GUERRA
AL CLAN(3°parte)
Cos’è
successo nelle prime due parti?: All’ufficio di Flavio arriva un uomo insicuro,
goffo e distratto che vuole riprendere i rapporti con sua moglie. Il problema
però è che non parla con lei da quindici anni e nel frattempo la donna si è
trasferita ad Udine, così ci incarica di trovarla, visto che lui non ha la più
pallida idea di dove sia. Andati ad Udine però, all’indirizzo del suo posto di
lavoro, scopriamo che non che la signora Draschi non lavora lì. Cerchiamo
allora su elenchi telefonici e svolgiamo alcune ricerche, ma niente. La donna
sembra sparita. Intanto Baselli ci dice di avere l’indirizzo di sua moglie e di
essersene precedentemente dimenticato. Mentre ci rechiamo al posto, la macchina
sembra avere qualche problema e così ci fermiamo. Meno male che siamo
abbastanza lontani, perché la macchina di Flavio si avvolge nelle fiamme. Dov’è
la signora Draschi? E cosa significa tutto questo?
Sigla di oggi: "Payphone" by Maroon 5 ft. Wiz Khalifa
CAPITOLO
IV – Fuoco, fiamme e paura
Mentre le fiamme avvolgevano la
Croma, Flavio urlava e il fuoco ci bazzicava negli occhi, cominciai a pensare a
Baselli e al suo strano modo di comportarsi. Sembrava atipico, strano, quasi
poco incline alla normale relazione sociale con terzi. Si era esposto
relativamente poco da quando era con noi e non mi era poi così simpatico. La
sua goffaggine lo rendeva discretamente buffo, ma di solito le persone goffe
non sono sempre simpatiche.
«Adesso siamo fottuti» disse
Flavio a bassa voce.
«Già. La macchina è andata. Dille
definitivamente addio».
«Sei di consolazione».
Grazie ad alcune sterpaglie e
alla pioggia che decorava il pantano, l’incendio fu domato. Baselli si era
tolto la giacca a vento e aveva cominciato a far vento sulle fiamme, quasi per
cercare di accentuare ancor di più l’incendio. Si era subito scusato poi,
quando era stato ripreso in modo veemente da un Flavio decisamente su di giri.
«Non ci resta che chiedere aiuto»
commentò Flavio. «Torniamo indietro. Seguitemi».
«Sarebbe inutile tornare
indietro» affermai tenendo lo sguardo sui rottami dell’auto incenerita. «Non
vedresti bene, ormai è buio».
«Genio, guarda che anche se vai
avanti c’è poca luce».
«Lo so» asserii «ma noi indietro
ci siamo già stati e non c’è nulla a parte alberi, case abbandonate e vecchi
fossati».
«Quindi tu andando avanti …».
«Spero di trovare aiuto».
«E se non lo trovassimo?».
«Allora aspetteremo il giorno.
Che ore sono?».
«E’ ancora notte fonda. Saranno
le due».
Ci incamminammo quindi in quella
lugubre e triste strada. Ogni nostro passo affondava nella fanghiglia umida e
ci rendeva stanchi ed esausti anche solo di respirare.
«Ma quando arriviamo?» domandò
Baselli.
«Lei si tappi la bocca e non
parli proprio. E’ soprattutto non rompa le scatole con il suo …».
«Flavio» lo ripresi. Gli feci
cenno con lo sguardo di calmarsi. La sua vena negativa condizionava ancora di
più la situazione.
«Cosa vuoi? Devo sfogarmi. Nella
macchina c’erano anche i cellulari,effetti personali … tutto è andato perso per
colpa di questo idiota! Se lei avesse saputo spiegarci il caso con maggior
attenzione» disse rivolgendosi a Baselli «adesso non saremmo in questa
situazione. Si è presentato con un problema, ci ha dato un indirizzo che non
corrisponde a verità ed ora ne ricaccia fuori un altro perché afferma di
essersene dimenticato! A cosa le servivano due detective se sapeva già dove
abitava sua moglie?».
«Il fatto è che non sapevo in che
stato l’avrei trovata …».
«Si spieghi» incitai.
«Il fatto è che tutti i familiari
di mia moglie erano preoccupati per lei e adesso hanno incaricato me di andarla
a prendere e riportarla in città … ma nessuno ha sue notizie da ormai mesi e
mesi e non riescono a rintracciarla in nessuna ragione. E’ per questo che mi
sono rivolto a voi».
Poi Baselli rallentò il passo.
Inizialmente camminai, poi provai a voltarmi e con la coda dell’occhio vidi che
quasi sorrideva.
Non feci in tempo nemmeno ad
annuire che fummo attaccati nell’oscurità. Non saprei descrivervi bene i nostri
aggressori, l’oscurità non mi ha consentito di vederli bene, ma posso
sicuramente affermare che colui che era incaricato di marcarmi stretto, ci riuscì
benissimo. Fui sovrastato fisicamente da un uomo alto almeno due metri. Aveva
mani pesanti che mi spingevano la testa nella fanghiglia e un dialetto molto
strano che gli fungeva da lingua principale. Nessuno dei tre aggressori
spiccicò una sola parola in italiano, parlarono solo in dialetto, ma si fecero
dare i miei documenti, di Flavio e di Baselli. Presero anche la pistola che
Flavio aveva messo sotto la camicia, da dietro.
Se ne andarono subito, si
dileguarono nell’oscurità come fossero polvere.
«Ma si può sapere cosa diamine
sta succedendo? Ce l’hanno con noi? Venite fuori!» gridò Flavio sull’orlo di un
esaurimento nervoso.
Baselli sembrava ancora
rimbambito e frastornato dalla circostanza e si reggeva il braccio destro con
veemenza.
«Comincio a pensare che sua
moglie sia entrata in qualche affare losco» commentai alzandomi dolorante senza
neppure fare una piega. Mi girava la testa e avevo la parte destra del volto
tutta sporca. Logico, avevo avuto un contatto ravvicinato con il fango.
«Come si permette?» mi riprese.
«Come mi permetto? Da quando
siamo arrivati a Udine abbiamo girato mezza città alla ricerca di una donna che
finora non ha mostrato nemmeno l’ombra di sé stessa, poi la nostra auto ha
preso fuoco ed ora veniamo assaliti da tre delinquenti di strada a pochi
chilometri da quella che dovrebbe essere la casa di sua moglie. Mi perdoni, ma
ho tutto il diritto di pensare che ci sia qualcosa di più grosso sotto».
Baselli mi guardò in modo
rabbioso. Per un attimo ebbi l’impressione che i suoi occhi fossero delle frecce
e che io fossi l’idiota con la mela in testa e che suda freddo ogni secondo
della sua vita.
Poi si ricompose, ed in un attimo
di estrema calma mi rispose.
«Lei è un detective. Il suo
mestiere è fare teorie».
«Il mio lavoro è quello di
risolvere casi legati a delitti, ritrovare persone, non stare appresso ai
fantasmi» lo stoppai freddo.
Mi guardò stranito, poi un
sorriso sadico si dipinse sul suo viso. Ricordo che non mi piacque affatto. Ero
decisamente preoccupato, anche se cercavo di non darlo a vedere.
Alzammo gli occhi e vedemmo alla
nostra destra che eravamo praticamente arrivati. Davanti a noi si ergeva una
sperduta casetta di legno, una baracca praticamente sfasciata.
«Credevo mancassero ancora
chilometri» ripresi a parlare «è questo l’indirizzo?».
«Corrisponde» disse Baselli
indicandomi uno sbiadito cartello.
Rialzandosi a fatica, Flavio provò a
destabilizzarsi. La sua testa girava ancora, il suo stomaco era ancora tutt’uno
con il conato di vomito che gli si era piazzato praticamente in gola e la
visione ancora sbiadita.
La cravatta gli svolazzava
seguendo la direzione del vento e i capelli gli si erano scompigliati talmente
tanto che sembrava un reduce da una terapia intensiva guidata da quel medico
pazzoide che fanno vedere in tv.
Ci avvicinammo a piccoli passi a quella che
sembrava davvero tutto, tranne una casa nella quale potesse abitare qualche
forma di vita sana di mente. Il recinto che fingeva di delimitare la zona della
casa dall’aspra ed umida campagna, era praticamente rotto e sfasciato in ogni
punto. Il tetto della casa era aperto da un buco di almeno trenta centimetri
per dieci e quello che ciò vent’anni prima sarebbe potuto sembrare un
giardinetto, adesso era un tutt’uno con lo schifo di terreno che ci ritrovavamo
sulla faccia.
«Credo che sia palese che sia
disabitato» commentò Flavio tenendo la testa bassa e guardando bene i vari
elementi caratteristici del giardino.
«Tu dici?» domandai con ironia
tagliente.
Mi guardò con una smorfia di
disgusto, poi aprì quel che rimaneva della porta della baracca ed entrammo
dentro. Baselli rimase fuori, quasi impaurito.
L’interno era anche peggio.
Praticamente la “casa” era divisa in due bassissimi piani. Al primo piano c’era
quello che qualcuno avrebbe potuto definire un sofà, una scrivania in legno
talmente bucata che se i tarli l’avessero vista avrebbero dato di sicuro le
dimissioni e una sedia mezza rotta. Ah sì, c’era anche un’uscita posteriore, ma
era chiusa a chiave. Al piano superiore c’era un lettino ad una piazza ed il
bagno. Più che una casa sembrava un covo.
«Bene, sua moglie non è neanche
qui» disse Flavio mentre era girato di spalle.
«Siete sicuri? Cercate meglio»
incitò Baselli con insolita voce tremante.
Ero di spalle anch’io, ma sono
tutt’oggi convinto che fu il più grande errore della mia vita. L’uomo goffo,
imbranato, insicuro e stralunato che avevamo conosciuto fino ad un secondo
prima,non era più tale. Baselli scattò rapidamente all’indietro e chiuse la
porta dall’esterno. Lì per lì rimasi di sasso e Flavio fece lo stesso, ma poi
cominciammo a battere i pugni sulla porta e a chiedere di aprire.
«Si può sapere cosa le prende?
Apra signor Baselli!» gli urlava Flavio.
«I detective credono a tutto ciò
che gli dicono gli altri, non è vero ragazzi?».
CAPITOLO
V – Fatti e parole
«Poche storie, apra subito,
perché ci ha chiusi dentro?» domandai già irritato.
«Te la ricordi la tua
dichiarazione di guerra, ragazzino? O l’hai già dimenticata?».
«Ma quale dichiarazione di
guerra? Contro di lei poi? Ma figuriamoci!».
«Non capisci un cazzo! Non sei
molto sveglio per essere definito una promessa del settore investigativo».
«Di cosa parla?» domandò Flavio.
Era rosso in viso e cercava in tutti i modi di abbattere la porta, senza
riuscirci.
«E’ inutile che tentiate di
buttarla giù. C’è un auto parcheggiata vicino alla porta e credo sia difficile
per voi riuscire a spodestarla».
Riuscii a vedere attraverso le
rotture della porta. Era una Ford Fiesta verde militare e troneggiava vicino
alla porta con una parte della fiancata destra appoggiata.
«Insomma, vuole spiegarci, sì o
no?» domandò Flavio asciugandosi il sudore.
«Prima di dichiarare guerra al
Fuoco Re, dovevate pensarci due volte, idioti!».
D’ un tratto impallidimmo. Io e
Flavio avevamo avuto, come già sapete, esperienze a dir poco traumatiche col
clan. Il Fuoco Re aveva ucciso barbaramente la moglie di Flavio e segregato per
giorni e poi giustiziato mio padre in una lenta agonia. Con Flavio se l’erano
presa perché si era infiltrato tra di loro per carpirne i segreti quando aveva
ancora la divisa, mentre con mio padre semplicemente perché era diventato
praticamente un informatore della polizia della mia città. E siccome il clan ha
espansione e giri ovunque, era stato meglio tappare due bocche pesanti, troppo
pesanti che mano a mano avevano raggiunto quasi il culmine dell’informazione La
prima per via indiretta, la seconda invece direttamente. Il fatto che non
riuscivamo a spiegarci era come facessero a sapere che in realtà volevamo dare
il nostro contributo alla causa contro di loro. Dovevamo farlo. Per il nostro
lavoro, per i nostri familiari, per la gente che perso tutto con un colpo di
arma da fuoco, per l’onore, per la rabbia, per le lacrime versate e per quelle
da versare. Era il nostro dovere. Ma non riuscimmo a pensare quella notte.
Colpi di mitra si abbatterono contro la porta danneggiandola parzialmente.
Poteva non sembrare affatto, ma quella porta era così robusta e resistente che
i proiettili del mitra riuscivano a malapena ad entrare e a creare panico.
Sia io che Flavio crollammo a
terra nella nostra miglior imitazione di Al Pacino nella seconda parte del
“Padrino” Sì, avete capito. La scena dove gli sparano in camera da letto e lui
si raggomitola a terra. Eravamo anche meglio di lui adesso, ma la differenza è
che la nostra situazione fosse reale e non inventata.
I colpi dell’arma da fuoco
continuavano ad arrivare imperterriti, senza alcuno scampo. Se ci fossimo
alzati anche solo di un centimetro da terra, probabilmente saremmo stati
colpiti in pieno al cervello e l’idea non allettava nessuno dei due. Flavio si
riparò capovolgendo la scrivania e ponendosela come scudo, mentre io riuscii ad
arrivare nella zona dove i colpi non potevano arrivarmi, nella zona delle scale
che portavano al piano di sopra.
«Ok, mettiamola così» iniziai
affaticato «dobbiamo uscire da questa situazione. Vediamola come un gioco, ok?»
affermai mentre i proiettili zampillavano ovunque.
«Ma quale gioco? Questi vogliono
ucciderci e fare un budino con il nostro sangue!».
«Come sei poetico … ».
Seguì un attimo di silenzio
intenso. Ora la faceva ancora da padrone il rumore assordante del mitra che si
scagliava contro di noi. Le munizioni parevano non finire mai.
«Hai un piano?» mi domandò Flavio
mentre si teneva sempre più basso. Ancora un po’ e sarebbe scomparso nel
sottosuolo.
«Forse sì» affermai conscio del
pericolo. Deglutii per un attimo, poi ripresi a parlare «esci fuori».
«Cosa?».
«Ma sì, hai capito. Esci fuori e
fai da esca!».
«Ma che diamine dici?! Sei impazzito?
Vuoi farmi ammazzare?» urlò talmente forte che per poco non fu sentito anche in
Tibet.
«No … ma vuoi morire in questa
baracca oppure tra trent’anni vuoi raccontare ai tuoi nipoti di essere
sopravvissuto ad un agguato?» gli domandai sorridendo.
Mi fissò per un attimo, poi prese
fiato e disse:
«Tu sei tutto cretino. Come
diamine fai a scherzare su queste cose?».
Flavio non aveva mai visto una
simile determinazione. Negli occhi di quel ragazzo da lui conosciuto poco,
vedeva le stesse fiamme ardenti di chi non aveva paura di morire. La paura più
grande di quel ragazzo era quella di non vivere come avrebbe voluto. Pensava ad
Alex e al suo sguardo cattivo, ma non spregevole, feroce, ma non aggressivo. La
sua cattiveria era solo una forma accentuata di grinta. Il ragazzo riprese a
parlare.
«Piantala. Deciso. Tu vai fuori,
li adeschi e io corro come il vento a cercare qualcosa».
«Ma cosa vuoi cercare?».
«Aiuto no? In mancanza di altro,
verrò subito e ci prenderemo quella sfilza di dannati proiettili sul petto».
Sorrisi come non avevo mai fatto prima e lo raggiunsi dietro la scrivania.
«E’ un rischio, lo sai?» mi
chiese insicuro sul da farsi. Il sudore gli crogiolava sulle guance sporche di
fanghiglia.
«Lo so, ma non abbiamo scelta.
Davanti ci braccano e non possiamo uscire. Non abbiamo cellulari, macchina o
altro per comunicare o scappare. Quel finto stupido ha pensato davvero a tutto».
Intanto il rumore della voce di
Baselli si faceva sempre più assordante. Sembrava un po’ frustrato.
«Una cosa però devi concedermela»
mi disse con gli occhi lucidi.
«Dimmi».
«Salutami Bianca e prenditi cura
di lei. Fa lo stesso con Fabio e ti prego … dì a mia moglie che ci vediamo tra
poco».
Quelle frasi mi colpirono
profondamente e per un attimo desiderai piangere. Con la fronte impregnata di
sudore e i capelli fradici, guardavo fisso negli occhi Flavio. Non l’avevo mai
visto così. Nei mesi a casa Moggelli avevo imparato una cosa. La famiglia era
davvero una cosa fondamentale della quale inconsciamente per anni avevo pensato
di poter fare a meno. Oddio, non proprio farne a meno, ma quantomeno avevo
pensato di potermi allontanarmi un po’ da essa.
Guardavo il suo viso e rivedevo
il mio. Eravamo sudati, bagnati, sporchi, sudici, adrenalinici, cattivi
all’inverosimile e con una paura talmente grande di non poterci più nemmeno
punzecchiare, da impressionare.
Volevo davvero che le mie ultime
parole per Flavio fossero colme di sentimento e di ringraziamento, ma tutto ciò
che mi uscii dalla bocca fu:
«E dai …» e gli diedi una pacca
sulla spalla. I nostri vestiti erano strappati. Ormai il mio jeans era
inesistente, in quanto strappato in molti punti. La maglietta lasciava
intravedere una parte dell’addome, mentre Flavio si era tolto la cravatta e la
camicia era fuori dai pantaloni, quasi completamente sbottonata e con i peli
del torace a carezzarla.
Non mi disse nulla, né diede più
nulla, solo un ultimo sguardo. Sfondammo la porta sul retro insieme, utilizzando pugni, calci, testate ed
ogni parte del corpo potesse scalfirne la resistenza. Alla fine si aprì ed entrambi
scattammo come la luce. Io corsi verso sinistra, lontano dalla casa, mentre lui
strisciava a terra e urlava sfida contro il ragazzo con la mitragliatrice.
«Sono qui idioti! Venite a
prendermi, brutti criminali!». Non ne fui sicuro, ma non tardarono ad arrivare.
Dal canto mio, mi dileguai. Avevo due diverse possibilità. Numero uno, tornare
e salvare tutto come nei film. Numero due, tornare senza nulla di interessante
ed utile e trovarmi un cadavere sulla coscienza.
CAPITOLO
VI – Violenza carnale
Intanto Flavio era stato
raggiunto in modo repentino e decisamente sorprendente. Baselli, il cliente che
gli si era dimostrato tutt’altra persona, incitava al sicario di far fuoco a
vista. Dal canto proprio, l’uomo saltava e zampettava ad una velocità che mai
avrebbe creduto di poter raggiungere nella sua esistenza. Anche la barba
incolta adesso, sprizzava sudore e ne lasciava crogiolare un po’ al suolo. Il
sudore cadeva sullo stesso suolo che il
detective poco prima aveva assaggiato con il viso.
Scappò, zampettò, distolse, fece
finte degne di un campione del mondo di calcio, ma alla fine un proiettile lo
abbatté, seppur solo di striscio, come il più violento dei difensori centrali.
«Ah!» urlò Flavio mentre il suo
corpo provocava il rumore di un tonfo immane. Non lo ammetterebbe mai, ma in
quel momento pensò anche ad Alex e implorava il cielo che potesse arrivare il
più presto possibile. Il dolore pervadeva ogni singolo millimetro del suo
corpo, ma aveva negli occhi l’espressione di chi non voleva arrendersi e quando
vide l’uomo con il mitra in mano avvicinarsi a lui in compagnia di Baselli,
sputò sulle scarpe di quest’ultimo in segno di disgusto.
«Deficiente. E’ la tua fine. Dì
addio al mondo» disse stizzito Baselli.
Ritornai e vidi la scena da un
punto di vista totalmente esterno. Mi sentivo come il protagonista dei giochi
di ruolo. Ma una differenza che mi piacque molto fu il rapido crollo a terra di
Mr. Mitra.
Lo colpii fortissimo sulla testa,
ok. La sbarra di ferro che avevo trovato in un cantiere edile lì vicino era
probabilmente piegata a causa dell’urto e ora non era più grigia ma rossa a
causa del sangue che la avvolgeva Ok, la testa del nostro amichetto era
talmente mal messa che un vespaio sarebbe stato più gradito e probabilmente non
avrebbe riacquistato appieno le capacità neurologiche per almeno trenta giorni.
Fatto sta che Mr. Mitra crollò a terra come un sacco di patate e che Baselli
riprese a tremare come una foglia in autunno.
«C’è qualche problema?» domandai
ironico mentre guardavo Flavio a terra che si teneva la gamba sinistra.
«Quale problema? No, nessun
problema» mi rispose a tono Baselli. Ora che non aveva più un mitra davanti non
era più così sfacciato. Osservava con le pupille che ballavano incontrollate ogni
singolo centimetro del tubo di metallo che avevo usato per sfasciare la testa
al suo amico.
«Stammi bene a sentire, lurido
topo di fogna» gli dissi appoggiandogli il tubo metallico sulla spalla «se
entro dieci secondi non mi dici il modo più rapido per andarmene da qui, avrai
una conoscenza talmente ravvicinata con questo» continuai indicandogli l’arma
«che ogni altra persona o cosa al mondo ti parrà sconosciuta per almeno un bel
pezzo».
«O-ok … allora … Prendi la Ford
Fiesta Titanium vicino alla porta e … e vattene»
«Sia chiaro» ripresi a parlare
«un’altra volta che ti vedo e fai la stessa fine del tuo amichetto a terra, hai
capito? E dì al tuo capo o a quell’idiota che ti ha mandato qui che la missione
è fallita».
Poi colpii forte allo stomaco
anche lui e cadde a terra esattamente come il mitragliatore.
Trascinai Flavio alla macchina.
Era più pesante di quanto sembrava. Andava avanti con gemiti e lamenti e non ne
poteva più di quella ferita alla gamba. L’avevano colpito appena sopra la
caviglia, diciamo sullo stinco sinistro.
«Resisti, ti porto in ospedale».
«Macchè ospedale! Non abbiamo
documenti e qui a Udine è improbabile che ci riconoscano. Inoltre è meglio che
ce ne andiamo da questa città del cavolo. Metti in moto!» mi disse già quando
eravamo in macchina. Lo sdraiai sul sedile del passeggero e gli arrestai
l’emorragia con la cinta dei pantaloni.
«Sei sicuro che posso guidare?».
«Certo che puoi!» mi rispose a
denti stretti per cercare di attenuare il dolore della ferita «non ricordi?
Anche a casa Pelviani hai fatto lo stesso».
«Ma le mie facoltà di
maggiorenne, una volta in PSD, non dovevano essere azzerate?».
«Quasi tutte. Sulla questione di
guidare un auto o un veicolo sei considerato tale. Le obbligazioni di trattarti
come un minorenne riguardano soprattutto la dichiarazione dei diritti e delle
responsabilità che mi sono assunto. Nel caso in cui … ti accadesse qualcosa,
seppur tu sia maggiorenne, sono io il responsabile e in quel caso non vale la
tua età, chiaro? E la stessa cosa vale a dire per tutte le altre cose che
implicano la presenza di un adulto, come il commettere reati, eccetera,
eccetera …».
«Limpido».
Seguì un attimo di intenso
silenzio, poi Flavio, digrignando i denti, iniziò di nuovo a parlare.
«Hai controllato che non … che
non ci siano microspie? Da quelli mi aspetto di tutto» domandò con smorfie di
dolore abnormi.
«E’ stata la prima cosa che ho
fatto quando mi sono messo in auto. Stai tranquillo».
Era andata così, viaggiavamo ad
una velocità probabilmente non consentita su scassate strade di campagna e
aspettavamo che cosa ci fosse ancora in serbo per noi. Ma una cosa era sicura.
Il Fuoco Re sapeva qualcosa di noi che pensavamo non sapesse nessuno. Come era
riuscito a scoprirlo?
ANTICIPAZIONE EPISODIO 40: Flavio è ferito e Alex lo porta in ospedale. Anche un luogo però tranquillo può rivelarsi trappola per topi. E se quella trappola scatta ... ALEX FEDELE EPISODIO 40 - IL PAZIENTE UCCISO! Solo qui a partire dal 2/06/2012! NON PERDETELO PER NESSUNA RAGIONE!!!!