BOMBA
A CASA
Sigla di oggi: "Livin' on a Prayer" by Bon Jovi
CAPITOLO
I – Pericolo a colazione
Casa Moggelli era insolitamente
tranquilla quella domenica mattina. Il canto degli uccellini impreziosiva una
dimora baciata dal sole e avvolta dal venticello di prima mattina.
Flavio era ancora a letto, mentre
io sedevo sul divano in compagnia di una buona tazza di caffè ristretto e
soprattutto dei miei consueti quotidiani sportivi, scandalistici, politici,
sociali. Insomma, divoravo di tutto.
Pensandoci bene, c’era qualcosa
che avvolgeva anche me quella mattina. La fame. La sera prima non avevo cenato.
Ero stato per tutta la sera davanti alla tv. Sapete com’è … c’era stata la
maratona dei gialli del sabato, quella dove fanno vedere Holmes, Poirot e Dupin
insieme. Lo so, probabilmente starete ridendo a crepapelle, ma che ci volete
fare se mi piace?
Mi alzai dal divano per preparami
uno spuntino. Mi sarei accontentato anche di un misero tramezzino, ma è proprio
vero che quando mancano le donne in casa, il cibo scarseggia. O almeno era
questa la nostra situazione. Bianca era andata per due giorni in gita con la
scuola. Dovevano visitare il Friuli Venezia Giulia e tutti quelle attrazioni
che avrebbero potuto portarli ad un percorso formativo diverso, maggiormente
vasto. No, non ho ingoiato un dizionario. Semplicemente ripeto le sue parole.
Insomma, in casa eravamo rimasti io, Flavio,Fabio e Andrea. Tre uomini, tre
geni. Poi c’era il bimbetto, ma volete che mio fratello a cinque anni vada al
supermarket ad informarsi sui buoni sconti invece di guardare i cartoni animati
trasmessi da canale dieci? Nessuno si era incaricato di fare la spesa. E adesso
che mangiavamo? Pane e indagini?
Flavio si alzò dal letto e
percorse la rampa di scale che permette di accedere all’area giorno. Aveva
ancora la maglietta grigia a maniche corte che usava come pigiama e che
lasciava trasparire i pochi peccati di gola che si era concesso. In gioventù
era stato un atleta a livello studentesco invidiabile. Nel suo studio
conservava trofei a livello regionale e un paio a livello nazionale. Corsa e
atletica erano i punti forti.
«Che si dice ragazzo?». Salutava
così. Come in uno di quei film sulla marina dove c’è il capo che esce tutto
bagnato dalla piscina ghiacciata come se nulla fosse e guarda il pivellino di
turno come se fosse uno scemo di prima categoria.
«Non c’è male».
Ad un tratto, il campanello
suonò.
«Ma chi può essere alle nove del
mattino? Chi rompe le scatole mentre prendo il mio caffè?» sbraitò Flavio.
«Sarà un piazzista» commentai.
Flavio aprì la porta, poi lo udì
storpiare alcune parole, nel tentativo di mettere insieme un senso compiuto.
Andai a vedere.
«I soliti scherzi dei ragazzini.
Sembra che ce l’abbiano con me e … ».
«Non credo che i ragazzini
c’entrano qualcosa, anche se sarebbe tutto più facile se tu smettessi di
tirargli i loro giochi ogni qualvolta finiscono nel recinto».
«Come fai a dire che non c’entrano
niente?» disse passandosi una mano tra i capelli ancora spettinati.
«Forse per il fatto che c’è un
pacco a terra?».
«Cavoli, è vero. Non ci avevo
fatto caso. Che idiota». Menomale che se lo dice da solo.
«Vediamo … » disse prendendolo in
mano. «E’ pesante però. Ma che c’è qui dentro?».
«Non so, apri» lo incitai
dubbioso.
«”Per il signor Flavio Moggelli,
da un suo ammiratore”» lesse a voce alta.
Poi chiuse la porta e cominciò ad ispezionare
il pacco, portandolo sul tavolo della cucina.
«Vediamo … non sarà il solito
regalino etnico, non è vero?».
«Di che ti lamenti? Guarda che
sono carini!» lo ammonii.
«Ah sì? Guarda che non c’è nulla
di carino in una peperonata spedita da Mondragone. E che dire di quel souvenir
mandato da quel maniaco degli anni ’80?».
«Ti riferisci al … ».
«Al parruccone, bravo. Se mai
avrò il coraggio di indossarlo un giorno, ti prego, fammi diventare santo».
Risi di gusto e mi strofinai gli
occhi per scrollarmi di dosso i residui di sonno che ancora mi impreziosivano
le palpebre.
Aprimmo il pacco, un imballaggio
marroncino, povero e piegato in vari punti. C’era un’infinità di carta giornale
e carta velina di diversi colori. Sembrava non finire mai. Poi vedemmo un
coperchio di plastica ad incastro. Uno di quelli per i telecomandi, ma almeno
dieci volte più grande.
Sussultammo. Il ticchettio delle
lancette lasciava presagire nulla di buono. La luce rossa, fioca e al contempo
incisiva, lasciava pochi dubbi. Il timer ad intermittenza era un incubo ricorrente che adesso si era
trasformato in realtà. Quando fai questo mestiere, queste cose le devi mettere
in conto per forza. Si chiamano rischi.
«E’ una bomba» dissi a voce
talmente bassa da non poter essere udito nemmeno da me stesso.
«Porca miseria! Una bomba!» urlò
Flavio.
Gli tappai la bocca con il panino
che mi ero preparato. «Vuoi stare zitto? Ti sentiranno anche in Giappone se
gridi così!».
Flavio si tolse velocemente il
panino imbottito dalla bocca, rovesciandolo a terra. Mi guardò male per un
momento, poi si passò una mano sulla faccia e con l’indice sinistro picchettò
sulla guancia.
«Cosa intendi fare?» gli chiesi a
voce bassa.
«Non lo so, ma deve sparire».
Il timer della bomba recitava un
conto alla rovescia a intermittenza. Sul display era scritto “59:31”, ciò
significa che mancava più o meno un’ora all’esplosione.
La porta, rimasta aperta, si
spalancò completamente e fece il suo ingresso Fabio, vestito di un giubbotto di
pelle in stile “Fonzie”.
«Che succede? Cosa sono quelle
facce scure?» esordì.
«Diciamo che c’è un piccolo problema»
disse Flavio cercando di rassicurarlo.
«Un piccolo problema? Scusa, ma
quella è una bomba o cosa?» gli dissi spuntandogli da sotto il braccio.
«Vuoi stare zitto?» mi rimproverò
quasi indignato.
«Una bomba?!» urlò Fabio.
«Cavoli, ma allora è un vizio di
famiglia? State zitti o allarmeremo tutti senza nessun motivo!» ammonii.
«Senza nessun motivo? C’è una
bomba in casa che esploderà tra meno di un’ora … il motivo c’è eccome!» mi
ricordò Flavio.
«Ok, ora basta tergiversare.
Bisogna mantenere la calma. Facciamo così» dissi mettendomi le scarpe da tennis
«vedi se nel pacco che ti hanno mandato c’è qualcos’altro che ci faccia
risalire all’identità del bombarolo».
«Controllo, ma tanto … ehi, qui
c’è un biglietto sul fondo della scatola!» disse Flavio estraendo un piccolo
ritaglio di giornale. Era sporco e pieno di polvere. Aveva la scritta in
giallo, fatta presumibilmente con un evidenziatore.
«Qui c’è scritto …» continuò
Flavio esponendo il foglio alla luce del sole di non avvisare la polizia altrimenti
il centro commerciale “Poe” sarà distrutto da un’altra bomba». Flavio gettò
rabbiosamente il foglietto a terra.
«Direi che è inutile avvertire la
polizia. La squadra artificieri desterebbe sospetto e quel pazzo non esiterebbe
un attimo a far saltare in aria anche il “Poe”».
«Già». Fabio era rimasto
impietrito a pochi metri da noi. Era impressionante. Un statua di cera sarebbe
stata più d’aiuto.
«Facciamo così» dissi
allacciandomi le scarpe «Flavio, prendi l’auto e porta quella bomba in un posto
isolato. In un’ora dovresti riuscire a raggiungere il Rio Torto fuori città.
Non c’è mai nessuno lì’, e il mese scorso il comune lo ha reso temporaneamente
impraticabile in quanto l’acqua è sempre colma di fanghiglia, quindi non
dovresti trovare nessuno. Io e Fabio andremo al centro commerciale e cercheremo
eventuali sospetti. Quello è capace di far saltare tutto in aria comunque!»
dissi allarmato.
«Ok, buona idea» disse Fabio,
scongelandosi finalmente dal suo parziale stato di incoscienza.
CAPITOLO
II – AAA Cercasi salvezza
Flavio Moggelli viaggiava ad una
velocità fuori dal comune sulle vie della provincia di Torino. Quella domenica
mattina, non aveva certo pensato di passarla così. Si vedeva già sul divano a
leggere un buon libro, magari un thriller, di quelli che piacevano a lui. Si
vedeva già pronto per il pranzo della domenica. La mattina precedente aveva
salutato sua figlia Bianca solo con un freddo bacio sulla guancia. No, essere
calorosi non faceva parte del suo carattere, lui pensava che i gesti d’affetto sarebbero
dovuti essere limitati. Pensava che un bacio in più o in meno non avrebbe mai
fatto la differenza. Ma adesso, col sudore che gli imperlava la fronte, con i
capelli scompigliati e con gli occhi quasi fuori dalle orbite, adesso, con le
mani tremanti sul volante dell’ auto, adesso che correva come un disperato per
salvarsi la vita, avrebbe dato anche il suo cuore per riabbracciare i suoi
figli. Non sapeva se in un’ora fosse riuscito a raggiungere il Rio Torto. E se
fosse rimasto imbottigliato nel traffico? Se fosse rimasto come un imbecille
con la bomba in mano? Se quella bomba avesse messo fine alla sua esistenza? Se
non avesse rivisto mai più sua figlia? Se per caso Bianca e Fabio avessero
perso anche lui? Cosa sarebbe successo? Avrebbero dovuto affidarla ai suoi
parenti del sud. No, non poteva permetterlo. Quando Giulia era morta, da quando
sua moglie, la sua amata moglie aveva lanciato in aria l’ultimo respiro,aveva
combattuto con le unghie e con i denti per ottenere l’affidamento, e non
intendeva certo lasciare i suoi figli in pasto al mondo,cattivo e sudicio, così
presto. No. Ripensava alle parole di Alex, ripensava al viso di Bianca, alla
paura di Fabio, alla scena del cimitero di Cuneo. Non poteva permetterlo. Il
suo viso aveva assunto una posizione di sfida verso quel bombarolo immaginario
che lo perseguitava. Correva all’impazzata, col sudore sulle tempie e con le
mani tremanti. Una bomba sul sedile del passeggero, pronta ad esplodere tra
soli quaranta minuti.
Il centro commerciale, nonostante
l’ora, era già pieno. Le persone andavano avanti e indietro per il tragitto dei negozi. Quelli più presi
di mira sono sempre quelli scarpe e di abbigliamento. Vedere le commesse
esaurite al momento di soddisfare la solita donna d’affari un po’ altezzosa,
non ha prezzo.
«Dividiamoci» dissi rivolgendomi
a Fabio con durezza. «Prendendo due tragitti diversi abbiamo più possibilità di
trovare il nostro uomo. Se dovessi notare qualcosa di sospetto, mandami un sms.
Farò la stessa cosa. Ci ritroviamo qui tra dieci minuti, mi raccomando,
puntuale! Non abbiamo tempo da perdere!» aggiunsi cominciando a correre come un
forsennato in direzione ovest. Fabio andò ad est.
Che sventura. Una bomba distrugge
tutto, è come un fenomeno naturale, con la differenza che la bomba è creata e programmata dall’uomo. Già,
l’uomo. Pensandoci su, siamo anche noi sventure viventi. Viviamo tutta
l’esistenza alle spalle di un qualcuno o di un qualcosa e alla fine emergiamo
nel modo sbagliato. Il pazzo che aveva attentato e che stava attentando alla
vita di Flavio, era solo un uomo senza cuore, incapace di capire che per i suoi
porci comodi stava per mettere fine alla vita di un uomo con dei figli.
Ad un tratto mi fermai. Avevo
notato un tipo sospetto. Correndo come un matto, ero passato accanto ad un uomo
con delle cuffiette nelle orecchie. Nulla di strano no? L’avevo urtato, ma la
cosa strana era che non si era minimamente infastidito. Inoltre, nonostante la
mia vicinanza, non udii nessun rumore provenire dalle sue cuffie. Perché un
uomo avrebbe dovuto ascoltare la musica così bassa in un luogo caotico e
affollato? No, qualcosa non quadrava … e chi mi dava la certezza che stesse
davvero ascoltando la musica? Prima regola, sospettare di tutto e di tutti,
anche per motivi apparentemente innocui.
Ritornato sul posto concordato
con Fabio, vidi il ragazzo venirmi incontro.
«Alex» disse col fiatone «ho
notato un tipo sospetto».
«Chi è?».
«E’ quello lì» disse cercando di
indicarlo con il braccio. Ma lo stoppai subito.
«Che diamine fai?! Non indicarlo,
sennò si accorge che lo stiamo seguendo!».
«Oh scusa!».
«Descrivimelo bene nei
particolari. Non farti accorgere che stai guardando».
«Scusa, ma se devo descriverlo
bene, dovrò pur guardarlo, no?».
«Giusto, ma cerca di usare un
minimo di tatto, cerca di essere discreto insomma!» lo rimproverai. Ero in
balìa del tempo. Lo eravamo tutti, e ciò ci rendeva nervosi, molto nervosi.
«Guarda … » cominciò a parlare
Fabio. «Hai presente quel ragazzo sulla trentina, con il pizzetto? Porta una
giacca di jeans con dietro disegnata una stella di colore bianco».
«Capisco» dissi rivolgendo lo
sguardo verso l’uomo indicatomi da Fabio. «Che cos’ha di sospetto?».
«Il fatto che non stacca la vista
dal cellulare da almeno dieci minuti. Forse ha un complice e si sta
accordando».
«Potrebbe essere, ma non mi
convince. Piuttosto, da un’occhiata a quell’uomo sulla cinquantina con i capelli
grigi e senza barba. Guarda meglio, indossa una polo di colore nero».
«Intendi quello con le
cuffiette?».
«Esattamente. Prima ci sono
passato vicino urtandolo, ma dalle cuffie non si udiva nulla. E’ sospetto no?».
«Magari è uno che voleva isolarsi
dall’ambiente e per questo ha messo le cuffie nelle orecchie».
«Ragiona. Se uno vuole isolarsi
dall’ambiente esterno, non viene in un luogo così caotico. Il centro
commerciale “Poe” è per antonomasia uno dei posti più caotici della … ». Non
riuscì a terminare la frase, visto che fui bloccato da Fabio
«Guarda, il tuo uomo sta andando
in bagno».
«Seguiamolo senza farci notare».
L’uomo con le cuffiette procedeva
a passo svelto verso il bagno. Aveva alzato due o tre volte lo sguardo e ci
aveva freddati con il suo sguardo di ghiaccio. Può sembrare un’esagerazione, ma
è così. Il male negli occhi ce l’ha solo chi fa del male, e quel figuro non era
più un semplice sospetto.
Arrivammo alla soglia della
toilette, un locale abbastanza ampio, con delle piastrelle di colore grigio che
si dipingevano lungo la pavimentazione di quella parte dell’edificio. Il bagno
di quel piano del “Poe”, era abbastanza isolato. C’erano tre, quattro corridoi
strettissimi prima di poterci arrivare e una volta dentro la quiete la faceva
da padrone. Il nostro uomo si voltò di scatto impugnando una Beretta. Una mossa
che lasciò sia me che Fabio spiazzati. L’uomo si era accorto che lo stavamo
seguendo ed ora ci puntava la pistola a pochi metri. Noi eravamo disarmati, in
un locale quasi isolato.
«Allora avevo ragione, mi stavate
seguendo, brutti idioti!» gridò inutilmente. Credetemi, anche se avesse gridato
con un megafono, avendo un amplificatore da concerto rock, non sarebbe stato
sentito da nessuno. Il centro era una bolgia essendo periodo di saldi e in più
il bagno era lontanissimo dalla folla.
Distolsi lo sguardo per un
attimo. Volevo farmi spazio per correre alla velocità della luce verso di lui e
travolgerlo, ma non fui bravo a nascondere l’emozione dagli occhi.
«Non fare nulla, o sparo e non
guardo più in faccia a nessuno».
«Calmo» gli dissi alzando le
mani. Fabio era già appiattito contro il muro, in attesa di una grazia divina.
«Sei tu non è vero?» gli dissi
mantenendo la mia dignità «sei tu quello che hai fatto il pacco con la bomba
eh?».
«Sono stato io sì … e ne sono
fiero!» disse urlando ancora più forte.
«Non ne andrei molto fiero se
fossi in te. Ti rendi conto che stai attentando alla vita di un padre di
famiglia? Lo vedi quel ragazzo che è con me» dissi indicando Fabio «quello che
se la sta facendo addosso?».
Fabio uscì dallo stato di paura
con un «Ehi!» di puro orgoglio.
«Be’ quello è » continuai con le
mani alzate al cielo «uno dei due figli del signor Moggelli».
«Non me ne frega nulla,
imbecille!» disse gridando. «Lui ha ucciso mio fratello e io adesso mi
vendicherò, in un modo o nell’altro!».
«Ma di cosa stai parlando?».
«Quando il detective Moggelli era
ancora un agente di polizia, in un conflitto a fuoco, doveva beccarsi un
proiettile da uno dei complici di mio fratello. Ma si spostò come un vigliacco
e il proiettile finì dritto in testa a mio fratello. Ora dovete pagare! Ora
deve pagare per tutto il male che ha procurato alla mia famiglia!».
«Tu stai delirando! Il matto era
tuo fratello!».
«Come ti permetti brutto stupido?
Mio fratello era un uomo eccezionale, uno straordinario studente e … ».
«E un criminale» disse a voce
alta Fabio. Aveva lasciato il muro e si avvicinava sempre di più alla Beretta.
«Un volgare criminale. Se tuo fratello non avesse fatto reato, a quest’ora
stareste ancora insieme. Mio padre ha solo schivato quel proiettile. Come
poteva sapere che avrebbe ucciso tuo fratello?»
L’uomo aveva gli occhi iniettati
di sangue, lo sguardo dell’odio, di chi vorrebbe picchiare più forte che si può.
«Lo sapeva eccome! I poliziotti
sono dei gran bastardi! E io ho imparato ad esserlo quanto loro … dì pure addio
ai sogni di gloria. Il tuo paparino sarà già esploso, o sta per farlo. Tra poco
lo andrai a trovare. Arrivederci idiota!» e così facendo alzò la canna della
pistola, quando ad un tratto, un trillo di un telefono risuonò nella stanza
distogliendo l’attenzione dalle azioni principali. Era il mio cellulare. Era
Flavio.
«Chi è? Guai a te se rispondi!»
disse l’uomo con la pistola».
«Non rispondo» dissi a sguardo
basso. «E’ il detective Moggelli, questa suoneria è abbinata a lui» aggiunsi a
voce alta
«Proprio lui … evidentemente la
bomba non è ancora scoppiata. Immagino che non saprà cosa farne» affermò
scoppiando in una risata diabolica.
«Immagini male. L’ha portata al
fiume, quello con la fanghiglia. Purtroppo per te, Flavio è ancora vivo!».
Intanto, il cellulare scattò in
segreteria. Flavio cominciò a parlare con una voce metallica, dovuta ovviamente
alle apparecchiature. «Alex, sono ancora al fiume, ma non riesco a liberarmi
della bomba. Non so se ci riuscirò, c’è troppa gente … prenditi cura di Bianca
e dì a Fabio di fare l’uomo di casa» poi riagganciò. Era dunque questa la fine?
CAPITOLO
III – Il ritorno di Flavio
«Papà!»gridò Fabio sperando di farsi
sentire.
Il criminale impugnò ancora più
forte la Beretta, poi caricò e mentre stava per azionare il grilletto … ecco
Flavio spuntare da una minuscola finestrella del bagno e cascare addosso all’uomo
con la pistola. Immediatamente andai verso il criminale e gli sottrassi l’arma.
Poco dopo arrivò la polizia. L’uomo venne riconosciuto come Adamo Gisfredi,
ricercato per rapina a mano armata. Poco dopo, eravamo di nuovo in macchina,
più tranquilli, ma sempre al contempo agitati per ciò che avevamo passato.
«Allora, ti sei poi disfatto di
quella bomba?» chiese Fabio a suo padre.
«Certo, l’ho buttata nel fiume
quando mancavano poco più di quindici minuti. Poi mi sono allontanato in
macchina per almeno trecento metri. Per fortuna non c’era nessuno quando è
esplosa, non ha fatto danni».
«Già» commentai a voce bassa. «Ce
l’aveva con te per … ».
«Il caso Gisfredi. La verità è
che il compare del fratello, aveva intenzione di tradirlo già dal primo
momento. Sparò verso di me, io schivai e il colpo prese in pieno il criminale.
Ma quando riacciuffammo l’assassino, confessò di avere già dei piani per far
fuori il suo socio».
«Che mondo sporco» dissi a voce
alta.
«Puoi dirlo forte ragazzino, puoi
dirlo forte». «A proposito» disse rivolgendosi a me« prima hai urlato … quando
hai annunciato che ero io a telefono … l’hai fatto apposta vero?».
«Naturale. Ti avevo visto dal
riflesso sulla finestrella. Sapevo che saresti intervenuto».
«Furbo il ragazzo» disse
rivolgendosi a suo figlio.
«Furbo anche tu! Mi hai fatto
prendere uno spavento enorme quando hai finto che non ce l’avresti fatta! Per
un attimo ho temuto di aver sbagliato».
«Sì, in effetti prenderanno in
considerazione una mia candidatura all’Oscar».
Per favore …
ANTICIPAZIONE EPISODIO 26: Ci risiamo, il passato ritorna, ma stavolta tocca ad Alex e non a Flavio, affrontarlo. L'arrivo della madre del ragazzo porterà squilibri, novità e ... inquietanti rivelazioni! ALEX FEDELE EPISODIO 26! LA VERITA' SUL PASSATO(1°Parte) Solo qui a partire dall'11 Febbraio 2012! NON PERDETELO PER NESSUNA RAGIONE!
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