l’ispettore Ducato si avvicinò a noi e disse, evidentemente scocciato.
«Be’? Perché avete contattato noi? La morte è stata naturale no? Flavio, voglio una spiegazione!» disse irritato.
«Lei vuole una spiegazione? Dovremmo chiederle insieme a questo signorino» disse indicandomi. «E’ lui che mi ha tormentato a contattarvi».
Ducato si avvicinò con passo solenne.
«E’ vero quello che dice?» mi chiese.
«Sì ispettore».
«Ora rispondimi ad una domanda, Alex».
«Prego».
«Credi che il lavoro di ispettore sia uno scherzo? Noi dobbiamo indagare su omicidi non su morti naturali! Ti è dato di volta il cervello?» disse urlando a squarciagola.
«No, no, ispettore, ci mancherebbe altro. Il fatto è che non mi sono chiare alcune cose».
«Davvero? E per questo hai allertato una parte della squadra omicidi?».
«Be’ si, ma ascolti … »
«Non voglio ascoltare nulla, il nostro lavoro qui è finito! Anzi non è nemmeno cominciato!» disse urlando e voltandomi le spalle.
Non avevo altra scelta che cominciare a parlare. Qualcosa non mi quadrava.
«Mi dica una cosa ispettore Ducato. Quando c’è avvelenamento da cianuro di potassio, la vittima cessa di respirare giusto?»
«Sì, ma cosa vuoi dire con questo?»
«Voglio dire che la vittima quando ha avuto quella crisi presunta della quale parla il dottor Basetta … teneva le mani strette attorno alla gola, ansimava a fatica ed inoltre aveva una sorta di spasmi come per divincolarsi da qualcosa.»
«Davvero?» chiese Basetta avvicinandosi a me.
«Sì dottore».
«Ragazzo, sei sicuro di non sbagliarti? Quello che stai dicendo sono cose pesanti, lo riconosci vero?».
«Sì. Sono pronto ad andare in contro a tutte le mie responsabilità».
«Quindi tu affermi … » iniziò Flavio.
«E’ un caso di avvelenamento di cianuro di potassio!»
«Non sai quel che dici!» affermò Ducato spazientito. «Non ho tempo di giocare con un investigatore da quattro soldi!»
«Ispettore mi ascolti. C’è stato un omicidio. La vittima aveva quei sintomi le dico! Provi almeno a ficcanasare un po’ in giro».
«Aspetta ragazzo. In casa non è entrato nessuno. Come può essere che nostro padre sia stato avvelenato da qualcuno?»
«Signor Riccardo. Non ho mai detto che bisognava entrare o uscire dall’abitazione.»
«Stai insinuando che … ?» disse Riccardo alzandosi in piedi.
«Esatto. Il colpevole non può essere che uno di voi tre!»
«Ma come osi bambinello?» Riccardo si era alzato completamente e mi strattonava continuamente guardandomi con uno sguardo pieno di ferocia.
«Si calmi» dissi rimanendo impassibile. «Non faccia gesti avventati» continuai scostandolo.
«Sì, ma non può essere» disse Maria Grazia. «Noi non avevamo nulla contro nostro padre. Perché mai avremmo dovuto ucciderlo?
«Insomma … dì la verità Maria Grazia. Qualcosa con nostro padre era andato storto negli ultimi anni non è vero?» la voce di Patrizia ci fece sobbalzare tutti.
«C- cosa?»
«Insomma. Nostro padre era pur sempre un uomo, e tu questo non l’avevi mai accettato. Devo dire le cose come stanno».
«Cosa vuole dire signorina?» domandò Ducato.
«Prima che nostro padre si ammalasse, frequentava una donna più giovane di lui. Aveva circa quarant’anni e Maria Grazia fu l’unica della famiglia che non l’accettò mai».
«Non è vero!» urlò la donna.
«Sì che è vero. Ammettilo. Avevi un movente valido».
Maria Grazia si avvicinò rapidamente a sua sorella e guardandola nella pupille le sussurrò:
«Anche tu potresti essere incolpata sai?»
Flavio, lì vicino, sentì tutto e chiese ulteriori spiegazioni.
«Vuoi davvero saperlo Flavio? Questa donna è divorziata da almeno due anni con suo marito, un tossicodipendente che non ha mai avuto né arte, né parte e che quando se l’è sposato le ha fatto credere di possedere auto, appartamenti, gioielli, aziende. Invece non era che un semplice scagnozzo di alcuni potenti. Quando questi lo uccisero, si scoprì che non era niente di sua proprietà e mia sorella rimase con un pugno di mosche! Mio padre le acconsentì un prestito per pagare alcuni debiti. Quant’è che ti prestò? Quanto Patrizia? Cinquantamila? Centomila? Trecentomila? Quanti? Ho perso il conto!».
Indubbiamente i toni si erano alzati. Le due donne si guardavano in modo stoico, battagliero e decisamente avvilente per essere due sorelle cresciute insieme..
«Calma signore, calma» disse cercando di pacare i toni Flavio.«Cosa mi dite di vostro fratello invece?»
«Riccardo» attaccò a parlare Patrizia «aveva avuto qualche tensione con papà negli ultimi mesi, ma nulla di grave»
«Capisco»
«Ispettore Ducato» disse l’agente Giuseppe Novato.
«Dimmi Novato»
«Abbiamo rilevato impronte oltre che sul bordo del bicchiere, anche sulla parte interna. Non sono molto chiare però, visto che l’acqua le ha cancellate e i movimenti continui del bicchiere hanno fatto il resto.»
«Dannazione! Non ci voleva»
Personalmente mi balenò un’idea in testa. Non so da cosa principalmente mi scaturì, ma da quando ero a Torino mi ero sempre fidato di me stesso e poco degli altri. Mi ero sempre aggrappato con tutte le mie forze all’intuito. E stavolta l’intuito mi diceva di procedere verso quella soluzione.
Patrizia si stava allontanando. E la vedevo discutere animatamente con Novato.
«Mi lasci! Devo solo andare in bagno!»
«Signora, la prego! Dobbiamo prima ultimare le testimonianze, poi potrà allontanarsi quanto vuole!»
«Che incompetente!»
«Signora, sto solo facendo il mio lavoro di poliziotto!» disse trattenendola a fatica.
«Cosa succede qui?» chiese Ducato avvicinandosi
«Voglio andare in bagno e questo energumeno non vuole lasciarmi andare!» disse sbuffando Patrizia
«Signora Patrizia, è proprio un’urgenza?» l’ispettore era un fascio di nervi,anche se tentava di non farlo vedere.
«Sì che è un’urgenza! Altrimenti crede che mi fossilizzerei così tanto?»
«Allora vada pure. Ma la avverto. E’ tra i sospettati, quindi non faccia scherzi.»
«Tranquillo ispettore. Non ho nulla da temere»
«Se lo dice lei»
Novato mollò la presa. La signora Patrizia percorse qualche metro, poi il mio intuito mi sopraffò.
«Scusi signora Patrizia. Posso chiederle una cosa?»
«Certo Alex, dimmi pure»
«Ha una caramella, una gomma? Insomma, qualcosa che mi addolcisca la gola?»
«Ma certo, ho delle caramelle alla liquirizia che sono un toccasana per questo genere di cose. Le prendo nella borsa» disse dirigendosi verso la poltrona che accoglieva una “Louis Vuitton” bianca di pelle e con delle borchie dorate. Frugò leggermente nella borsa, poi estrasse un pacchetto bianco e nero. Poi il silenzio. La frenata del passo, lo sguardo bloccato e un sorriso che non lasciava presagire nulla di buono.

CAPITOLO IV – Coscienza o rimorso?

Il silenzio improvviso della nostra conversazione colpì la stanza. La maggior parte degli occhi della stanza erano girati su di noi. Facevano eccezione gli agenti della scientifica e Andrea che era impegnato a giocare con chissà cosa.
«Allora, signora» la incitai «Può darmi una caramella?»
«Quali caramelle? Queste?» disse mostrandomi il pacchetto.
«Esattamente. Ha appena detto che sono un toccasana. Non è vero?» chiesi aguzzando lo sguardo.
«Già, tieni» chiese aprendomi una fessura nella confezione e invitandomi a prenderne una.
«No, signora. Ora che ci penso, ho le mani sporche. Siamo venuti da fuori e chissà quanti germi ci saranno. Nel frattempo che mi sciacquo le mani … me ne prenda una lei per favore»
«Be’, ma il fatto è che io … »
«Allora Patrizia … vogliamo finirla di giocare?»
«Cosa vuoi dire?» chiese Flavio avvicinandosi. «Cosa stai cercando di dire?»
«Nulla figuriamoci. Ho solo chiesto alla signora di estrarmi una caramella. Allora Patrizia. Me lo da questo toccasana?» dissi guardandola in aria di sfida.
«No»
«Perché no?» chiese Flavio stupefatto.
«Forse posso spiegartelo io. Sapete, l’errore sta nel pensare che il veleno sia stato inserito nell’acqua. Invece è sul bordo del bicchiere e anche all’interno ,che il veleno è stato applicato.
«E’ vero! Non ci avevo pensato! Può essere.» disse Flavio in tono esultante.
«Ma allora … il colpevole è Riccardo?» affermò Bianca «E’ lui che ha portato l’acqua a suo padre»
«Eh no. Seppur vero che il bicchiere è stato portato da Riccardo, tutti l’hanno toccato. Non ricordate? Prima in salotto, Patrizia l’ha passato a Maria Grazia che dopo averlo esaminato lo ha dato a Riccardo. Ma solo uno di loro avrebbe potuto avvelenare il signor Losti. Ed è Patrizia! Confessi signora! E’ stata lei!»
«No, non può essere» disse Flavio
«Oh sì, invece. La spiegazione di tutto ciò è molto semplice. La signora Patrizia prima di venire in salotto è passata in bagno ricordate? Mi riferisco a quando sono stati serviti i pasticcini»
«E’ vero» disse Maria Grazia.
«E ricorda cosa ha detto al suo invito di prendere un pasticcino, Maria Grazia?»
«Che era a dieta»
«Ma lei ha prontamente risposto che giusto ieri la signora Patrizia aveva mangiato dieci pasticcini»
«Be’ si»
«Non le pare strano?»
«Ehi ragazzino» interruppe Patrizia «non ti pare che avrei potuto mettermi a dieta da oggi?»
«In effetti è possibile. Ma credo che lei non abbia voluto il pasticcino poiché aveva già del veleno spalmato sui polpastrelli delle dita e correva il rischio di avvelenarsi se avesse preso, e poi successivamente mangiato, un dolcetto»
Lo sguardo della donna cambiò radicalmente. Da sfacciato si fece lugubre.
«In effetti può essere» commentò l’ispettore. «Ma come ha fatto a metterlo sul bicchiere? E dentro?»
«Ha approfittato di quando Maria Grazia ha voluto controllare il bicchiere no? Sapeva che era sua sorella l’incaricata di preparare le medicine. Oggi però era toccato a Riccardo e sapeva che la donna avrebbe controllato. Quindi ha preso il bicchiere per passarlo a sua sorella, ha fatto finta che gli scivolasse ed intanto lo ha toccato in tutto il bordo e anche su una parte interna.»
«Non hai prove!» urlò Patrizia
«Ah davvero? Senta, mi offrirebbe una caramella? Ma deve prenderla lei. Io ho le mani sporche.»
«Ok»
Sembrava decisa. Estrasse il suo “toccasana” e me lo porse. Ma un attimo prima che potessi prenderlo, ritrasse la mano.
«Be’? Cosa c’è?»
«Non posso darti la caramella»
«Davvero? Scommettiamo che … »
«Non dirmi che ha ancora del veleno sulle mani?!» chiese Flavio
«Esatto Flavio. Ottima deduzione. E’ per questo che voleva andare in bagno. Voleva lavarsi le mani per cancellare il veleno dalle sue mani. Non è vero?»
«Già» la donna lasciò cadere il pacchetto. «Chi avrebbe mai immaginato che queste caramelle mi avrebbero tradito?»
«A volte la vita è imprevedibile» commentai sfacciatamente.
«Ma perché lo hai fatto Patrizia?» chiese Flavio ansioso.
«Per quello che ha detto Maria. Avevo dei grossi debiti con mio padre e me li rinfacciava sempre»
Il silenzio la faceva da padrone adesso.
«Scusa ragazzo » disse già ammanettata «Ti sei esposto ad un rischio enorme. Mi hai chiesto di darti personalmente la caramella sapendo che avevo le mani di veleno. Perché hai corso questo rischio?»
«Lei è un assassina. Ma con noi si è dimostrata gentile e autorevole. Non avrebbe mai permesso che ci andasse sotto un’altra persona. Mi creda. E’ questione di fiducia»
Gli occhi le si riempirono le lacrime, poi il suo volto si girò nella direzione di Novato, che socchiuse gli occhi.
Mezz’ora dopo, eravamo sulla via del ritorno.
«Ti rendi conto che potevi farti ammazzare?» chiese Bianca irritata
«Be’, se non si corrono certi rischi …  che ci sto a fare?»
«Dovresti fare il detective non la cavia!»
«Ma è quello che faccio! Come ti ho detto mi fidavo di Patrizia, sapevo che non era una folle. E così che ho avuto la consapevolezza di rischiare.»
«Ma hai rischiato» aggiunse Flavio in tono severo. «Tua madre ti ha affidato a me. Non posso rischiare che un ragazzino si lasci avvelenare e da quando sei a Torino hai già ricevuto due-tre pressioni da parte dei criminali che hai incastrato. Tutti ti hanno strattonato ricordi? E se fosse volato un pugno?»
«E se fossero scappati?»
Questa risposta lo zittì, e noi, cauti, cauti ce ne andammo per i fatti nostri, a casa, nelle mura della tranquillità, lontana da omicidi … almeno per il momento.


 ANTICIPAZIONE EPISODIO 7: Una leggenda maledetta aleggia sulla famiglia dei Pelviani. Un rapace crudele, si diverte a strappare alla vita, uno dopo l'altro, tutti i membri della famiglia. L'apparenza inganna, e quando vedi un oasi nel deserto, al 90% è una allucinazione. E' ciò che accade ad Alex in questo episodio. I Pelviani hanno qualche segreto ... ma qual'è? E cosa c'entra con la maledizione che da anni tormenta i membri di questa famiglia? ALEX FEDELE - EPISODIO 7: LA LEGGENDA DEL GABBIANO NERO(1° Parte)
Solo su questo blog, a partire dal 1° Ottobre 2011! Non perdetelo per nessuna ragione!


sabato 17 settembre 2011

Alex Fedele: Il mistero del Supremo(stagione 1; episodio 5)


IL MISTERO DEL SUPREMO





PROLOGO: Un delitto inspiegabile in un ristorante a cinque stelle. La vittima è un tizio che sedeva al tavolo di fronte ai nostri eroi. Nulla è come sembra, e spesso la logica viene sovrastata dall'odio umano. E quando sembra che hai sconfitto tutti, arriva chi ti mette con le spalle al muro!




CAPITOLO I – Il Supremo

Il “Supremo” era, seconda Bianca, “il ristorante più in voga a Torino negli ultimi tempi”. E quando Bianca parlava, di solito nessun uomo le si metteva contro. Non che fosse un mostro, intendiamoci, ma sicuramente aveva una dote che definirei fondamentale per tutto quello che concerne una discussione. Sapeva argomentare le sue tesi. Niente male per una ragazzina di diciassette anni. Flavio ultimamente aveva un buon gruzzolo che gli affiorava nella casse. Sicuramente, il ciò non era dovuto alla mia presenza, ma diciamo che c’era stato il “mare mosso” per ciò che ne concerne i casi. Le questioni nei quali eravamo presenti sia io che Flavio raccoglievano molti consensi. Flavio veniva elogiato in qualità di mentore del progetto PSD, mentre io, ogni tanto ricevevo lodi a bizzeffe da qualche funzionario di polizia. Era per questa ragione che io, Flavio, Bianca e mio fratello Andrea ci eravamo accordati per andar a mangiar fuori e festeggiare comunque la nuova popolarità che aveva investito l’agenzia investigativa del buon Flavio. Non navigavamo nell’oro, ma sicuramente c’era una situazione migliore.
«Buonasera signori» una donna sulla cinquantina, con dei capelli rossicci, esordì così seduta su una sedia posta dietro ad una reception color legno smaltato. «Avete una prenotazione?»
«Certo signora. Flavio Moggelli.» disse quest’ultimo sollevando gli occhiali da sole in stile naif.
«Mi lasci controllare. Flavio Moggelli, Flavio Moggelli … » disse scorrendo una lunga lista compilata su un’agendina di pelle.
«Sì, ecco» continuò. «Flavio Moggelli. Ore venti e trenta, tavolo trentatré. Le chiamo un cameriere.»
Di fronte a noi, piuttosto in fretta, si parò un giovane, probabilmente ancora studente, che si manteneva facendo qualche lavoretto occasionale.
«Mi chiamo Dario. E per questa sera sarò il vostro cameriere personale» Di certo, lo charme non gli mancava affatto. Chissà quante prove aveva effettuato per essere così convincente.
«Che bello!» esultò Bianca, facendosi letteralmente brillare gli occhi. Vedevo mio fratello confuso.
«Bianca, scusa.» disse tirandola in giù per portarla al suo livello.
«Sì, piccolo? »
«Che significa quello che ha detto quel signore?»
«E’ il nostro cameriere personale. Significa che se per stasera avremo bisogno di qualcosa, ci sarà lui ad occuparsene. Hai capito adesso?» disse carezzandogli le guance.
Andrea semplicemente annuì. Dario, il nostro “cameriere personale”, ci accompagnò al tavolo. Le tovaglie color arancio acceso e i centrotavola in legno rude, conferivano all’atmosfera un aspetto decisamente caldo e familiare. Tutto ciò naturalmente, non stonava con l’ambiente chic di quel posto molto, molto gettonato.
Ci sedemmo. Di fronte ad ogni postazione, c’era un menù, color rosso carminio, con lo stemma del ristorante cartonato. In silenzio e senza dire una parola, Dario si defilò e noi fummo liberi di esaminare accuratamente tutto il succulento programma della serata.
Devo ammettere che la fama di quel ristorante era ben che più meritata. Tutto ciò che popolava il menù, erano piatti di altissima qualità. Dario tornò con le bottiglie d’acqua.
«Mi sono preso la libertà di prendere del vino per i signori» esordì.
«Ha fatto benissimo» lo incitò Fabio.
«La ringrazio signore. Avete già deciso cosa ordinare o posso darvi una mano a scegliere?»
La cortesia di quel cameriere era davvero esemplare. Da premio Oscar.
«Be’, se lei volesse indirizzarci, non ne saremmo certamente scontenti» disse Flavio esibendo il suo miglior sorriso.
«Bene, allora facciamo così. E’ una pratica abbastanza diffusa in questo locale. Io le porto nell’ordine i piatti più consumati dai clienti. Che ne dite?»
«Potrebbe spiegarsi meglio?» dissi in tono autorevole.
«Certamente signore. In pratica le verranno offerti tutti i migliori piatti del locale. Sta a voi se accettare o meno.»
Decidemmo di accettare. I piatti appetitosi erano molti e sicuramente Dario aveva buon gusto. Di certo non avremmo rimpianto nulla. Nell’attesa di mangiare qualcosa, furono serviti dei grissini e del pane. Flavio sorseggiò del vino, anche più di un bicchiere. Continuava ad elogiarne le caratteristiche pregiate. D’altronde ci avevano servito del Valdobbiene di Conegliano. Davvero niente male.
L’unica cosa che non andava quella sera erano i vicini di tavolo. Vicino a noi, a tavolo trentadue, erano sedute quattro persone. Tre uomini ed un’avvenente signorina che erano impegnati a discutere animatamente a proposito di problematiche che per loro probabilmente erano importanti. Parlavano del lavoro, del mondo in generale, della crisi economica, e stando a quanto sentii, avevano opinioni espressamente discordanti.
«Cosa diamine stai dicendo? Non sai che l’inflazione è provocata dall’aumento dei prezzi? Non lo sai che così si svaluta la nostra moneta?». Sicuramente, quell’uomo con la giacca nera e la camicia a quadretti viola, stava degenerando. Per quanto mi riguarda, forse era anche brillo.
L’avvenente signorina invece cercava di rispondergli a tono, ma era evidente che appartenevano a due caratteri diversi oltre che a due correnti di pensiero completamente opposte.
«L’aumento dei prezzi? Non dire sciocchezze! La verità è che siamo costretti a farlo per via della nostra bassa produzione ed esportazione di prodotti made in Italy.»
Per quanto riguarda gli altri due partecipanti al dibattito, più che due amici a cena, sembravano due arbitri intenti a calmare qualche lottatore di wrestling. O qualche politico a seconda dalle circostanze.
In particolare ce n’era uno, con i capelli biondi pettinati in stile “paglia secca” che cercava di dare ragione ad entrambi e che provava a calmare gli animi. L’altro invece, con gli occhialetti da intellettuale,i capelli neri e la giacca color sabbia, se ne stava in disparte cercando di carpire il più possibile dai due contendenti per poi al fuoco, si scatena un incendio. Fu quello che accadde quella sera. Flavio era particolarmente irritato dal fatto che ogni nostro discorso venisse costantemente stoppato sul nascere dalle urla di quel tavolo.
«Ehi! Non potete stare zitti?» disse con decisione.
L’uomo con la giacca nera e con la camicia a quadretti si alzò dal tavolo con una grazia senza paragoni(cogliete l’ironia, please) e rivolgendosi verso Flavio disse:
«Ehi, sottospecie di spilungone. Stai zitto se non vuoi una ripassata di sganassoni!» che finezza vero?
Il detective si alzò dal tavolo e andò a mettersi faccia a faccia con quel burbero.
«Forse lei ignora che siamo in un posto pubblico ed è buona educazione interloquire in silenzio.»
«Forse lei ignora che sono in un ristorante non in una chiesa e che lei mi sta rovinando la cena.» rispose sfacciatamente.
«Io le sto rovinando la cena? E’ lei che sta discutendo con una foga senza pari!»
«E allora? Faccio quello che voglio!»
«Non quando disturba gli altri! Maleducato!» gridò Flavio.
«E chi lo dice? Uno straccione? Guarda come vai vestito» disse afferrando la cravatta di Flavio con disprezzo. «Dove l’hai presa questa? Al mercato delle occasioni? Guarda qui» e così facendo fece un giro su se stesso.«Guarda la mia giacca. Persino i bottoni sono firmati» affermò indicando una giacca nera con delle passature sottopelle e dei bottoni color ocra, a dir la verità piuttosto pacchiani. Notai che sui bottoni c’era un segno. Non so dire esattamente cosa fosse, ma probabilmente, avrei giurato che si trattassero delle sue iniziali per quanto fosse spocchioso.
Per poco non arrivarono alle mani. La loro “piazzata” era stata udita da tutti i presenti e noi, spettatori consci del diverbio, eravamo accorsi a separare i due uomini prima che potesse finire male. Si sedettero di nuovo, ultimando la loro sfida con uno sguardo di fuoco. Poi cominciò finalmente la cena.
Dario portò ben tre portate di antipasti. Asparagi allo zabaione salato, barchette di invidia ai formaggi e arancini di riso. Deliziammo il tutto. Ora capisco perché Bianca aveva detto che quel ristorante aveva successo. Il servizio era impeccabile, le portate pure e certamente il personale era il massimo dell’essere servizievoli. Il resto della cena fu da rimanere estasiati. Servirono come primo un risotto ai funghi davvero superbo. Come contorno assaggiammo un’insalata campagnola, con prezzemolo, pecorino e peperoncino e ancora dei carciofi ai funghi. Successivamente ordinammo dell’arista di maiale e dell’orata. La cena era stata davvero super senza ombra di dubbio. Probabilmente lo sarebbe stato anche il conto, ma per una volta non faceva nulla. Non eravamo abituati a mangiare tutte le sere al ristorante. Da quando ero arrivato a casa Moggelli era la prima volta. Di solito la sera si cucinava in casa o ci si arrangiava con pizza o qualche panino. Non c’erano vizi particolari da parte di nessuno.
L’unica cosa che probabilmente aveva stonato con l’incantevole ambiente e con il delizioso servizio era stato l’insistente voglia di sopraffare tutti su tutto dell’uomo che pochi minuti prima era quasi arrivato alle mani. I suoi amici erano sopraffatti da lui, tutto quello di cui si parlava era ai suoi piedi. Pretendeva di aver ragione su tutto. Non so come le persone che erano con lui lo sopportavano. Fossi stato in uno di loro gli avrei già ribaltato qualche piatto sulla testa. Era davvero irritante. Pretendeva che gli altri aspettassero lui per mangiare, andava in bagno e ci stava mezz’ore intere. Si alzò quattro o cinque volte. Chissà. Poteva soffrire di incontinenza? A parte questo era come se avessimo cenato con quelle persone. Parlarono nell’ordine di cronaca nera, cronaca rosa, politica, sport e affrontarono discorsi atipici come quelli riguardanti mobilifici, computer, acquisti di immobili, armi, film. Insomma non ce n’era per nessuno e più che un tavolo sembrava la sede di un talk show nel quale tutti litigavano e tutti stupidamente pretendevano di avere ragione.
Il burbero del tavolo accanto, chiamiamolo così, si allontanò ancora per andare in bagno. Stessa cosa fecero altri due suoi amici. La signorina impugnava un telefonino ultima generazione, uno di quelli che si vedono in televisione negli spot pubblicitari più avvenenti con quelle modelle dalle curve aggraziate.
Al tavolo rimase solamente l’uomo con i capelli biondo paglia. Sorseggiò del liquore, si guardò attorno e si godette l’atmosfera del locale senza i suoi compagni come elemento di disturbo.
«Come è stato bello! Avete visto che avevo ragione? Questo ristorante è il migliore di Torino attualmente!» disse Bianca carezzandosi i suoi lunghi e morbidi capelli neri.
«Già. Speriamo che il conto non sia anche il più caro di Torino.» Flavio e la sua voglia di divertirsi.
«Papà! Hai mangiato, bevuto. Adesso pagherai! Non capita mica tutti i giorni di mangiare in un ristorante così. Prendila come uno strappo alla regola, ok?»
«Beata gioventù! Io alla tua età per guadagnarmi qualche soldino facevo sempre lavoretti in tutta la città. Ho fatto il benzinaio, l’uomo sandwich, ho pulito persino le scale dei condomini per guadagnarmi pochi spiccioli.»
«Sì, lo sappiamo» intervenne Fabio.«Ci racconti questa storiella da quando eravamo piccoli. Non credi che i tempi siano cambiati?»
«E’ cambiata anche la moneta!»
Fabio mi guardò con una espressione mista tra il tragico e l’esasperazione.

CAPITOLO II – Le urla rotte dal pianto

In quella cena non avevo parlato molto. Non so perché. Capitava a volte di sentirsi non male, non bene. Una via di mezzo. Be’ quella sera di autunno non ero particolarmente in forma. La mia gola era liscia come uno stridere di violini e anche tutto il resto non era propriamente al massimo delle proprie possibilità.
«Federico! Federico!» una voce assordante dal bagno degli uomini.
Inizialmente nessuno ci fece caso. Forse qualcuno stava discutendo. La voce era quella del signor “so-tutto” seduto al tavolo appena dietro a noi. Chissà, forse stava impartendo qualche altra lezione, stupida, a qualche suo altro cagnolino.
Pian piano però le parole divennero urla, il tono di voce fu rotto dal pianto e l’indubbia spocchia del nostro amico sicuramente sfociò in un’umiltà mista al pentimento. Mi accorsi che qualcosa non andava. Stessa cosa Flavio. Andammo di corsa in bagno e in quella elegante quanto grande stanza trovammo di fronte una scena veramente poco piacevole. Il signor so-tutto era piegato in ginocchio con i capelli in disordine, il colletto della camicia mal piegata e la giacca abbottonata e guardava in una delle porte con all’interno i sanitari. Corsi subito verso di lui. Lo scansai senza ritegno e diedi un’occhiata. Davanti a me si parò l’uomo del tavolo di prima, quello con gli occhialetti da intellettuale e l’aria da furbetto malizioso, steso a terra, con un colpo di pistola al cuore. Lo spettacolo fu agghiacciante. Era appoggiato con il braccio destro sul bordo del water, mentre il sinistro giaceva a terra come tutto il corpo.
«Chiamate subito la polizia! C’è un uomo a terra!» urlai. Flavio corse ad avvisare clienti e maitre e così pochi minuti dopo arrivò al completo la consueta squadra omicidi formata dall’ispettore Vincenzo Ducato, dall’agente Giuseppe Novato e da un paio di agenti della scientifica.
Ducato esaminò il corpo. I suoi guanti bianchi perlustravano ogni singolo centimetro del corpo della vittima.
«Nulla da fare signori. E’ morto. Novato. Chiama rinforzi alla centrale e chiedi altri due agenti. Il maitre mi ha comunicato che ci sono circa trenta persone nel locale attualmente e negli ultimi trenta inuti nessuno è uscito o entrato dal ristorante. Il colpevole si trova ancora qui.»
Flavio si intromise. «Ispettore, se vuole l’aiuto io a fare gli interrogatori. In due non ce la faranno mai.»
«Be’, Flavio. Se vuoi aiutarmi, accetto naturalmente.»
«Ma certo! Mi aiuterà anche Alex, non è vero?»
«Guarda, veramente io … »
«Mi aiuterai non è vero?» chiese in tono più feroce.
«C-certo. Come no?»
Non che non volessi aiutarlo. Ma ero convinto che gli interrogatori servissero solo come predisposizione alla risoluzione del caso. Negli interrogatori non c’è mai nessuno che dice la verità. Ogni piccola bugia si trasforma in una(loro) grande verità. E’ per questo che li consideravo, certo, ma sicuramente mi interessava molto di più girare nei bagni ed assistere alle ipotesi della polizia. Che farci? Dovevo attenermi a Flavio.
I rinforzi vennero comunque. Cominciammo gli interrogatori. Bianca, Fabio e Andrea se ne stavano in disparte in una hall del ristorante assieme alla receptionist e ai camerieri.
«Vengo subito Flavio»
«Dove vai? Non crederai di aver finito qui vero?»
«No di certo. Credo di aver perso il telefonino. Vado a cercarlo, torno tra un attimo.»
In realtà il telefonino ce l’avevo eccome. Ma non ne potevo più di fare interrogatori. Avevo già ascoltato la vita di tre-quattro presenti e non avevo notato nessuna anomalia.
In realtà mi diressi verso i bagni, anzi verso il bagno degli uomini. Entrai e dissi a Novato:
«Allora scoperto nulla?»
«Ancora no»
«Scusami. Vi siete chiesti perché il cadavere non ha sangue attorno a sé?»
«Cosa vuoi dire?»
«Come cosa voglio dire? Non vedi che intorno al corpo non c’è nemmeno una traccia ematica? E’ stato sicuramente pulito da qualcuno.»
«Ora che ci faccio caso … hai ragione! Com’è possibile?»
«Il nostro assassino ha ripulito le tracce.»
Ducato, sentendo la conversazione ordinò ad un agente della scientifica di “provare il test del luminol”.
Per chi non lo sapesse, il luminol è una sostanza che spruzzata su di una superficie rileva automaticamente delle tracce ematiche.
«Bella intuizione ragazzo. Qui nessuno ci aveva fatto caso. Sai, ne vediamo di casi di questo genere al giorno, una dimenticanza o una sbadataggine è più che concessa.»
Non dissi nulla. Stavo pensando. Immerso nei miei pensieri. Come mai il killer si era preoccupato di pulire le tracce ematiche attorno al corpo della vittima? C’era sicuramente una ragione. Poi ebbi una sorta di intuizione. Forse una colluttazione, o altro. Forse nel insieme al sangue della vittima si era mescolato del sangue dell’assassino. E questa sarebbe stata una prova inconfutabile. Ma come scoprire chi fosse? Premesso che io avevo una convinzione che non mi si toglieva dalla testa fin dall’inizio di quella storia. Per me l’assassino era uno di quei tre che erano seduti al tavolo con lui. Non avevano alibi. Il signore con i capelli biondi, Nicola Griotti, era stato seduto al tavolo tutto il tempo. L’avevo visto anch’io. La donna , Giovanna Mearoni, sosteneva di aver passato il tempo a chiamare una sua vecchia amica nella hall del ristorante, ma quando i poliziotti chiamarono quel numero non rispondeva nessuno. Claudio Borghetti invece, il mio terzo sospetto aveva passato il tempo in bagno, a poche porte dalla vittima, ma non aveva udito nulla. Segno che la pistola o qualunque arma da fuoco fosse, aveva inserito il silenziatore.Nessun altra persona di quel locale aveva riconosciuto la vittima quando avevano detto nome e cognome. Si chiamava Federico Araghini. Aveva trentasette anni, faceva l’ingegnere e non aveva né figli, né moglie. Insomma, un ragazzo come tanti, un laureato che forse viveva da solo. Tutti erano stati interrogati sull’identità di questa persona. A tutti era stato chiesto se riconoscessero quell’uomo, ma tutti avevano dato come risposta un secco “no”. Restavo però delle mie convinzioni. Ragionai. Per asciugare il sangue non poteva aver usato dei fazzoletti. Ne sarebbero serviti a bizzeffe. Forse aveva usato un panno assorbente, un qualcosa di più spesso. Lasciai il bagno in fretta e furia e andai al primo cestino della spazzatura. Parlai tra me e me. Speravo di trovare qualcosa che potesse indirizzarmi.
E la trovai. Nel fondo di un cestino strapieno(la mia solita fortuna)trovai due spugnette per lavare i piatti. Non potevo prenderle a mani nude. Avrei rischiato di lasciarci sopra le mie impronte. Se erano ciò che pensavo, forse eravamo a buon punto. Ok, so cosa state pensando. Avrei potuto prenderle e farle esaminare. Sicuramente sarebbero state trovate tracce ematiche e le impronte digitali di chi naturalmente le aveva usate, ma il mestiere del detective non è questo. Al limite è il mestiere di uno della scientifica. Il detective deve sovrastare la scienza. Non deve fermarsi lì. Altrimenti sarebbe solo un tizio che gioca alla caccia al tesoro, non vi pare? Probabile. Il detective deve prendere le prove ed inchiodare l’assassino con le prove stesse, senza supporti scientifici, ma solo con l’intelletto.
Ritornai in bagno, presi in prestito due guanti da Novato. Tornai al mio posto e presi le due spugnette riponendole in una bustina di plastica trasparente. Poi me la nascosi nella giacca. Era piccola, quindi nella parte interna sarebbe stata bene. L’avrei tirata fuori al momento adatto.
Intanto dovevo capire come aveva fatto il killer a ferirsi. Se si era ferito nella colluttazione forse aveva rimediato qualche ferita in bocca. Infatti nessuno dei presenti, nemmeno uno tra i miei tre sospetti prioritari, aveva una benda o segno di qualche ferita. Nonostante fossero stati perquisiti, nessuno aveva visto nulla. I poliziotti li avevano trovati tutti puliti.
Conclusi che forse la ferita si trovava in bocca. Tornai in sala. Incontrai Bianca e Fabio al mio ritorno. Erano andati a fare compagnia a Flavio. Forse gli stavano addirittura dando una mano.
«Dove cavolo eri sparito?» mi chiese Flavio con la sua consueta e famosa gentilezza (cogliete l’ironia anche qui per favore).
«Ehm … ero andato a cercare il cellulare.» sorrisi come un ebete.
«Bene. L’hai trovato? Dov’era finito? In Kazakistan per caso?»
«No, no che dici? Era nel bagno. Lo avevo dimenticato sullo specchio»
Per il momento non volevo rivelargli nulla delle spugnette.
«Sai, la polizia ha notato che non ci sono tracce ematiche attorno al corpo della vittima»
«Che stai dicendo?»
«Proprio quello che ho appena finito di dire. Attorno al corpo della vittima non c’erano tracce ematiche. Strano che nessuno ci abbia fatto caso. Sarà stato per la foga del momento.»
«Vado a controllare. Continua tu per favore»
«Ok»
Mi sedetti. Bianca e Fabio mi guardarono con aria interrogativa.
«Dimmi la verità Alex, hai trovato qualcosa, non è vero?» disse Bianca avvicinandosi con aria di sfida.
«No, no cosa stai dicendo? L’avrei detto a Flavio, non credi?» affermai esibendo un sorrisone.
«No. Non lo credo. Mio padre ha sempre detto che hai la testa troppo dura. Sei ostinato e a volte ti isoli dal mondo pur di risolvere un caso.»
«Ma no! Ha esagerato. Tranquilla!»
Continuavano a guardarmi con aria interrogativa.
«Sapete cosa vi dico? Dovete farmi un favore ragazzi.»
«Spara» disse Fabio.
«Continuate voi qui gli interrogatori. Io devo … andare a … »
«Fammi indovinare» esordì Bianca con ironia «devi andare a cercare l’altro telefono?»
«Eheh, be’. Hai centrato .Io vado allora.»
«No, no! Aspetta! Come si fa un interrogatorio?»
«Oh, questo è facilissimo. Basta che tu chieda cosa facevano nell’intervallo in cui si è consumato il delitto che per quanto ci riguarda è compreso tra le ventuno e venti e le ventuno e cinquanta. Tutto chiaro? Prendi nota ed il gioco è fatto. Poi ci penserà la polizia a valutare il tutto. A proposito. Dove sono i tre amici della vittima?»

CAPITOLO III – Trucco diabolico

«La signora è nel bagno. La polizia l’ha fatta entrare anche se è quello degli uomini perché voleva osservare il cadavere. Per quanto riguarda i due uomini. Be’, il signore biondo l’ho visto parlare col maitre fino a due minuti fa, mentre l’altro è seduto lì in fondo a guardare la tv»
«Bene. Voglio vederla anch’io.»
«Eh?»
«Voglio vedere la tv. Vado a sedermi vicino al signore.»
Non nego che mi sentii un vero idiota, ma svelare le mie intenzioni in quel momento sarebbe stato un suicidio investigativo.
Andai nella direzione in cui era seduto il signore che circa un’oretta prima aveva litigato con Flavio. Era seduto ad un divanetto di color arancio spento, quasi sul marrone e guardava sulla pay-tv un programma di cabarèt.»
«Sa, sono anche i miei preferiti.» esordì sedendomi vicino a lui.
«Davvero? Non trovi siano rilassanti?»
«Già. Gradisce un bicchiere di vino? Vorrei scusarmi per il mio amico prima. Aveva bevuto un po’ troppo. Mettiamoci una pietra sopra, le va?»
«Ma certo. Anche se mi ha fatto davvero arrabbiare.»
«Lo immagino. » Presi del Valdobbiene nel secchiello posto vicino a noi colmo di ghiaccio e gliene offrì un bicchiere. Questo però accidentalmente mi scivolò dalla mano e il “nobile liquido” si versò interamente sulla giacca del signore che aveva detto di chiamarsi poco prima Claudio Borghetti.
«Oh! Che disastro! Mi scusi, sono un incapace! Mi perdoni davvero!»
«Non preoccuparti. Non l’hai mica fatto apposta?»
«Le do una mano a ripulirsi, venga qui.»
«Non insistere, ti ho detto di no»
. Ce l’avevo in pugno. Il suo non voler farsi aiutare aveva fatto scattare la mia trappola. Una persona che era stata così attenta a nascondere tracce ematiche, sicuramente aveva avuto l’accortezza di cambiare “volto” ai suoi abiti.
Mi avvicinai al suo orecchio e gli sussurrai queste parole.
«Dica la verità signor Borghetti. Lei ha ucciso il suo allegro compare non è vero?» Parlai pianissimo, attento a non farmi sentire.
Dalla sua, posso dire che si limitò ad impallidire. E che trasalì in modo grossolano.
«Che cosa stai dicendo?»
«Non faccia l’ingenuo con me signor Borghetti. Sapevo fin dall’inizio che era stato uno di voi tre. Ma sa perché ho teso la trappola per primo verso di lei? Perché prima al tavolo ha parlato troppo. Ho notato che ne aveva di nozioni sulle armi. Non le sarebbe stato difficile acquistarne una potente, dotarla di silenziatore e sparare un colpo mortale al suo amico.»
«Sei uno stupido» mi disse sempre sussurrando. Sai che non puoi incolpare qualcuno senza prove?»
«Già. Ma io so che lei è colpevole. Io ho prove. Sia scientifiche, sia causali.»
«Non dire idiozie! Non sono stato io.»
«Oh e invece sì, signor Borghetti. Vede … a me piace paragonarla ad un bambino che ha mangiato la cioccolata e con il viso tutto sporco continua a negare di essere lui il “colpevole”»
«Cosa vuoi dire?»
«Voglio dire che io ho tre prove contro di lei e che due di queste lei ce le ha addosso.»
Rabbrividì. Le mani cominciarono a stringersi in un pugno. Gli occhi a perdersi nel vuoto. Avevo fatto centro.
«Sono strasicuro che è stato lei a ripulire il sangue attorno al corpo della vittima. Non è vero signor Borghetti? Se non sbaglio le ho sentito dire che lei fosse andato in bagno con la vittima e che poi una volta uscito abbia trovato il cadavere.»
«Sono andato in bagno con Federico. E allora? Questa dovrebbe essere una prova?»
«No, ma sulle spugnette che ho ritrovato nella spazzatura e che lei sicuramente ha utilizzato per pulire il sangue attorno al corpo della vittima, ci sono sicuramente le sue impronte ed il suo DNA visto che si è preoccupato di ripulire il sangue perché per qualche motivo anche il suo sangue si era mescolato alla pozza della vittima»
Sempre più arrabbiato e con la voce rotta dall’anima tormentata affermò sfacciatamente:
«Tutto qui? Devo ammettere che sei bravo, ma non basta.»
«Dinanzi alle sue impronte digitali e alle sue impronte … lei nega? Lo sta che sta negando l’evidenza? Guardi allora. Andiamo in bagno, si faccia qualche gargarismo … vediamo se sputa saliva in modo normale o magari c’è del sangue. Non avendo ferite evidenti sono sicuro che la vittima ha tentato di difendersi e che l’ha colpita in modo violento sui denti. Lei ha commesso il delitto e come gesto di stizza ha sputato sul pavimento non è vero? Poi si è reso conto di aver fatto una sciocchezza, è andato in cucina passando dalla porta secondaria ed ha prelevato una di quelle spugnette per lavare i piatti o forse se l’era già portata, non so dirglielo. Ha asciugato il tutto e poi ha buttato nella spazzatura. Sappia che l’ho recuperato.»
«Bravo, bravo» disse in tono di sfida.
«E guardi i suoi abiti. Crede che non mi sia accorto che la giacca che indossa ha bottoni diversi? Quelli erano griffati, questi all’interno sono semplici. Anche la camicia si è cambiato. Scommetto che prima di commettere il delitto se l’è rivoltata insieme alla giacca per paura di macchiarsi. Non si è macchiato, ma non ha avuto il tempo di cambiarsi perché ha gridato “al lupo” troppo presto»
«Devo farti i complimenti. Sei molto intuitivo per essere un poppante»
«E sa perché le sto dicendo tutto questo? Perché lo sto dicendo a lei e non alla polizia?»
«Dimmi»
«Perché mentre io ho espresso come è andata e mentre lei ha confermato, il mio telefonino aveva il registratore inserito.» dissi sfidandolo con lo sguardo ed estraendo il mio Samsung dalla tasca.
«Maledetto!» si alzò e mi diede uno spintone e cominciò a correre.
Fabio, Bianca, Andrea ed il resto della gente guardava stupita la scena. Nessuno aveva udito la conversazione. Avevamo parlato sotto voce uno vicino all’altro ed io avevo avuto per tutto il tempo il registratore inserito nella tasca interna della giacca.
«Prendetelo! Fabio, non lasciarlo sfuggire!»
Fabio si mise effettivamente contro Borghetti, ma la stazza dell’uomo, più largo che lungo fece in quell’ambito la differenza. Diede un violento spintone al ragazzo che crollò a terra. Bianca tentò di lanciargli il giocattolino che Andrea teneva in mano. Era di plastica e lo prese di striscio. Stava per uscire, quando, come in un film, Flavio ed il suo tempismo presentarono l’arduo conto della giustizia.
Moggelli gli si lanciò contro e lo placcò in stile football sussurrandogli qualcosa di strano all’orecchio. Lo tenne fermo finché Novato non venne con le manette pronte. Era accorsa anche la scientifica. Mi avvicinai.
«Dimmi, un po’ ragazzino. Come hai fatto a sapere che ero stato io? Come mai hai teso quella trappola per primo a me se avevi tre sospetti?»
«Impari, signor Borghetti. Spesso, chi parla tanto si tradisce. Il discorso dell’arma c’entra solo in parte, Ho visto che lei aveva tanta competenza su quell’argomento. Ma la cosa che mi ha fatto scattare la molla per tenderle la trappola è stato il fatto che tutti parlavano con qualcuno, tutti erano agitati. Tutti tranne lei che ha avuto la freddezza di guardare un programma di cabarèt dopo una tragedia del genere.»
Consegnai la busta con spugnette alla scientifica. Dissi loro che sarebbe stato meglio esaminare la bocca del killer per avere la certezza che la ferita fosse interna.
«Hai fatto a capoccia tua un’altra volta. Il bello è che non posso nemmeno rimproverarti perché hai risolto il caso da solo.»
«Capita.»
«Già. Bravo, davvero niente male. Ora possiamo andare»
«Papà! Il conto!» Disse Bianca massaggiando la spalla di un Fabio dolorante.
Il maitre porse il conto a Flavio che per tutta risposta pagò con un’espressione da pesce merluzzo. Non vidi mai quel conto, ma doveva essere abbastanza salato per fargli fare quello sguardo.


ANTICIPAZIONE EPISODIO 6(New entry di un personaggio importante per la trama principale): Può una tranquilla famigliola di città, tramutarsi da modello di vita e di ispirazione, a gruppo di killer? La risposta è semplice. Per Alex Fedele, tutti possono commettere un reato. Anche quando non sembra tale, la bravura del detective, sta nell'individuare dettagli, che alla fine, possono rivelarsi letali! 
ALEX FEDELE EPISODIO 6: IL MALATO
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