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venerdì 29 giugno 2012

Alex Fedele: Gita in Toscana(4°parte) #44(seconda stagione)


Nota dell'autore: Per probabile assenza nella giornata di domani, pubblico oggi la quarta parte di "Gita in Toscana". Andiamo quindi in "onda" con un giorno d'anticipo solo per questa settimana. Buona lettura!

GITA IN TOSCANA(4°parte)

Cos’è successo nelle prime tre parti? : Io e Flavio riceviamo una lettera da parte di un certo Amaranthus che ci vuole affidare un caso molto delicato. Arrivati a Vicchio, sede stabilita per l’incontro, vediamo che non siamo gli unici detective presenti. Oltre a noi ci sono due conoscenti di Flavio, Antonio Verdone e Luana Siamese, che sono accompagnati dai rispettivi allievi, Claudio Maretti, un ragazzo scontroso e decisamente ribelle e Denise Diamelli, una ragazzina cupa e misteriosa che mi sorride in modo poco chiaro. Oltre a noi ci sono anche altre quattro persone. Veniamo quindi convocati nel salone e una voce che esce da un altoparlante ci informa che la convocazione è solo l’inizio di un macabro gioco nel quale verranno eliminate tutte le persone che non sono detective. Gli investigatori invece, dovranno assolutamente scoprire il modus operandi di tutti gli omicidi e più indizi possibili sul fantomatico Amaranthus. Se entro 12 ore non riusciremo a farlo, la casa salterà in aria!
Appreso quanto successo, il gruppo decide di mettersi al lavoro. Io e Denise troviamo una stanza piena di Aloe e di Tigli. Mentre stiamo riflettendo sul da farsi, Fabrizio Finelati ci chiama a raccolta con un urlo terrificante. Sabrina Tosceni, la modella dai capelli neri, viene trovata pugnalata alla parte destra dell’addome. A fianco del suo corpo viene ritrovato un Dente di Leone. Com’è successo? E soprattutto, chi è Amaranthus? Bianca trova una giarrettiera in bagno e la mostra al gruppo. Riccardo vomita e comincia così a scappare in giardino, dove viene freddato da un colpo di pistola. Sul posto viene rinvenuto un papavero rosso. Sembra finita, ma non è così. Notiamo un’auto parcheggiata in un angolo sperduto del viale. Mentre Denise e Salvatore, arrivato intanto per aiutarci, la controllano, questa esplode. Per fortuna riesco a trascinare con me Denise, ma purtroppo Salvatore muore nell’auto in fiamme. Vicino il luogo troviamo ancora un altro fiore, l’Asperella. Mentre medichiamo Denise, notiamo quanto sia accurata la cassetta del pronto soccorso di Amaranthus.




CAPITOLO VIII – E li chiamavano nemici


«Io direi di controllare al piano di sopra» sussurrò Flavio mentre si accendeva una sigaretta.
«Papà» lo riprese Bianca «non fumare in casa».
«E perché no? Samorella lo fa da quando siamo arrivati! Non ho tempo ora di rispettare un tizio che vuole ammazzarci tutti. Andiamo sopra ragazzi».
In tutto quel trambusto, mi colpì la notevole freddezza di Fabio, testimone impavido e al contempo talmente oscurato dalle circostanze da sembrare così estraneo e decisamente fuori gioco.
Era stato davvero impalpabile, sia nelle parole che negli atteggiamenti e c’era qualcosa in lui che stentava a decollare nonostante la situazione offrisse notevoli spunti per dialoghi senza dubbio intensi.
«Fabio che cos’hai?» gli domandai mentre mi allacciavo una scarpa.
«Nulla nulla …».
«Impossibile. Siamo qui da ore e nonostante la situazione non spiccichi parola … ».
«C’entra l’amore, vero?» interruppe Denise. Aveva portato il suo bellissimo sguardo su Fabio e il ragazzo era notevolmente arrossito.
Ci fu silenzio per qualche secondo, poi prese fiato e rispose.
«Be’ …».
«E’ amore» sentenziò ancora Denise. Per poi continuare con «non è vero?».
Fabio tacque ancora. Denise allora si sistemò i ciuffi ribelli dei capelli e rivolgendosi a me affermò:
«Non perdere tempo per svelare questi enigmi detective. Tutti lo sanno che le donne sono più sveglie nei sentimenti».
«Martina, no?» gli domandai comunque.
«Indovinato.
«Ancora?» mi riprese Denise «non vuoi farti gli affari tuoi?».
Rimasi a fissarla un attimo, poi seguii Flavio, Antonio e Claudio al piano di sopra. Fabio, Andrea, Denise, Luana e Fabrizio, ultimo sopravvissuto del gruppo, rimasero al piano di sotto. Bianca aveva voluto per forza venire con noi. Onestamente ne ignoravo il motivo in quanto credevo sarebbe rimasta con Fabio e Andrea, ma non potemmo rimandarla indietro, visto che ci accorgemmo della sua presenza solo quando eravamo già a metà scalinata.
Mentre andavamo al piano di sopra, mi accorsi in modo netto di quanto fosse lunga la scalinata. Non avevo mai percorso così tanti gradini in vita mia ed ero sicuro che solo quelli della vita fossero più lunghi.
Arrivati al piano di sopra, decidemmo di ispezionare il posto in quantità di millimetro.
«E’ da qui che è piovuto il fiore, no?» domandò Antonio a Claudio. Il ragazzo asserì deciso.
«E allora ci sono probabilità che il nostro uomo sia qui» commentò Flavio.
«E chi l’ha detto?» domandai «Amaranthus avrà un sacco di sbocchi e passaggi segreti per riapparire quando e dove vuole».
«Odio il tuo pessimismo».
«Devo ammettere che stavolta Alex ha ragione» commentò Claudio. Non ci credevo, finalmente era d’accordo con qualcosa che non fosse una sua opinione. Per un attimo mi sembrò un miraggio e udii degli strani rumori, simili al brontolio di qualcosa. Poi ritornai sulla Terra e mi accorsi che era solo il mio stomaco. Logico, non mettevo sottobocca qualcosa da sette, otto ore.
«Ok, dividiamoci così» iniziò Antonio. «Io e Flavio ci occupiamo della parte ad est della casa, mentre tu e Claudio prendete la parte ovest, siamo d’accordo?».
«Per me va bene» commentai.
«Ed io?» chiese la delicata voce di Bianca.
«E tu …» iniziò titubante Antonio «puoi seguire i ragazzi, ok?».
«Magnifico!» esclamò allegra battendo le mani.
«Fantastico …» sussurrò ironico Claudio. E così facendo mi rivolse un’occhiataccia.

Flavio e Antonio si davano da fare ed era davvero strano vederli collaborare. Erano da anni che ormai non si trovavano così a meraviglia. Vecchi dissidi, vecchie polveri, stupide ed incessanti discussioni inutili, avevano deteriorato un rapporto che anni prima era stato senza dubbio buono, almeno sotto il punto di vista lavorativo.
«Trovato qualcosa?» domandò Antonio mentre rovistava nei cassetti.
«Nada» rispose Flavio slacciandosi il nodo della cravatta. L’aveva tenuto già troppo a lungo e ormai non resisteva più.
Mentre cercavano c’era silenzio, ma non silenzio normale, c’era un silenzio viziato dalla convinzione di poter tornare belli e ruggenti come gli anni passati, quella convinzione di poter ancora collaborare e bruciare tutti con qualche deduzione degna del miglior detective romanzato. A rompere il ghiaccio fu Antonio, tanto solerte quanto ferreo e poco incline al dialogo.
«Te la ricordi quella volta nel caso Paloni?».
Flavio rimase zitto per qualche istante, poi con tutta la calma del mondo si voltò e rispose con un flebile «Sì».
«Belli i paesaggi toscani, non è vero?» domandò ancora Antonio.
«Già …».
Passò ancora qualche minuto, nei quali sia Antonio che Flavio pensavano a come se la stesser cavando Alex e Claudio, i loro pupilli. Si rivedevano in loro, anche se non totalmente. Flavio ammirava la grinta, l’intelligenza brillante e fine di Alex e Antonio aveva molto a cuore la rabbia agonistica di Claudio, il suo forte senso deduttivo, il suo fiero spirito d’osservazione.
«Senti, ti ricordi quando quel proiettile mi ha sparato e tu mi hai portato in ospedale anche se era una cosetta da niente?» domandò ancora Antonio.
Flavio si voltò di scatto.
«Sei troppo legato ai ricordi a mio avviso. Quello che dici fa parte del passato, ormai».
«Ce l’hai ancora con me per quella storia?».
«Quale storia?».
«Lo sai. Eravamo novellini in polizia, no?».
Flavio rimase per un attimo impassibile. Le sue mani, ferme sulle intelaiature delle finestre, avevano assunto piccole ed incisive pulsazioni, sintomo di rabbia.
«Lasciami lavorare, ok?».
«E dai» disse Antonio. «Ancora? Te la sei proprio legata al dito, allora!».
«Non so di cosa diamine tu stia parlando».
«Giulia» sussurrò ad occhi bassi.
In quel momento Antonio aveva appena innescato una bomba atomica di proporzioni gigantesche. Giulia Iorbi era stata la persona che aveva causato qualche spaccatura nel rapporto Flavio – Antonio.  La storia era molto semplice. Flavio e Antonio erano pressoché della stessa età e ai tempi nei quali entrambi entrarono in polizia, c’era una bellissima studentessa di medicina dai capelli castani, una ragazza slanciata e fascinosa, attraente, brillante ed intelligente. Questa ragazza era Giulia.
I due si erano presi una bella cotta per lei e così nacque una profonda rivalità che ben presto si tradusse in competizione spropositata. Se Antonio arrivava prima di Flavio a lavoro glielo faceva notare, se Flavio riusciva ad ottenere un complimento da un superiore, faceva lo stesso. E così, giorno dopo giorno, i rapporti si erano deteriorati fino a ridursi metaforicamente a brandelli. Ora ci voleva un buon sarto. O un rapporto nuovo.
«Non ti permettere» sussurrò ad occhi bassi Flavio.
«Suvvia, ancora con …».
«Non ti permettere!» urlò stavolta a muso duro Flavio. Ora il mondo era congelato e i delitti erano andati a farsi fottere, così come la buona educazione.
«Non hai nemmeno il diritto di nominarla» affermò rabbioso Flavio.
«Calmino ...» disse impassibile Antonio. «Non ti facevo così legato al passato».
«Lo sono. Il fatto ti crea problemi?».
E lo era davvero. Ma ciò che più contava era il fatto di quanto Flavio fosse legato a sua moglie. Da quando era morta non aveva mai più toccato altra donna. Fabio e Bianca lo avevano incitato a costruirsi una nuova vita, a provare a voltare pagina senza dimenticare, a cercare di farsene una ragione, ma lui nulla. Ogni sera, quando si metteva a letto, baciava con passione l’ultima foto di Giulia. Erano allo zoo e lei era talmente bella da oscurare perfino il sole.
«Che stupidi siamo … sussurrò ancora Antonio.
«Di stupido ce n’è uno solo …».
«No, lo siamo tutti e due. Spesso la rivalità spazza via il rispetto. E’ ciò che è accaduto con noi ed è tremendamente stupido. Tu ce l’hai con me per …».
«Io» disse accentuando la tonalità della voce «non ce l’ho affatto con te».
«Non ci credo» affermò disgustato Antonio. «E’ da quella volta che cominciasti a trattarmi così».
«E allora?».
«E allora quella sera non accadde nulla, lo giuro».
Flavio si voltò ancora di scatto, come in un de ja vù troppo ripetitivo.
«Come?».
«Non accadde nulla …».
Seguì qualche momento di silenzio.
«Perché?» domandò Flavio di spalle.
«Perché cosa?».
«Perché non me l’hai detto ventiquattro anni fa?».
«Eravamo ragazzi e …».
«No …» sussurrò Flavio. «Perché?».
Ancora silenzio.
«Ero un po’ invidioso, ok?» disse deglutendo Antonio. «Era questo ciò che volevi sentire, non è vero?».
«Chi l’ha detto?».
«Oh, Flavio! Ti conosco meglio di tua madre! Sono … quanti anni che ci conosciamo?».
«Venticinque».
«Sono venticinque anni che ci conosciamo, siamo praticamente cresciuti insieme».
«E quindi? Questo cosa vuol dire?».
«Senti, ho sopportato questo fardello per sedici lunghissimi anni. Non potresti almeno far finta di apprezzare lo sforzo di liberarmene?».
«E allora liberati!».
«L’ho già fatto! Non accadde nulla quella sera».
La “sera” di cui parlavano era rimasta nelle loro memorie per un bel po’ di tempo. Non si sa per quanto in quella di Antonio, ma sicuramente era rimasta per sedici anni in quella di Flavio.
Ai tempi, Antonio e Flavio avevano ventuno anni e Giulia solo diciannove. Entrambi erano follemente persi di lei ed entrambi si davano battaglia. Giulia aveva sempre preferito Flavio. Amava di lui l’intelligenza, il suo esser virile e contemporaneamente buffo. Amava la sua barbetta incolta e quell’indole di ribellione tanto forte quanto inutile in determinate circostanze. Antonio gli piaceva, certo, ma solo come amico e non voleva, né poteva, accettarlo come uomo della sua vita. “Quella sera”, era passata alla storia come quella della rissa tra Flavio e Antonio.
Il secondo organizzò un brutto scherzo al primo. Gli fece credere che Giulia lo stesse aspettando fuori città, conseguenza di un cambio di appuntamento inizialmente programmato al cinema, per parlargli dei propri sentimenti. Flavio andò lì ed aspettò quattro ore. Ma non venne nessuno. Contemporaneamente Giulia si vide dare buca al cinema, dove però trovò subito Antonio a consolarla.
Una volta arrivato di nuovo in città, Flavio si fermò davanti al cinema, triste e isolato dal resto del mondo. Notò allora la Cabriolèt di Antonio. Aspettò che lui uscisse e una volta avvistatolo gli piombò addosso come un falco prendendolo a pugni e calci. E aveva intenzione di farlo finché questi non gli implorasse pietà. Ma ciò non accadde. Antonio, seppur tumefatto in viso, continuava a ripetere frasi offensive verso Flavio ed esplicite allusioni di tenerezze sessuali riferite al suo incontro con Giulia. Dal canto suo la ragazza assisteva al triste spettacolo vergognandosi e imbarazzandosi come non mai. Se ne andò indignata, dietro lo sguardo perso di Flavio.
Il risultato fu una sospensione dal servizio di cinque mesi per Flavio, una multa per disturbo di quiete pubblica, una denuncia di Antonio, poi ritirata, per violenza fisica e anche una lite monumentale con Giulia, la quale ci mise sette mesi a perdonarlo della scenata e a capire come erano andate realmente le cose. Successivamente Giulia e Antonio avevano rotto i loro rapporti e in seguito si erano riappacificati, ma solo come amici. Poi non si erano più rivisti fino al funerale, quando la ragazza giaceva in una triste tomba e il ragazzo indossava scuri occhiali da sole per nascondere le piegature della pelle e l’umidità delle guancie dovute rispettivamente al tempo e ai pianti.
«Tutto qui» ultimò Antonio nel flashback dei ricordi. I due si erano seduti a terra e parlavano guardando il cielo che si intravedeva dalle sporche vetrate della villa.
«Tutto qui?» ripeté Flavio.
«Già. Provai a baciarla, quella sera».
«Ma?».
«Ma mi rifilò un sonoro schiaffo e mi disse di riportarla a casa in fretta. Voleva solo te, capisci?».
Flavio si zittì.
«Non te l’ha mai raccontata questa storia?» domandò ancora Antonio.
«Mai».
«Ma ne avete mai parlato?».
«Di quella sera?».
«Sì».
«Hai voglia … solo che era molto sfuggente e si innervosiva sempre. Poi un brutto giorno non ne ho avuto più l’occasione».
«Che storia, ragazzi …» sussurrò esausto Antonio. Era come se si fosse liberato della zavorra più pesante del mondo.
Seguirono venti minuti di silenzio intenso nei quali i due pensarono al passato e si dimenticarono degli indizi inerenti al caso.
«Senti» iniziò Flavio. «Poi come lo hai detto a tua madre quella sera?».
«A che ti riferisci?».
«Alla scazzottata fuori dal cinema».
«Ah …» fece sorridendo. «Non andai da mia madre. Andai a farmi una birra da alcuni amici di famiglia. Una di loro era un’infermiera e così mi curò lei. Quando tornai a casa da mamma, le dissi di essere stato investito e di essere atterrato di faccia».
«Bugiardo e sfacciatamente fortunato» affermò simpaticamente Flavio.
«Non sai quanto». «Sai» continuò «probabilmente quando si dice una bugia non si pensa tanto alle conseguenze. Se avessi saputo che quella piccola bugia raccontata per provocarti avesse distrutto i nostri rapporti per sedici anni … probabilmente non l’avrei mai detta. Mi dispiace davvero».
«Mi fa piacere sentirtelo dire» disse compiaciuto Flavio.
«Comunque anche tu hai delle responsabilità» continuò sempre Antonio.
«Cosa?».
«Ma sì, non fare il finto tonto. Se avessi abbandonato la carriera in polizia, ora l’Italia si ritroverebbe con un pugile in più ed un poliziotto tontolone in meno …».
«Quanto sei idiota … » fece dandogli una pacca sulla spalla.
«Amici?» chiese Antonio.
«No».
«E dai, mi sono scusato. Abbiamo più di quarant’anni, non siamo più ragazzini, cavolo!».
«Scherzavo. Amici … ma comunque non cadiamo in sdolcinatezze … e non ti ci abituare. Il migliore sono io» disse ancora Flavio.
«Oh, questo è da vedere. Trova gli indizi, se ci riesci».
Forse il peggio era passato. Ed un litigio lungo una vita era terminato. I due uomini si guardavano in modo diverso dal solito. Nei loro sguardi c’erano ammirazione e rispetto  ma anche rimpianto e frustrazione. Con la mente viaggiavano nei ricordi e riguardavano le scene vissute con un pizzico di nervosismo.



CAPITOLO IX – Storie diverse

«Allora? Ci sono novità?» chiese ancora Bianca. Non ce la facevamo più. Era palpabile la tensione percepita da Claudio e anch’io cominciavo ad essere abbastanza stanco di sentire domande su domande ogni trenta secondi.
«No, ancora niente» rispose freddamente Claudio.
«E tu Alex?».
«Idem … ».
«Uh? Come siete taciturni voi due … sembra sempre che abbiate qualche problema».
Claudio si avvicinò a me nella sua ricerca. Bianca si stava occupando della parte che comprendeva cassetti, ripiani, scaffali, mentre io e lui stavamo controllando all’interno di mobiletti, sotto tappeti e quadri, vicino al muro. Credetemi, quel salottino era enorme. Si poteva prendere una mountain bike e scorazzarvi al suo interno senza annoiarsi mai. Senza esagerazione, credo che a occhio misurasse circa una cinquantina di metri quadri.
«Dì un po’, come fai a sopportarla?» mi chiese quasi esasperato.
«Ti ho sentito sai?» rispose Bianca a distanza.
«E’ proprio quello che volevo, dolcezza» replicò Claudio.
«Non sono la tua dolcezza, cafone».
«Che caratterino … allora?» mi chiese ancora «come fai?» mi domandò ancora a voce più bassa.
«Eh?». Non lo stavo più nemmeno a sentire
«Come fai a sopportarla? Ma soprattutto come fai ad averla intrappolata?».
«Eh?» ripetei.
«E dai, stupido» assestò «non lo vedi che è cotta?».
«Ma … cosa dici?! A chi ti riferisci?».
«A quel bocconcino che ci aiuta a cercare … si chiama Bianca, no?».
«Bianca?».
«Ma che non ci senti? Proprio lei!» e così dicendo mi scosse.
«Ma finiscila proprio!».
«L’hai già cucinata oppure …».
«Ti ho detto finiscila, dannazione …».
«E dai, non dirmi che non te la sei ancora …».
«Diamine, vuoi piantarla?!» urlai.
Bianca si voltò verso di noi e rimase a fissarmi come una che aveva appena visto Godzilla.
«Ehm … fa pure con comodo … stavamo parlando di casi … niente che possa interessarti …» la rassicurai balbettando con su la faccia un sorriso da ebete.
Mi voltai di nuovo verso Claudio guardandolo storto.
«Sei arrossito però» mi disse con una faccia da schiaffi.
«Che … che cosa significa? Sono agitato!».
«Perché ti piace, non è vero?» e mi fece gomito almeno dieci volte di seguito. Mi spazientii così tanto che alla fine lo strattonai, ma lui invece di arrabbiarsi scoppiò in una fragorosa risata che mi fece ancor di più innervosire.
«E adesso cos’hai da ridere?» gli domandai mentre continuavo a cercare.
«Sei incredibile … quindi non ti dispiace se ci provo io … vero?» mi chiese con sguardo di sfida.
Rimasi per un attimo zitto. «Ecco … è che … vedi, io non so se … se lei …».
«Tranquillo» mi disse con sguardo malizioso, «non ne ho la benché minima intenzione. Tienitela stretta quella ragazzina, ti vuole bene davvero».
«Uh?».
«Ma sì … probabilmente sei l’unico al mondo a non capirlo, che te lo dico a fare? E tu saresti un detective?».
«Sì. E allora?».
 «E allora sei proprio fuso!».
«Senti …» iniziai di nuovo a parlare dopo qualche secondo di mutismo assoluto «perché mi hai detto quella cosa poco fa?».
«Quale cosa?» mi chiese mentre gesticolava.
«Quella che si riferiva a Bianca. Mi hai detto di tenermela stretta … perché?».
«Ah sì … prima, quando ti eri allontanato per controllare alcune cose, siamo stati per qualche minuto da soli, insieme al piccoletto che si porta sempre dietro».
«E allora?».
«Lasciami finire. Si vedeva che era notevolmente in pensiero per te. Gli tremavano le mani e gli occhi guardavano il vuoto. Questo è un mestiere ingrato, lo sai?».
«Può toglierti tutto e al contempo darti tutto» sentenziai.
«Vedo che hai capito» affermò. Poi si accese una sigaretta. Già, fumava, ed era quasi strano vederlo così a proprio agio con quella sigaretta in mano. Si toccò i capelli castani e si passò una mano tra di essi. Poi tirò fuori una lunga boccata di fumo e ricominciò a parlare.
«Le persone che ci vogliono bene a questo mondo sono davvero poche, perciò devi tenertela stretta».
Rimasi attonito, quasi estasiato da una chissà quale forza estranea.
«Anche la tua storia lo insegna no?».
«Che storia?».
«Quella con quel clan … hai presente?».
« Ma tu come fai a saperlo? Non hai parlato con me …».
«Me lo ha detto Luana poco prima che arrivaste. Ha detto che Flavio si era sfogata con lei delle ultime vicende scrivendole una mail. Le aveva raccontato la tua situazione, la storia di tuo padre ucciso da quegli uomini spregevoli e l’agguato del clan di poco tempo fa. Luana e Flavio sono sempre stati in buoni rapporti e quella donna ha detto di esser stata la prima a sapere della morte di Giulia, la moglie del tuo amico».
Ero ancora intontito, cercando di collegare bocca e cervello e cercando di capire perché Flavio non mi avesse detto del suo sfogo con Luana. Certo, non mi dava fastidio. Era pur sempre una detective, ma comunque aveva dimostrato una loquacità pari a zero punto zero.
«Capisco … quella di mio padre è una storia a parte …».
«Mi dispiace, comunque …».
«Dispiacerebbe a tutti … è morto come un cane … ammazzato a freddo e lasciato in una lurida buca per giorni». Pronunciai queste parole in modo molto matriarcale. Pensai a mio padre, ma anche a chi lo aveva ucciso e pensai anche che la vendetta non è degna dell’essere detective. Un’altra cosa che pensai è che me ne fottevo altamente. Se un giorno avessi trovato la persona responsabile di tutta quella storia, il capo che aveva ordinato di rapire ed uccidere mio padre, se l’avessi incontrato probabilmente lo avrei prima riempito di pugni e calci fino allo sfinimento e poi portato alla stazione di polizia più vicino.
«Tu ce l’hai avuto per quanti anni?».
«E’ morto quando io avevo dodici anni … quindi sei anni fa».
«Te lo sei goduto per dodici anni …».
«Se “goduto” può essere considerato il verbo giusto …».
«Oh … certo che lo è» mi disse tirando un’altra boccata alla sigaretta. Mentre parlavo era diventata quasi un mozzicone perché fumava molto velocemente.
«E perché?».
«Vedi» cominciò alzandosi da terra e sedendosi sull’ampio davanzale di una porta finestra «non puoi nemmeno immaginare cosa significhi non conoscere i propri genitori».
«Perché tu sì?» gli domandai sedendomi vicino a lui.
«Puoi dirlo forte. La mia storia è … diversa dalla tua. Siamo diversi anche noi, ognuno è diverso a modo suo».
«Le diversità ci rendono quel che siamo».
«Ed infatti sono come sono perché la strada è il mio vero posto».
«Che vuoi dire?» gli domandai incuriosito.
«Senti, la conosci quella storiella che racconta che è meglio confidarsi del proprio passato con uno che si è appena conosciuto invece che farlo con una persona vicina?».
«L’ho sentita dire …».
«Io non ce l’ho mai avuto un padre, Alex. E nemmeno una madre».
Non risposi.
«Non aver paura a chiedere il perché. Non mi offendo mica, idiota».
«Ok … perché?» chiesi ad occhi bassi.
«Non te lo dico».
«Ma …?!».
«Sei curioso, no?» mi disse facendo una risata cretina. «Seriamente» iniziò di nuovo cambiando tono di voce ed espressione «sono orfano, capisci?».
«Sono … morti?».
«Non ne ho idea.».
Lo guardai interrogativo.
«Non fare quella faccia … mi hanno raccontato che mi hanno abbandonato … ora hai acceso i neuroni?».
«Completamente» risposi impassibile.
«Sì … una coppia di deficienti che hanno voluto divertirsi senza preservativo ha abbandonato in un convento un povero bambino».
«Mi dispiace molto. Se non vuoi parlarne io …».
«Ma è proprio questo. Io voglio parlarne. Solo parlarne mi fa stare meglio. Rientra nel discorso di poco fa, no? Tienitela stretta quella ragazzetta, perché ti vuole davvero bene. Oggi sono poche le persone così. Voglio farti riflettere sul mio caso, capisci? I miei genitori, coloro che hanno avuto la brillante idea di fottersi a vicenda una dannata sera, non mi hanno voluto. Il bene è qualcosa di molto raro».
Asserii colpito.
«E ora non fare quella faccia! Che pensi che sia dispiaciuto? Me ne fotto! Ho imparato a farlo, capisci?».
«Perfettamente. Quindi sei cresciuto in orfanotrofio? In convento?».
«No … già da bimbo rompevo le balle» disse ridendo. Poi proseguii «fui accudito per anni. Poi scappai quando avevo dodici anni e rimasi in strada per un po’ …».
«In che senso?».
«Come in che senso?».
«In strada?».
«Vivevo in strada, no? Feci perdere completamente le mie tracce, cambiai look. Tagliai i capelli fino ad averli rasati. Vivevo con i rom, con qualche vagabondo e chiedevo elemosina ai ricconi con la Mercedés».
«Ma … perché, se eri in un convento?».
«Non mi piace essere dipendente. Non mi è mai piaciuto. Nemmeno quando ero un bambino. Ero matto anche allora …».
«Quindi sei scappato perché non …».
«Non tolleravo che qualcuno si occupasse di me …». Per un attimo mi parve che un pianto venisse soffocato dal suo carattere. Era troppo duro per piangere e sicuramente considerava il gesto una debolezza.
Gli misi una mano sulla spalla, poi gli “spazzolai” la testa e gli dissi:
«Ora ho capito quella frase».
«Sono contento» disse ridendo. Aveva una risata strana. A prima vista poteva sembrare quella di uno sbandato, di un fatto di crack, di un fumatore sballato, ma invece Claudio era un ragazzo decisamente diverso da come si presentava. In quei minuti notai in lui tutta la freddezza e tutto il distacco causato da anni di frustrazioni. Riuscii ad intravedere il profondo della sua anima ribelle, la sua forza interna e il suo mal di pancia causato da tanti anni di silenzio dovuto alle circostanze. Vedevo in lui il ragazzo difficile, quello fiero e orgoglioso che non aveva niente da dire in quanto taciturno. Ignoravo che spesso proprio queste persone sono coloro che hanno più da dire.

CAPITOLO X – Sfida ad Amaranthus

Restammo molto tempo a cercare al piano di sopra. Le lancette di ogni singolo orologio, come una forma di pulpito negativo, scoccavano precise e scorrevano in un turbinio di tensione. Mancavano solo due ore all’orario prefissato da Amaranthus e la sensazione di angoscia che era rimasta nascosta nella nostra parte più profonda, era venuta fuori. Personalmente pensavo di aver dedotto alcune cose su Amaranthus. Le sue azioni avevano portato ad una serie di conseguenze e ad una serie di ragionamenti inevitabili per chi fa il mio lavoro. Già, nell’opera di devastazione c’era stato qualche tassello mal messo, una traccia di colore trascinata sulla tela, una parte di quadro non ultimata. Ma non ne ero sicuro. La possibilità datoci per smascherarlo era solo una e non riuscivo a capire quale diritto avessi io per usufruirne per primo rispetto ai vari Claudio, Flavio, Antonio, Denise e Samorella.
«Noi non abbiamo trovato niente» esordì Antonio entrando nella stanza nella quale io, Claudio e Bianca facevamo le ricerche. «E voi?» aggiunse.
«Siamo esattamente come voi. Non abbiamo nulla» rispose a tono Claudio.
«Dannazione!» esclamò frustrato Flavio. Si era portato una mano tra i capelli e aveva cominciato a camminare nella stanza in modo vorticoso.
«Stiamo calmi … è probabile che …» provai a dire. Ma venni interrotto da Bianca.
«Ho trovato una porta!» urlò a squarciagola.
La raggiungemmo subito nell’ampio corridoio nella quale si trovava.
«Vedete questa libreria? Tutta finta! Guardate!» disse toccandone uno scaffale, il terzo per la precisione. La libreria si girò completamente su di essa e ci ritrovammo di fronte ad una stanza ben più curata delle altre, con una tappezzeria color lavanda e numerosi quadri molto preziosi.
La stanza era decorata con un parquèt talmente lucido da potersi specchiare e con divanetti pregiati in stile barocco.
«Oh, che bella donna!» esclamò quasi istintivamente Bianca. Il suo sguardo si era posato su un quadro diverso da tutti gli altri. Se ne stava a spadroneggiare in una cornice sicuramente di maggior valore, nel posto più strategico di tutti, sopra il camino. L’opera ritraeva una donna bellissima, incantevole, straordinaria per certi aspetti. Una donna così, certamente l’avrei vista poche volte nella mia vita e così mi fermai ad ammirarla per un attimo.
I lunghi capelli biondi le cadevano delicatamente sulle spalle adornando una creatura divina, sublime. Gli occhi verde smeraldo erano così incisivi da sembrare quasi vivi e vegeti e le sue labbra di pesca sembravano così morbide che avresti voluto baciarle per ore.
«E’ … stupenda» disse ammirato Claudio. Ora tutta la sua spavalderia era incredibilmente scomparsa.
«Chissà chi è …» domandò cinicamente Flavio.
La donna teneva in mano delle rose appena sbocciate. L’artista era stato bravissimo, tanto bravo da far risaltare anche la rugiada intrisa nei fiori.
«E che bei fiori che ha in mano! Come vorrei che me ne regalassero un mazzo così bello!» affermò Bianca.
Chiusi un attimo gli occhi, poi la parte del mio cervello addetta alle deduzioni si ricordò di esistere e cominciò a darmi il tormento. Ora avevo capito tutto. Avevo avuto l’ultimo input, l’ultimo indizio per colpire, oltre che la mente, anche il cuore del matto criminale che ci teneva prigionieri.
«Ho … ho risolto il caso» sussurrai. Una parte di me cercò di non farsi sentire dagli altri, ma fu inevitabile.
«Cosa? Sei diventato matto anche tu?» mi domandò Flavio.
«Per niente! Ora forse so come sono andate le cose!»
Ritornammo tutti al piano di sotto. Denise era ancora affaticata a causa della botta al ginocchio, Andrea stava parlando con lei ed ebbi come l’impressione che gli avesse raccontato tutta la sua vita.
«Ok ragazzi» emerse Flavio «l’idiota alla mia sinistra pensa di aver risolto il caso».
«Già …» asserii in un primo momento. Poi mi resi conto dell’offesa ed esclamai «Ehi!».
«E non farla tanto lunga!» mi rimproverò Flavio.
«Hai davvero risolto il caso?» mi domandò Denise cercando di venire verso di me.
«Be’ … forse sì …».
«Con i “forse” non si va avanti, ragazzino …» mi disse a muso duro Antonio.
«Antonio ha ragione. E se per caso avessi sbagliato le deduzioni? Lo hai sentito no? Ci darà una sola possibilità per uscire da qui e …» provò a dire Flavio.
«Conosco la storiella a memoria, grazie mille» lo stoppai.
«Io dico di farlo provare» sussurrò delicatamente Bianca. Tutti la guardarono perplessi.
«Sono d’accordo» commentò ad occhi bassi Denise.
«Ma … ma siete impazzite ragazze? C’è in ballo la vita di tutti, dannazione!» urlò Flavio.
«Sì, ma manca poco. Prima o poi dovremo dire qualcosa a questo Amaranthus, sì o no?» domandò ironicamente Fabio.
«Cosa vuoi dire ragazzo?» gli domandò Antonio.
«Vuole dire» intervenne Bianca «che è l’unico che abbia portato un ragionamento lineare e completo e che abbia la forza di avviare una deduzione con questo Amaranthus. Non vedo, né sento altre voci che vorrebbero dire la propria».
«Cioè … voi davvero mettereste la vostra vita nelle mani di …».
«Sì, completamente» rispose senza esitare Bianca. Stringeva Andrea e ricordo che quando il suo sguardo incontrò il mio arrossii parecchio perché sapeva di fiducia e di completa ammirazione e la cosa mi piaceva parecchio.
Flavio mi prese da parte e mi guardò intensamente negli occhi. Ci fu un momento nel quale tentò quasi di isolarci dal resto del mondo. Non capii mai il senso di quella sorta di convocazione privata, ma a mente fredda posso dire che fu un toccasana. Lo sguardo feroce e grintoso di Flavio mi caricò talmente tanto che andai a sfidare Amaranthus con un cuore che non pensavo avrei mai avuto.
«Sono qui!» urlai forte. «Sono nel salone e sono pronto a darti la mia versione dei fatti! Hai capito?».
La voce metallica di Amaranthus esplose in una sadica risata. Poi mi disse di cominciare a parlare usando il microfono che aveva disposto ad inizio serata.  Era una situazione irreale e sembrava quasi la scena di un film
«Appena in tempo. Mancano trenta minuti alla scadenza …» mi anticipò ridendo.
«E così hai saputo manipolarci come vuoi, eh?» gli domandai. Non rispose e quindi decisi di proseguire.
«Se non sbaglio la tua sfida era quella di riuscire ad individuare il maggior numero di indizio sulla tua persona e in più dedurre il modus operandi di tutti gli omicidi, non è vero?».
Ancora non vi fu alcuna risposta.
«Siccome ti rifiuti di dialogare, passo subito alle deduzioni».
Una voce nel gruppo mi disse di “andarci piano”. Solo successivamente capii che forse era quella di Fabrizio, l’unico sopravvissuto nel gruppo. Già, era l’unico sopravvissuto e mi giocavo anche la sua vita.

«Per prima cosa» iniziai con sicurezza «vorrei spiegare le dinamiche degli omicidi. La prima che hai  fatto fuori è stata Sabrina. Non è stato difficile, giusto? Hai aspettato che si allontanasse dal gruppo e che si stancasse di offrire il suo contributo alla causa, sapendo benissimo che l’avrebbe fatto. L’hai dedotto dal suo carattere un po’ distaccato. Una volta arrivata sul terrazzo, non hai fatto altro che pugnalarla a tradimento. Inutile dire che hai usato un mirino per commettere il secondo omicidio. Per l’esplosione dell’auto invece hai usato il tritolo. Me ne sono accorto dal tipo di esplosione. La nitroglicerina è solitamente più potente nello scoppio iniziale».
«Niente male … davvero niente male … ma dove sono gli …» tentò di dire. Ma lo interruppi.
«Gli indizi su di te? Dimmi … ti piacciono i fiori, non è vero?».
«Che sciocchezza!» esclamò Claudio «è normale che gli piacciano! Gli ha usati per i suoi omicidi e …» si fermò clamorosamente come dopo essersi reso conto di aver sfiorato la verità.
«Già … dalla tua faccia capisco che hai compreso. I fiori sono la vera chiave di tutto. E’ grazie al loro linguaggio che Amaranthus ha designato le sue vittime. Innanzitutto ha ucciso Sabrina e sulla scena del delitto abbiamo ritrovato un Dente di Leone. Il Dente di Leone è un fiore che simboleggia allegria, spensieratezza e chi può mai essere più spensierata ed allegra di una ragazzina?».
Ora la sala era avvolta da silenzio. Il riflesso ghiacciato della luna faceva sì che fossimo pervasi dall’incertezza.
«Passiamo a Riccardo. La vittima era un tipo piuttosto ambizioso. Lo si poteva notare dal suo modo di porsi, dal mestiere che praticava e dal suo modo di vestire. Di certo era una persona molto fiera, colma di autostima. E qual è il fiore adatto per una persona così orgogliosa? Già» acconsentii guardando fisso negli occhi Denise «è proprio il papavero rosso».
«Sei bravo …» ritornò la voce metallica. Aveva un tono compiaciuto e al tempo stesso quasi instabile.
Non risposi al complimento. Preferivo essere ucciso piuttosto che ricevere complimenti da un assassino.
«Poi c’è stato il ritrovamento dell’Asperella. Già, quel fiore era adattissimo per Salvatore. Il suo carattere rude e poco incline al dialogo, lo rendevano un bersaglio perfetto da identificare con quel fiore, non è vero?».
«Indovinato» sussurrò attraverso l’altoparlante.
«E stando al linguaggio dei fiori da te utilizzato, dal tuo modus operandi, posso dedurre che per l’ultima vittima e cioè per Fabrizio era pronto il Nasturzio, non è vero?» domandai appoggiandomi sul bracciolo del divanetto.
«Il Nasturzio è un fiore che simboleggia il patriottismo e be’ … Fabrizio ne ha da vendere. Sapevi che era appassionato di politica e di tematiche sociali vicine al nostro paese e così avevi scelto quel fiore per lui». Mi fermai un attimo prendendo fiato, poi ricominciai a parlare chiedendogli: «è tutto giusto, vero?». Avevo assunto uno sguardo di sfida. Guardavo l’altoparlante come se avessi voluto sfidarlo ad una gara di deduzioni. Al contempo mi ero attirato lo sguardo di tutti addosso. Luana parlottava  con Denise, Claudio se ne stava con un’espressione corrucciata appoggiato al tavolo, Bianca mi guardava ammirato e Flavio e Antonio sudavano freddo per paura che avessi sbagliato qualcosa.
«Complimenti. Non sapevo che un ragazzino come te potesse sapere così tante cose. Ma non hai ancora vinto la mia sfida. Non mi hai detto cosa hai scoperto su di me. Considerando che sei stato così impegnato sui delitti, non credo proprio che tu abbia potuto …».
«Mi spiace contraddirti» dissi alzando il tono della voce «ma sei in trappola».
«In trappola? Vuoi dire che sei riuscito a scoprire qualcosa anche su di lui? Ma non ha lasciato tracce, è impossibile!» affermò Antonio.
«Oh sì che ha lasciato tracce, solo che non se n’è accorto affatto, è stato questo ciò che mi ha dato vantaggio».
Tutti mi guardavano interrogativi.
«E allora vai, stupiscimi. Ma attento … al primo errore … ti faccio fuori davanti a tutti».
Deglutii per un attimo, poi mi asciugai l’unica  gocciolina di sudore ribelle che mi scendeva dalla tempia sinistra.
«Partiamo dal tuo nome. Amaranthus deriva dallo stesso ragionamento del linguaggio dei fiori da te usato per commettere gli omicidi. Lunga è la tradizione che considera l'amaranto una pianta sacra. Il nome amaranto deriva dal greco amarantos e cioè "che non appassisce".  Con questa affermazione, volevi ergerti ad un livello tale da essere considerato un …».
«Un essere immortale!» intervenne Claudio. «Un fiore che non appassisce, non muore mai, giusto?».
«Esatto» asserii compiaciuto socchiudendo gli occhi. «Ma non è questo l’unico indizio che ha lasciato istintivamente sul suo percorso».
«Uh?» esclamò dubitativa Denise. Aveva sgranato gli occhi e adesso mi guardava meno fiduciosa di tutti.
«Già. Innanzitutto è mancino. Infatti ha colpito Sabrina sulla parte destra dell’addome. Di solito, quando si colpisce una persona con veemenza e rabbia, si colpisce in modo lineare e diretto, non si perde tempo ad individuare dove le si può far più male. Ora dimmi» dissi rivolgendomi a Bianca «immagina di avere un pugnale nella mano destra. Tu dove mi colpiresti istintivamente?».
Bianca impugnò il pugnale immaginario e con la mano fece il gesto da me annunciato. La sua mano andò dritta a “conficcarsi” sulla parte sinistra del mio addome e i suoi occhi si riempirono di verità.
«Visto?» domandai alla folla.
«Be’, il ragionamento fila» osservò Flavio. «Se lui fosse mancino come detto da Alex, colpirebbe istintivamente la parte più vicina a lui e quindi di conseguenza la parte destra dell’addome della vittima».
«Forse è un botanico» sussurrò Denise. «Si occupa di fiori a quanto vedo …».
«In effetti è un botanico, ma lo si può capire anche dalla sua cassetta del pronto soccorso. Ha così tanti medicinali, alcol, cerotti, bende, garze, che si può facilmente capire che il mestiere da lui praticato è in stretto contatto con l’uso delle mani e magari con l’eventualità di farsi male facilmente. Poi, visto che conosce così bene i fiori e che la sua casa è piena di piante, si può dedurre che faccia il botanico».
Nessuna risposta dall’altoparlante.
«E poi … sua moglie è morta, non è vero?» domandai freddo. «Ho visto il ritratto. Lo ha fatto fare lei, giusto? La signora tiene delle rose rosse in mano e le rose rosse simboleggiano amore. Inoltre, la macchina che è esplosa era evidentemente riverniciata. Notandola da vicino, grazie ai lampioncini, ho potuto notare alcuni segni di incidente non completamente ristabiliti. Qual è la verità? Sua moglie è morta in un incidente stradale poco tempo fa?». Ancora nessuna risposta.
«Non si nasconda» lo incitai «Le Aloe e i Tigli che ha lasciato nello sgabuzzino ispezionato da me e Denise appena arrivati in villa, dicono tutto. I Tigli simboleggiano amore coniugale, mentre le Aloe sono decisamente il segno di immortalità secondo gli egizi. Deve aver pensato questo, giusto? L’amore coniugale che si rivela immortale».
«Più nulla?» mi chiese Antonio.
«E’ un esperto tiratore ed ha una dimestichezza abbastanza scorrevole con le armi da fuoco in generale. Ha colpito la seconda vittima senza esitazione e l’arma ritrovata è un’arma usata per l’autodifesa».
Mi allontanai dal bracciolo e andai direttamente vicino all’enorme vetrata che si estendeva per tutto il salone. Le tende veneziane impreziosivano il posto dandogli un aspetto nobile e al tempo stesso misterioso.
«Ah, dimenticavo. Amaranthus è un uomo, questo possiamo saperlo per certo dalla giarrettiera lasciata in bagno. Forse questa è la deduzione più semplice del gioco … ma se non l’avessi detta non avrei completato l’opera. Bene, ora vuole …» ma fu interrotto in modo plateale.
Non so dirvi quale santo dovetti ringraziare quel giorno. L’unica cosa che posso dirvi è che un proiettile mi passò talmente vicino alla faccia che ebbi la sensazione che la mia guancia sinistra si fosse infiammata. Non l’aveva di certo toccata, ma la velocità con la quale quel proiettile era passato lasciava presagire un errore di mira solo ed esclusivamente per volontà divina o qualcos’altro.
«Alex!» esclamò Flavio. Fu l’unico ad avere il coraggio di parlare e di dire il mio nome. Il resto passò quei secondi in silenzio.
Poi la sorpresa. Il parquèt si aprì in uno scatto fulmineo. Ne fuoriuscì un uomo sul metro e ottanta, abbastanza secco e provato dal peso degli anni. Aveva un mantello violaceo che gli conferiva un’aria inquietante e decisamente abnorme. Le mani, esili e rugose, erano il preludio di un viso deturpato dalla rabbia e dalla frustrazione. A vista d’occhio doveva avere circa cinquant’anni, ma ne dimostrava almeno settanta. Si vede quando le rughe te le guadagni con la vecchiaia e quando queste compaiono dopo lacrime pesanti.
«Solo una cosa non sai» disse alzando il tono della voce. La sua voce era diversa da come appariva al microfono. Aveva una voce gutturale, profonda e decisamente incisiva. Gli occhi erano sgranati e iniettati di sangue. Prese fiato, poi continuò a parlare.
«Lo sai quello che accadde quattro anni fa?» disse avvicinandosi e cominciando a scuotermi. Nonostante il fisico smagrito aveva una forza non indifferente.
«Lo sai?!» mi urlò in faccia. «Non lo sai. Non puoi saperlo, deficiente. Mia moglie morì, lo sai? L’hai capito idiota?».
«Perfettamente» risposi socchiudendo gli occhi.
«E capisci anche questo. Siete tutti dei figli di buona donna! Capisci?». Poi mi mollò e si passò una mano sul viso.
«Essere uccisi da un poliziotto è la cosa più brutta che può accaderti. Purtroppo a mia moglie è successo. Quel demente la prese in pieno mentre era sbronzo e fece archiviare il caso come incidente. Al funerale di mia moglie ha avuto il barbaro coraggio di venirmi vicino e di dirmi che non sarei mai riuscito a far giustizia».
«Che fine ha fatto quel poliziotto?» domandò Samorella. Si era svegliato finalmente.
«Lo ammazzai quella stessa sera …» poi esplose in una risatina inquietante «ce l’ho ancora con me …».
L’urlo di Bianca squarciò il cielo.
«Che cosa c’è ragazzina? Mai sentita una storia simile?».
«Adesso ricordo … ci fu un caso proprio quattro anni fa nel quale un poliziotto sparì nel nulla e tuttora non è stato ancora ritrovato» affermò Claudio.
«Sta in cantina … marcisce da qualche annetto» ebbe la forza di replicare in modo freddo e distaccato.
«Ma ora basta chiacchiere … l’opera deve essere completata!» esclamò con occhi spiritati.
«Che … che cosa?» riuscii a sussurrare mentre mi ero messo davanti a Bianca. Sussurrai a lei e Andrea di portare fuori l’unico superstite del gruppo delle vittime e lei scappò tanto delicatamente e leggiadra che Amaranthus, nel trambusto generale, nemmeno se ne accorse.
Non parlò più. L’unico rumore che assordì la stanza fu l’imperterrito scandire della sua pistola, l’inafferrabile momento nel quale partì il primo colpo e poi il sangue che pervase i nostri occhi quando vedemmo che Luana era stata colpita in pieno sulla spalla sinistra. La sua spalla era talmente tumefatta da lasciar pensare ad una sconvolgente cancrena.
«Porco mondo! Luana stai bene?» esclamarono insieme Flavio e Antonio. La prima cosa che io e Claudio facemmo d’istinto fu quello di capovolgere uno dei tanti tavoli che decoravano la stanza. Il pesante tavolo di metallo pesava meno in due ed ora era diventato uno scudo per potersi difendere dai proiettili feroci di quel bastardo che osava definirsi immortale. Mettemmo il tavolo davanti agli altri in modo da creare una barriera protettiva per tutti. Lo portammo anche davanti a Flavio, Antonio e Denise. Ma Luana era rimasta lontana da noi e se l’avesse colpita ancora sarebbe stato il colpo decisivo. Per fortuna Antonio e Flavio l’avevano portata ad un angolo della stanza dove Amaranthus, un po’ per la foga, un po’ per l’agitazione, un po’ per la penombra, non avrebbe potuto vederla.
«Dannazione!» pensavo tra me e me. Avevo digrignato i denti in un’espressione colma di rabbia e frustrazione e maledivo il momento in cui non avevo pensato che avesse impugnato un’arma. Mentre ragionavo sul da farsi avevo notato una cosa. L’enorme sensibilità di Denise. Si era attaccata al mio braccio e col suo lo avvolgeva in una sorta di presa fetale. Si era accorta che mi ero messo a guardarla mentre aveva gli occhi lucidi e mentre il suo coraggio aveva tolto la maschera e mostrato una fragilità.
«Va tutto bene … » le sussurrai vicino all’orecchio.
Non mi rispose, ma deglutì più volte, come per provare a rassicurarsi.
I proiettili arrivavano imperterriti sul tavolo di metallo e il loro scoppio emetteva rumori macabri e altisonanti.
«Non ti avvicinare!» urlò Flavio estraendo il suo revolver «sono armato anch’io! Ci sarà una strage!».
«Oh, ma a me non interessa fare una strage» rispose Amaranthus mentre continuava a sparare senza controllo «mi basta solo uccidervi tutti. Non potete restare nascosti per sempre. Il tavolo cederà o lo faranno le vostre forze e sarà allora che vi manderò all’altro mondo, maledetti!».
Dovevo inventarmi qualcosa o sarebbe stata la fine. E’ tragicamente vero quando ti dicono che non capisci l’importanza delle cose che hai finché non le perdi o finché non capisci che potrai perderle in un battito di ciglia. Pensavo a Andrea e a Bianca e alla loro fuga e rivedevo i volti segnati dall’orrore delle persone uccise. Pensai a mio padre quella sera e anche a mia madre. Pensai a quanto fossi stato imprudente nel cominciare con le deduzioni senza prima aver impugnato una pistola.
Luana giaceva a terra e fingeva di essere morta. Me l’accorsi dal fatto che batteva lentamente le ciglia. Il suo aiuto in quelle condizioni, comunque, non sarebbe stato importante ai fini della nostra salvezza. Aveva una spalla praticamente fuori uso e la lucidità mentale necessaria per essere cattivi e decisi allo stesso tempo era solo un miraggio. Ve lo dico perché capii tutto di lei dalla sua prima espressione una volta ricevuto il colpo.
«Che diamine facciamo?» domandò Antonio. Aveva estratto anche lui una pistola, una browning per la precisione.
«Non lo so … devo pensare».
«E se …» iniziai, ma mi placai.
«Cosa?» sussurrò Flavio.
«Avevo pensato ad una cosa …».
«E allora dilla, avanti!» disse Flavio mentre i colpi della pistola stavano liquefacendo il pesante tavolo di metallo. Non l’avrei mai fatto così resistente e per un attimo mi balenò l’idea che non fosse metallo, ma acciaio.
«Ok. Io e Claudio solleviamo il tavolo e andiamo contro Amaranthus. Denise, tu scappi e vai al riparo vicino a Luana mentre voi due» dissi indicando Flavio e Antonio «nel caso in cui quel bastardo cada a terra, cercate di approfittarne».
Flavio mi guardò fisso negli occhi, poi si scambiò un cenno d’intesa con Antonio e asciugandosi con la mano il sudore che gli imperlava la fronte mi disse:
«Hai fegato, ragazzino …».
Sorrise, poi caricò il revolver e la stessa cosa fece Antonio. Sembravano perfettamente sincronizzati e riuscivano a capirsi con un solo sguardo.
Guardai gli occhi nocciola di Claudio. Vedevo in essi la voglia di vivere, quella di riscattarsi, quella di assicurare giustizia. Notavo le vene che gli pulsavano sulle tempie, la voglia immane di voler cambiare la situazione. La sua spocchia iniziale era sparita e da generale maggiore era diventato soldato del popolo.
«Pronto?» gli domandai.
«Io sì … tu?».
«Nato pronto» gli dissi ammiccando ad un sorriso.
Si svolse tutto nel giro di pochi secondi. Con una forza che credevo non avessimo, io e Claudio sollevammo il pesante tavolo di metallo e ci scagliammo a tutta velocità contro Amaranthus. Non vidi mai la sua espressione, ma so che lo colpimmo in pieno e che cadde rovinosamente a terra emettendo un gemito di fatica. Credevamo fosse finita, ma la vita a volte è bastarda. Pur cadendo riuscì a mantenere la presa sulla sua pistola e così, quando io e Claudio ci affacciammo al di là del tavolo ormai riverso a terra, ci ritrovammo la canna dell’arma dritta in faccia pronta a far esplodere un colpo.
Dio esiste, probabilmente sì. Se non esistesse Denise non sarebbe mai arrivata in tempo per dare un calcio nelle palle a quel bastardo di Amaranthus. La ragazza spaurita che stava attaccata al mio braccio fino a cinque minuti prima, adesso sembrava una guerriera medioevale pronta a far male a chiunque avesse osato sfidarla. Era incredibile la sua forza di volontà ed era straordinario il suo coraggio.
«Porca … miseria!» esclamammo scandendo bene le parole io e Claudio.
«Quando ci vuole, ci vuole, giusto?» si limitò a dire lei mentre si godeva la scena di Flavio e Antonio che legavano il bastardo.
«Altroché» ribadii basito.

Quattro ore dopo arrivò la polizia. Le sirene di una volante pilotata dall’agente illuminava ancor di più l’alba e la rendeva talmente viva da far sembrare il più bello dei film premiati con l’Oscar, solo un cortometraggio indipendente. Il paesaggio di Vicchio si era letteralmente aperto in una giornata che a giudicare dal cielo sarebbe stata meravigliosa. Chiamammo anche l’ambulanza e quando il paramedico vide che la sua paziente era tanto bella quanto fascinosa rimase quasi compiaciuto dal doversi occupare di lei.
«Qualcuno mi spiega cos’è successo? Mi ha telefonato in fretta e in furia un bambino e poi ancora mi ha lanciato l’allarme un ragazzo sui vent’anni e …» provò a dire l’agente. Era fuori di sé, arrabbiatissimo.
«Glielo spiego in questura agente, la prego non …» tentò di giustificarsi Flavio, ma fu bloccato.

Qualche metro lontano Claudio fumava una sigaretta. Decisi così di andare a parlargli. In poche ore avevo visto tutte le sue sfaccettature e adesso mi sembrava fossimo amici da una vita.
«Allora?» gli domandai
«Allora cosa?».
«E’ finita …».
«Niente finisce per sempre» rispose lapidario.
«Ne sei sicuro?» gli domandai fissandolo intensamente.
«Certo» mi rispose prima di tirare un’altra boccata alla sua sigaretta. «Sappi che anche quando la tua guerra con il Fuoco Re apparentemente sarà finita, non sarà così».
«E tu come lo sai?».
«Lo so e basta, non fare troppe domande».
Ci fu una pausa di qualche secondo. Poi, dopo aver tirato un’altra boccata alla sua sigaretta, mi guardò intensamente e mi disse:
«Ti aiuterò».
«Eh?».
«Ti aiuterò come tu hai aiutato me».
«In che senso?».
«Uff …» sbuffò. Non amava molto parlare e andare a fondo delle cose. Per lui la superficialità era quasi un dono a volte. «Conosci la mia storia giusto? Non avevo mai avuto occasione di … di …».
«Sfogarti?» lo anticipai.
«Giusto. Sfogarmi. Voglio riscatto. E il modo migliore per ottenerlo è aiutare un amico» disse sorridendo in modo complice e dandomi una violenta pacca sulla spalla.
«E fai piano!» lo rimproverai.
«Hai bisogno di palestra. Quando vieni a Padova ti porto dal mio personal trainer. In cinque ore starai come nuovo e …».
«Non ho bisogno di palestra, io».
«Oh sì … e poi me lo devi visto che hai avuto la sfacciataggine di battermi nelle deduzioni di questo caso».
Feci per rispondere, poi mi zittii. Mi voltai e guardai Bianca accarezzare Andrea. Cambiai visuale e notai Flavio che si giustificava con l’agente bisbetico. Poi guardai il cielo e tanto freddo quanto commosso, rimasi a fissarlo.
  

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