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sabato 29 ottobre 2011

Alex Fedele: L'anniversario(stagione 1;episodio 11) 1°parte


L’ANNIVERSARIO(1°Parte)







PROLOGO:Flavio sparisce nel nulla. Già, nel nulla. Prende la macchina e lascia tutti a piedi. E' l'inizio di un'avventura ai limiti dei rancori che travolgerà tutti i protagonisti della nostra storia. Alex, la morale, Flavio, la forza d'impulso, Bianca e Fabio, la disperazione, la parte lesa. 


CAPITOLO I – Sparito

Mi da fastidio quando non dormo la notte. Mi da fastidio come darebbe fastidio a qualsiasi normale essere umano. Se poi aggiungiamo che quella notte è quella che coincide con sabato e domenica, allora ti sei fottuto da solo. Verissimo, la domenica era di solito giorno di riposo assoluto in casa Moggelli e anche se avessi voluto dormire quel pomeriggio non avrei avuto problemi. Peccato che dormire il pomeriggio mi rendesse nervoso e poco incline al dialogo. Lo so, sono difficile. Pensavo ancora a quanto era successo poche ore prima. Lo scontro con Flavio, le lacrime di Bianca, i dissapori forzati.
Quella mattina mi alzai lentamente dal letto e dopo essere andato in bagno, andai in camera di Bianca e in quella di mio fratello per svegliarli. A lei feci il solletico. Le dava fastidio e questo mi divertiva, ma mi aveva detto lei la sera prima di chiamarla non appena fossero state le otto del mattino. Mio fratello dormiva come un ghiro e decidemmo di lasciarlo così ancora un po’.
Scesi in cucina e vidi che c’era già Fabio con una tazza di caffè fumante in mano.
«Ehi buongiorno. Come va?» mi disse allegro.
«Non benissimo. Stanotte sono andato in bianco».
«Niente donne eh?» disse alzandosi e facendomi spallucce. Sempre il solito scemo.
«In bianco nel senso che non ho dormito. Io non penso sempre a quello».
«Ah nemmeno io».
«Come no. Senti, Bianca si sta alzando. Ho lasciato Andrea a dormire ancora un po’ … tu che fai?».
«Io esco con Martina e torno prima di pranzo».
«Ok … vedo che hai fatto colpo».
«Si è decisa a darmi una chance» disse mettendo le braccia conserte.
«Sai Fabio, ti conosco da poco, ma ho seri dubbi sulla tua forza di volontà. Riuscirai a stare solo ed esclusivamente con Martina? Guarda che se fai il pavone come tuo solito ti molla in mezzo secondo».
«Lo so, lo so. Mi ha detto le stesse cose lei».
«E’ intelligente».
«Cosa credi?».
«Nulla, ci mancherebbe. Senti, ma Flavio che fine ha fatto?».
«Papà? Non so. Ma l’ho visto uscire stamattina prestissimo».
«Cosa?».
«Sì … potevano essere le quattro. Me ne sono accorto perché ero sceso a prendere un bicchier d’acqua e ho sentito un rumore. Sono rimasto in salone ed ho visto papà che prendeva le chiavi della macchina».
«E’ assurdo» dissi mettendomi la mano sotto al mento.
«Che cos’è che è assurdo?» domandò Bianca. Mi era comparsa alle spalle all’improvviso facendomi quasi impallidire.
«Fabio ha detto di aver visto tuo padre prendere la macchina stamattina alle quattro».
«Sei sicuro?» domandò al fratello.
«Se non ci credete guardate pure fuori. La sua macchina non c’è» affermò sorseggiando l’ultimo goccio di caffè.
«Dove può essere andato?» domandò enigmatica Bianca.
«Non lo so sorellina. Ragazzi, io vado da Martina, ritorno per pranzo».
«Aspetta un attimo farfallone» esclamò Bianca tirando per il braccio Fabio. «Nostro padre è scomparso e tu pensi alla tua Martina? Vergogna!».
«Cosa dovrei fare scusa?».
«Provare a fare qualcosa per esempio? Indagare?».
«Indagare? Non è roba per me … c’è Alex apposta per questo!» e indicò me.
«C’è Alex, vero. Ma Alex non è suo figlio, quindi adesso o ti sbrighi ad aiutarci a trovare papà o racconto a tutti la figuraccia che hai fatto quando avevi quindici anni» disse facendo un risolino.
«No, avevi promessi di stare zitta!» protestò il ragazzo.
«Vero, ma mi costringi a parlare. Allora? Che fai fratellino?» disse ironicamente.
«Secondo te? Chiamo Martina e le dico di non aspettarmi, beccandomi una predica su come io non abbia responsabilità».
«Bravo fratellino» disse Bianca con una pacca sulla spalla di suo fratello.
Fabio si allontanò per fare la telefonata, Bianca andò a chiamare Andrea di sopra per spiegargli la situazione e in una decina di minuti erano di nuovo tutti in cucina accanto a me. Non mi accorsi nemmeno che stavano parlando tra di loro.
«Detective, allora come agiamo adesso?» disse sorridendomi Bianca.
«Cosa vuoi dire?».
«Sei tu il detective amico, dirigi tu le operazioni» ci interruppe Fabio sgranocchiando dei crackers.
«Siete sicuri?».
«Strasicuri».
«Ok. La prima cosa da fare è controllare se c’è qualche mezzo di comunicazione con il quale possiamo rintracciarlo. L’errore delle persone è pensare subito a male. Forse è uscito per fare una commissione di prima mattina».
«Alle quattro?» disse sarcastica Bianca.
«Già» sorrisi imbarazzato.
«Comunque nostro padre non ha altri mezzi per rintracciarlo, escluso il cellulare» affermò Fabio.
«Già, il cellulare».
«Sì, provo a chiamarlo». Fabio digitò i numeri velocemente sulla tastiera. Andrea intanto mi si avvicinò chiedendomi cos’era successo. Gli risposi che stavamo cercando di rintracciare Flavio, poiché non si vedeva da questa mattina presto.
«Sai fratellone» mi disse candidamente «stamattina puzzava di fiori qui dentro!».
«Cosa? Puoi spiegarti meglio?».
«Sì. In camera mia veniva una fastidiosissima puzza di fiori. Hai presente quell’aroma di medicine che mettono sui fiori?».
«Sì».
«Quello lì».
«Dei fiori» dissi sussurrando a Bianca. Poi mi rivolsi di nuovo a mio fratello. «Sapresti riconoscere di quale fiore si trattasse?».
«No. Ho solo sentito puzza di medicina, come quando a Fondi andavamo con la mamma a comprare i fiori, ti ricordi?».
«E sei proprio sicuro si trattasse di fiori?» chiese Bianca.
«Sì, sì». Mio fratello, l’osservatore.
Mi chiesi cosa c’entrassero i fiori con Flavio, quando Fabio ci comunicò che il cellulare risultava staccato.
«Senti un po’ Bianca» dissi tirandola a me.«Tu sai che cosa avrebbe potuto festeggiare tuo padre?».
«In che senso scusa?».
«Se ha preso dei fiori, non è certo per rallegrare la casa. Forse voleva festeggiare qualcosa. Sai per caso se oggi è una ricorrenza particolare?».
«Uhm … fammi pensare …» disse volgendo lo sguardo all’alto. «No, non mi pare che ci sia nessuna ricorrenza speciale».
«E’ molto strano … per favore, cerca di ricordare meglio» dissi cercando da parte sua uno sforzo mentale superiore.
«No, mi spiace. Mi pare non ci sia nulla» ultimò lei.
«E’ spento ragazzi» disse Fabio mostrando il telefonino.
«Possibile che non ci siano altri modi di contattarlo?».
«Ho anche provato al cercapersone, ma non risponde affatto».
«E’ strano» disse Bianca volgendo lo sguardo in basso.«Di solito papà tiene sempre telefonino acceso e cercapersone in tasca. Deve essergli successo qualcosa!» disse allarmata.
«Non trarre conclusioni affrettate» le dissi con dolcezza. «E’ di sicuro una coincidenza».
Era però una circostanza strana, molto strana. Un detective come Flavio, una persona abituata a lavorare ventiquattro ore su ventiquattro; Un uomo che aveva prestato quindici anni in polizia al servizio della giustizia e quindi abituato alle chiamate d’urgenze e all’essere reperibile, teneva il cellulare spento, era uscito senza dire nulla e senza far sapere nulla, senza lasciare nessun indizio. Era decisamente sospetto. Di più, era quasi paradossale.
«Forse» cominciai la frase con distacco «è solo andato nelle vicinanze».
«E i fiori? Quelli come te li spieghi?» Fabio e la sua lingua, accidenti.
«Un mistero alla volta» allargai le braccia. «I fiori adesso occupano solo il dieci per cento del caso. Il novanta invece vede vostro padre sparito, con la macchina e con documenti, con il cellulare spento ed il cercapersone a cui non risponde nemmeno un’anima».



CAPITOLO II - Delirio

Ci vestimmo tutti in fretta in furia e ci dirigemmo verso il bar preferito di Flavio. Si trovava vicino all’agenzia investigativa, a circa un paio di isolati. Quel bar, mi aveva raccontato Flavio, era lì da una vita. Stava a Torino ereditato di famiglia in famiglia, di padre in figlio. Si chiamava “Gold” e stava a Torino, senza esagerazione da più di novant’anni. Era ormai diventato un punto di riferimento per la gente della città. Era uno dei bar più apprezzati e a Torino ce n’erano tantissimi. In quel bar, Flavio aveva bevuto per la prima volta con gli amici, conquistato le prime fiamme, forse anche la sua defunta moglie,aveva versato le lacrime amare per diventare poliziotto, aveva passato moment belli, brutti, deprimenti. Ma il bar, c’era sempre stato, ed era proprio per quel motivo che avevamo deciso di cercarlo lì.
Il bar “Gold”, era antico solo di nome, non certo per l’aspetto che era pervenuto. I moderni banconi di legno massiccio adornavano un pavimento color oro spento nel quale potevi specchiarti, i muri di marmo erano impreziositi da gradevoli quadretti che facevano la loro indubbia figura. Le sedie color avorio ed i divanetti bianco sporco facevano da cornice in uno scenario allo stesso tempo elegante e nettamente familiare. Era bello, era famoso ed era caldo. No, non era un divo di Hollywood, circondato da migliaia di ragazzine vogliose. Era semplicemente il bar “Gold”, ed era, come al solito pieno di gente che addentava paste alla crema e che si tuffava in cappuccini da Oscar.
Fabio e Andrea si sedettero su un divanetto ed ordinarono due aranciate. Io e Bianca ci dirigemmo verso il padrone del locale. Avevo conosciuto Luigi da poco,ma sapevo più cose di lui che dei miei fratelli messi insieme in diciotto anni di vita. Nel nostro primo quarto d’ora di conversazione mi aveva raccontato di tutto, ma veramente di tutto. Avevo saputo che aveva due bambine, per lo più gemelle, di soli quattro anni, avevo saputo che era sposato con la figlia di un contadino da circa vent’anni, avevo saputo che gestiva il bar dallo stesso tempo perché lo aveva ereditato dal padre che a sua volta lo aveva ereditato dal padre che a sua volta … e piantiamola suvvia.
Insomma, di certo, gli si poteva smuovere ogni genere di critica, ma non che non fosse loquace. Appena mi vide mi fece un sorriso a trentadue denti. Lo stesso riservò a Fabio.
«Come va Luigi?» gli dissi appoggiano le mani sul bancone.
«Tutto a posto, non c’è male. Senti, lo vuoi un cappuccino? Una pasta al cioccolato? E tu Fabio?».
Entrambi accennammo ad un convincente “no”, ma lui continuò, beccandosi ben tre negazioni di fila. Alla fine lo bloccai e gli dissi:
«Ascolta, hai visto Flavio stamattina?»
«Flavio? No, stamattina niente. Non s’è venuto a prendere nemmeno un piccolo caffè» pronunciò “caffè” come se avesse denominato il suo cane, con un affetto tale da suscitare l’incredibile.
«E’ un mistero» sussurrò Bianca. «Fabio lo ha visto uscire di casa prestissimo stamattina e pensavamo fosse venuto da te».
«Ragazzi, qui non è venuto nessuno, quant’è vero che mi chiamo Luigi Bardelli».
«Ok, stai tranquillo. Evidentemente non è venuto qui» dissi rivolgendomi a Bianca. «Che tu sappia, ci sono altri posti dove Flavio avrebbe potuto recarsi di mattina presto? Che so? Un caso di cui non mi ha parlato per esempio».
«Ho un’idea. Perché non andiamo a casa a controllare la sua agenda?».
«E tu credi l’abbia lasciata lì?».
«Perché no? Una volta si è scordato perfino le sigarette a casa … e ciò è grave considerando il fatto che le sigarette per papà sono come l’acqua per i pesci».
«Capisco. Senti, se lo vedi passare, digli che lo stiamo cercando da più di un’ora» dissi rivolgendomi a Luigi.
«Non ti preoccupare. Dopo quello che la scorsa settimana hai fatto per me, questo ed altro!».
Sorrisi.
Luigi era tendente a ingigantire tutto ciò che poteva accentuare. Incredibile. La settimana prima ero entrato nel bar e non riusciva a trovare dei soldi. Insomma, in poche parole sospettava un furto e si stava disperando. Mancavano solo dodici euro, vero, ma per Luigi i soldi sono la seconda cosa più importante dopo i pettegolezzi, così, in assenza di Flavio,che era occupato con un altro caso nel quale non mi aveva reso partecipe, aveva chiesto a me di occuparmene. Vi dico solo che ci ho messo tre minuti. Nemmeno un babbuino ci metterebbe molto a scoprire che uno come lui, abituato a tener cura maniacale dei soldi, avesse un doppiofondo nella cassa dove riponeva gli incassi. Essendo anche molto distratto, se n’era completamente dimenticato, finendo per non aprirla. Insomma, un vero genio, non è vero?
Decidemmo di andare a sederci. Ordinammo per quattro e chiacchierammo della vicenda.
«Non posso credere che papà se ne sia andato senza dire una parola. Quando lo rivedrò gli farò una ramanzina così lunga da farlo diventare piccolo piccolo» disse Bianca.
«Non essere così duro con tuo padre» le dissi sorseggiando la mia aranciata.
«Che fai? Gli dai anche ragione?» chiese irritata.
Mai contraddire una donna, imparate.
«No, non gli do ragione, ma Flavio è di solito una persona molto seria e disciplinata … non posso credere che se ne sia andato senza dire nulla a nessuno.Insomma, voglio dire, se si è alzato alle tre ed ha preso la macchina con un mazzo di fiori in mano alle quattro del mattino ci sarà pure un motivo valido».
Mi guardò storto. E Andrea, mio fratello, pure. Fabio si limitò a sorseggiare e a ridacchiare. Simpaticone.
«Ok, lasciamo stare». In realtà non finii quella frase, perché le porte di vetro poste alla nostra sinistra si spalancarono improvvisamente lasciando la scena ad un tizio sui cinquant’anni, calvo, con profondi e sofferti occhi grigi che gridavano vendetta verso chi sa di aver fatto male. Il corpo era protratto verso una strana posizione ed impugnava una pistola Browning, una di quelle che si vendono clandestinamente vicino ai porti o nelle baracche abbandonate dove vengono seviziate le povere vittime della mafia. Teneva nella mano destra l’arma e con la sinistra accarezzava la canna. Gli occhi avevano perso quel che di bello avevano mantenuto. Non conoscevo quell’uomo,ma i suoi occhi rivelavano tutto di lui. Era assurdo.
«State fermi o faccio una strage!» urlò ripetutamente sbraitando e dimenandosi con quell’arma in mano. Inutile dire che la sala fu avvolta da fasci di urla incontrastate, falsi gemiti di eroismo e molta, molta tensione. Bianca se ne stava con lo sguardo sbarrato a guardare la canna della pistola dalla quale poteva partire un colpo mortale. Andrea si era avvicinato al petto di Fabio, ma quest’ultimo aveva la fronte imperlata di sudore e ben poco di istinto protettivo.
Un donna sui trent’anni si mosse per raggiungere suo figlio ancora in fasce dentro la carrozzina, ma l’uomo con la Browning non ammetteva scuse. Voleva l’attenzione e la voleva di tutti.
«Sta ferma ragazza, sta ferma! Sta ferma se non vuoi che faccia saltare in aria il tuo bambino!» parole crude, dipinte dall’odio.
Poi prese fiato, guardò Luigi paralizzato dalla paura che prendeva la cassa.
«Non voglio i soldi, razza di pezzente» disse rivolgendosi all’uomo. Luigi si pietrificò.
«L’unica cosa che voglio» disse arieggiando l’arma in aria «è la vostra attenzione. La stessa attenzione che chiedete quando fate qualcosa di importante». Si avvicinò ad un uomo che sorseggiava un caffè corretto e gli puntò la pistola alla tempia.
«Dimmi perché sto facendo questo ragazzo».
«Ma .. »
Lo guardò male, poi gli urlò in faccia testuali parole: «Dimmelo, altrimenti ti faccio saltare in aria il cervello, rifiuto umano!».
«Perché fai questo?» disse la povera vittima piagnucolando.
La Browning si tolse dalla tempia del ragazzo e l’uomo spiegò che lo faceva solo perché gli andava.
«Già è proprio così» ribadì. «Sono entrato in questo fottuto bar perché mi va di spaventare la gente con questa pistola. No, non scherzo» disse ridendo a metà tra un protagonista di film horror e un regista in fallimento perché non si è potuto concedere al grande palcoscenico.
«E’ che la vita è strana sapete?» disse camminando e posizionandosi vicino a Luigi.
«La vita è molto, molto strana. Non ti da mai una seconda occasione, non te la da mai. O almeno a me non l’ha mai data. Sapete che mi è successo? Ve lo racconto, poi uccido qualcuno e poi mi tolgo la vita io, così la vita non offrirà opportunità a nessuno, contenti?». Pronunciò queste frasi con uno stupido sorriso sul volto.
Le donne avevano paura, Bianca aveva cominciato a gemere di paura e di rabbia. Il ragazzo del caffè corretto tremava come una foglia.
«L’altro giorno … mia moglie Elena e mia figlia Vanessa, sono andate a fare la spesa. Tutto bello no? Volevano comprare gli ingredienti per il tiramisù, a chi non piace il tiramisù? A chi non piace?!» disse urlando in faccia a Luigi.
«Sulla via del ritorno, in quella strada che non è mai stata asfaltata dal comune, che sta aperta ai lati per via della natura che ci circonda» continuò in tono psichedelico arieggiando l’arma «un furgone di consegne, uno di quelli alti come una fottuta montagna … va addosso alle persone più importanti della mia vita e le scaraventa in quel fossato. Volete sapere dove sono ora?»
Nessuno rispose.
«Ve lo dico io. Sono in una stupida bara di legno! Sono morte per colpa di un idiota che aveva fretta. E la polizia non l’ha nemmeno arrestato! Vi rendete conto? La legge fa schifo!».
Si diresse poi verso un tavolo più esterno al bancone di Luigi e rovesciò a terra un tè freddo.
«Hai voglia di picchiarmi vero amico?» disse in tono sbruffone al ragazzo che era seduto. «Ma non puoi farlo. E sai perché? Perché basta un “clic” e ti faccio fuori. Capisci? Capite? La potenza è nelle mie mani adesso! Posso essere tutto ciò che voglio con una pistola in mano, posso essere colui che decide le sorti della  vita e della morte, posso essere quello che può risparmiarvi tutti e quello che invece può mettere fine alle vostre patetiche vite da molluschi».
Confesso che sudavo freddo anch’io. I suoi occhi sprizzavano odio da tutti i pori. Il dramma familiare che aveva purtroppo vissuto, lo aveva scosso profondamente. Quell’uomo era normale fino a poco tempo prima, ma adesso non lo era più. Sono sempre stato un tipo che ha creduto nella Giustizia con la “G” maiuscola. Ovvero, niente corruzioni, niente conflitto di interessi, niente scandali falsati per far fuori i più forti. La Giustizia esisteva ancora? Non lo so, e non lo sapevo nemmeno allora. Ma non ero a Torino in villeggiatura, ero a Torino per offrire la mia competenza giovanile al servizio della Giustizia. Dovevo fare il detective, e al PSD, ci avevano detto che per un detective vivere era importante, ma era molto meglio morire da eroe.
«Sai cosa non sarai mai con quell’arma in mano ?» dissi non riuscendo a tenere a freno la lingua. Bianca mi guardò con aria inviperita, Fabio era tremendamente nervoso, Andrea sollevò il capo per un momento.
Avevo gli sguardi su di me. L’uomo si voltò con la velocità di un ghepardo, accelerò il passo e mi arrivò ad un centimetro dal viso, spingendo la Browning contro il mio stomaco con tutta la forza possibile.
Sobbalzai.
«Cosa non posso essere ragazzo? Abbi le palle di dirlo adesso».
«Vuoi davvero saperlo?» dissi fingendo di non aver paura. In questi momenti se mostri di aver paura è finita.
«Tel’ho chiesto io. Parla. Oppure te la sei già fatta addosso?».
«Per niente. Non sarai mai un bravo padre o un bravo marito amico».
«Che cosa?» disse urlando. Sollevò l’arma repentinamente ed ebbi l’impressione di aver ultimato la mia umile esistenza, quando il grido di Bianca ruppe l’attesa.
Si voltò. Andò da Bianca, le carezzò in modo folle i capelli e poi le chiuse la bocca con la mano.
«Che ne dici se faccio saltare in aria la tua fidanzatina, sbarbatello?»
«Non toccarla!» urlai a squarciagola.

CAPITOLO III – Calma e sangue freddo

«Ah, vedo che ti fa male, quando si dicono le cose in faccia, razza di … ».
«Dannazione, non capisci che così non fai del tuo meglio? Stai solo peggiorando le cose! Non farmi ripetere cose da film, ma pensi davvero che tua moglie e tua figlia torneranno indietro se ammazzi quella ragazza?».
«No, non sono mica pazzo» disse baciando la canna dell’arma in un fare da matti. «Io so che non torneranno, ma voglio dar loro compagnia». Rise di gusto, una risata sadica. Cattiva. Inerme alle provocazioni.
«Ed ora tesoro» disse rivolgendosi a Bianca «dì addio ai tuoi amici». Fabio non riusciva a parlare. Andrea non guardava. Dovevo fare qualcosa. L’unico modo per distoglierlo da Bianca era quello di colpirlo  sulle sue due persone più importanti nella sua vita. Sua moglie e sua figlia.
«Sai che direbbero?» lo interruppi.
«Chi?»
«Tua moglie e tua figlia, di là, in paradiso».
«Se le nomini ancora è finita … »
«Direbbero: “Che imbecille papà, non è vero?».
Questa mia frase lo rese una belva. Tolse la pistola dalla tempia di Bianca e la pose sulla mia. Non era ciò che volevo. Ero stato accontentato al cinquanta percento. Volevo che lasciasse stare Bianca, ma mi aspettavo si sarebbe buttato in una lotta a mani nude. Troppo ottimismo non fa mai bene.
«Mi sa che noi due ci salutiamo qui, amico».
«Aspetta» dissi socchiudendo gli occhi. Sapete com’è, volevo evitare di vedermi schizzare il cervello fuori.
«Cosa vuoi? Hai un ultimo desiderio?».
«Se qualcuno avesse sparato a tua moglie, se qualcuno avesse preso in ostaggio tua figlia … tu cosa avresti fatto?».
Sguardi attoniti scrutavano la scena mentre cercavo di temporeggiare sulla lunghissima circostanza che si era venuta a creare. Volevo solo prendere tempo. Forse dall’esterno qualcuno si sarebbe accorto che dal bar non entrava nessuno, né usciva nessuno e si sarebbe insospettito.
«Che domande sono queste eh idiota? Che domande sono?!» disse urlandomi a due centimetri dalla faccia.
«Solo una domanda, solo quello che ho detto» risposi ad occhi chiusi. «Ok, te lo dico io cosa avresti fatto amico, te lo dico io. Tu avresti abbassato la testa, te ne saresti fottuto dell’orgoglio e saresti in qualche sorta di bar lugubre a bere tequila e birra finché la bile non diventerebbe un tutt’uno con la lingua. Mi capisci amico? Capisci cosa ti sto dicendo?».
«Brutto bastardo. Così giovane e già così bastardo. Ma io ti levo dal mondo, dannato sbarbatello!».
«E allora perché non lo fai? Eh? Perché non lo fai? Te lo dico io perché. Perché hai paura di quell’arma!».
I suoi occhi sbarrati  perlustravano ogni piccolo centimetro della mia pelle, le nostre pupille si erano incrociate oltre l’inverosimile.
«Io non ho paura di niente … io …»
«Tu cosa? Hai avuto l’occasione di far fuori almeno tre o quattro persone da quando sei qui dentro e non l’hai fatto. Sai perché? Perché non sai nemmeno sparare con una pistola, ecco perché. Scommetto che è la prima volta che ne usi una, non è vero?».
Non rispose.
«Sì, fammi indovinare. Tu sei uno più alla “fucili da caccia” non è vero? Dimmi la verità … sei appassionato di caccia vero?».
«Cosa te lo fa pensare?» disse con la voce vibrante ed il sudore che gli imperlava la fronte.
«Vuoi davvero saperlo?»
«Dimmelo, dannazione, dimmelo!» disse irritato. Si asciugò il sudore con la mano sinistra.
«Ok,non scaldarti. Quando sei entrato ed hai cominciato a far casino, ho notato che tenevi la pistola nella mano destra e con la sinistra accarezzavi la canna dell’arma. I cacciatori, quando stanno per sparare, posizionano una mano per tenere la maggior parte dell’arma, mentre l’altra, quella opposta al senso di tiro, viene messo a sorreggere la canna. Una persona che ha usato già una pistola, o che ancora meglio ha avuto occasione di sparare qualche colpo al poligono di tiro, sa benissimo che con la mano opposta deve reggere la parte inferiore della pistola. Ma tu, no. Tu hai effettuato la mossa tipica dei cacciatori. E dicci la verità amico … non hai la più pallida idea di come si spari con quella vero?».
Il volto dell’uomo con in mano la Browning, impallidì. Le labbra erano diventate secche improvvisamente. Il sudore correva a frotte e l’impressione è che stessi davvero rischiando troppo. Forse non sapeva tirare al poligono, ma sicuramente non ci voleva una laurea per colpirmi in fronte con il calcio della pistola.
«Cosa vuoi fare adesso saputello? Dimmi» chiese con un fil di voce, quasi come se avesse paura del suo stesso tono. Aveva commesso un reato, ma probabilmente non era stato lui. Non era lui l’uomo che mi puntava una pistola alla tempia e che sotto le mie parole dal gusto strafottente, stava per crollare. Uomo fragile, l’avrebbero apostrofato gli indiani sioux.
«Tu cosa vuoi fare?» gli ribattei. «Vuoi continuare a mantenere in ostaggio venti persone in un bar della periferia torinese per il semplice motivo che tua figlia e tua moglie sono state ammazzate da un idiota che non è stato nemmeno trattenuto dalla polizia … oppure vuoi fare la cosa giusta?».
«E qual è la cosa giusta?!» disse urlando e abbozzando una sensazione di pianto.
«Non ci arrivi amico? Se uccidi qualcuno, nessuno riporterà indietro i tuoi angeli. Se uccidi qualcuno, anche loro, da lassù, ti vedranno come un perdente e tu ai loro occhi non sarai più l’uomo che sei sempre stato. Vuoi renderti conto che premere quel grilletto significherebbe aprirsi la strada verso il baratro? Perciò, te lo chiedo a nome di tutti, te lo chiedo da ragazzino. Molla quella pistola».
Era incerto. Non era mica stupido. Sapeva che tutto ciò che gli avevo detto in faccia, con un’arma fissata alla tempia in procinto di farmi fuori, era la triste e cruda verità. Ora stava a lui decidere. Sarebbe stato l’assassino che compare nei tg e che viene etichettato come mostro, oppure semplicemente un uomo che preso da un gesto di follia causato dalla sua estrema fragilità si sarebbe ravveduto? A lui la scelta.
«Dì un po’ ragazzo» mi chiese con un fil di voce.«Tu cosa faresti? Non intendo con l’arma. Tu cosa faresti nella mia circostanza?» il tono pareva essersi affievolito, la bocca forse aveva avuto una nuova connessione col cervello e gli occhi miravano in basso.
«Mi stai chiedendo una cosa molto, molto difficile. Io non potrei mai essere un tipo che entra con una pistola in mano in un luogo pubblico minacciando gli innocenti. No, non potrei mai. Mi dispiace per ciò che ti è successo, ma devi confidare nelle forze dell’ordine. Nelle stesse forze dell’ordine che l’hanno lasciato andare, ma che possono anche tranquillamente riaprire il caso come omicidio colposo. Tu hai detto che lui andava di fretta. Come lo hai saputo?».
«Al pronto soccorso» disse con le lacrime agli occhi «mia figlia era ancora viva. L’ultima cosa che mi disse fu: “papà, suonava il clacson come un matto, voleva sorpassarci a tutti i costi. E’ un bastardo papà”. Capisci ora?».
«Io capisco. E tu capisci che devi mollare l’arma e darti da fare in modo legale?».
«Se mollo l’arma chiamerai la polizia non è vero?».
«Non mi va di mentirti. Sì. Ma anche se tu mi facessi fuori adesso, la gente al di fuori del bar si insospettirebbe di sentire uno sparo. Scommetto che non conoscendo bene quella pistola, non gli hai messo nemmeno il silenziatore. Si vede anche ad occhio nudo. Dammi retta,molla l’arma».
«No, no» disse in tono frastornato e confuso.
«Su, non fare l’irragionevole. Non sei convinto di sparare, non sai usare l’arma, non hai il silenziatore, non vuoi uccidere e sai il discorsetto morale. Vai solo a perderci. Così te la cavi con un mesetto se fai anche lavori sociali, se uccidi dì pure addio alla Giustizia che ti spetta».
Quest’ultima frase lo fece crollare al suolo. La pistola lenta in mano, gli scivolò senza che lui potesse fare nulla. Scoppiò in un pianto dilagante, straziante, avvilente. Non avevo mai visto un uomo in quelle condizioni. Di solito gli uomini, passano per i freddi, coloro che non provano emozioni. Se avreste visto anche voi quella scena, non l’avreste mai e poi mai pensata così. Un uomo che aveva perso tutto era in ginocchio e piangeva di fronte alla realtà più dura che avrebbe mai potuto capitargli. Pochi fronzoli, dal giorno dopo iniziava un nuovo capitolo della sua vita.
Luigi chiamò la polizia, che venne dopo circa quindici minuti. In quei quindici minuti, l’uomo con la Browning disse di chiamarsi Giovanni Togni, di avere cinquant’anni e di lavorare presso una compagnia edile come operaio. L’avevo intuito dalle mani rovinate. Quelle mani avevano sollevato chissà quanti sacchetti di cemento e inchiodato chissà quanti chiodi al muro, solo per sfamare la sua famiglia.
Spiegai tutto al poliziotto. Del sequestro, della morte della famiglia di quell’uomo e di come era avvenuto tutto ciò. Spifferai tutto per voler mio e per voler di Giovanni. Forse, un’anima pia gli avrebbe garantito giustizia.
La paura era passata. Luigi non finiva più di ripetermi che avrei avuto la colazione pagata per i prossimi cinque anni.
«Sei stato coraggioso» mi sussurrò Bianca, mentre Fabio era andato ad accompagnare Andrea in bagno. La gente continuava a darmi pacche sulle spalle, segni di incoraggiamento e sorrisini ambiziosi. Non era male.
«Grazie mille» mi limitai a rispondere arrossendo.
«Lo sai che quando arrossisci diventi di un bel colorito?» mi disse facendomi arrossire ancor di più.
«Ehm … io non sono arrossito. E’ che purtroppo l’agitazione a volte dilata i vasi sanguigni e … ».
«Ok, ok. Come non detto» mi stoppò subito dilatando un sorriso.
«Grande Alex» disse dandomi un buffetto Fabio. Mio fratello mi abbracciò. Lo presi in braccio. «Abbiamo ancora il problema di papà da risolvere però» continuò Bianca.
«Vero».
«Ascolta, andiamo  a casa e perlustriamo la sua agenda. Sicuramente non l’ha portata via».
«Ok».
A quel punto era l’unica cosa da fare. Ma la domanda era: Dov’era Flavio?


ANTICIPAZIONE EPISODIO 12: Rancore e paura è il binomio perfetto per creare situazioni spiacevoli. La verità è unica e quando Flavio si ritroverà con le spalle al muro, si troverà costretto a dire la sua. Si scontrano l'alba e il tramonto, si scontrano Alex e Flavio!

sabato 22 ottobre 2011

Alex Fedele: Il genio della matematica (stagione 1;episodio 10)


IL GENIO DELLA MATEMATICA




PROLOGO: Il figlio modello, la moglie modello, il padre modello, la famiglia modello. Ma siamo sicuri che sia davvero così? Toccherà ad Alex Fedele accertarlo, assaporando drammi familiari, bugie piene di odio e soprattutto ... la matematica, la scienza più complessa che ci sia! 



CAPITOLO I – Strani comportamenti

Quella sera, al tramonto, io e Bianca eravamo appena rientrati dal supermercato nel quale eravamo andati a fare spese. Flavio non aveva avuto voglia di uscire e Fabio era impegnato con delle cose varie dell’università, quindi io e Bianca uscimmo per andare nel solito supermarket di fiducia che si trovava a circa tre isolati. Comprammo gli ingredienti per una cenetta rustica. Wurstel, pizzette, patatine, supplì e cose di questo genere. Invece della solita pasta o della bistecca o di qualsiasi altra cosa, quella sera si era deciso di mangiare qualcosa di più semplice e meno impegnativo.
Ero lì ormai da parecchio tempo. Devo dire che mi ero abituato allo stile di vita di Torino, dei Moggelli. La mia giornata era molto semplice. Passavo la mattina a documentarmi su casi, indagini e certezze della cronaca. Il pomeriggio era destinato al relax, ma spesso si incappava in qualche caso e allora addio televisione. Era il mio sogno però, quello di fare il detective e non mi dispiaceva affatto occuparmi di casi. La sera aiutavo Bianca a preparare la cena. Era un’abitudine che avevo preso da circa un paio di settimane. Nulla di particolare. Sia chiaro, io in cucina sono una frana ed il risultato più straordinario che abbia mai avuto è quello di mettere a bollire l’acqua, ma comunque davo il mio contributo facendo cose diverse, come apparecchiare la tavola o sparecchiarla. Dopo cena mettevamo i piatti nella lavastoviglie e nel mentre di tutto questo chiacchieravamo. Una vita normale. Mi piaceva chiacchierare con Bianca. Era di indole ottimista. Non si abbatteva di fronte alle difficoltà, aveva un sorriso splendido e luminoso ed era senza dubbio la persona alla quale mi ero affezionata di più da quando ero arrivato in città.
 Quella sera, mentre lei preparava la cena ed io apparecchiavo, iniziammo un dialogo molto, molto interessante.
«Allora Bianca, come va la scuola?».
«Oh, non c’è male. Ho solo il problema dei compiti. Sono decisamente troppi».
«Immagino».
«A te a Fondi non ne davano molti?».
«Certo che sì. Io ero pieno di compiti dall’unghia dei piedi fino all’ultimo capello ogni giorno. Ma se vuoi le cose a questo mondo devi guadagnartele e le nostre professoresse erano decisamente una montagna dura da scalare».
«Davvero? Che tipo erano?».
«Vediamo se riesco a descrivertele» dissi sedendomi al mio posto con un fazzoletto in mano.«Ne avevo una di italiano che arrivava sempre in ritardo. Ogni cosa si facesse, lei aveva sempre una scusa pronta. Una volta non venne a scuola perché era convinta che fosse Domenica».
«Che fortuna!» disse sorridendo.
«In che senso?».
«Niente lezione no?».
«Immagini male. Venne il nostro vice-preside a farci lezione. Un tipo lungo e lugubre che aveva insegnato nei militari … e ti ho detto tutto».
«Nei militari?».
«Yes».
«Aveva dei modi … militareschi?».
«Si vede che sei figlia di un detective» dissi con ironia.
«Spiritoso» e mi fece una linguaccia.
Erano le piccole cose che mi facevano sentire bene. Solo queste. Il poter parlare con Bianca era davvero straordinario. Sentivo che potevo dirle quasi tutto ciò che provavo nelle varie circostanze. Avete presente un diario nel quale scrivere tutto ciò che volete senza che qualcuno spifferi niente? Ecco, per me Bianca era questo e molto altro.
«Alex, vai a chiamare papà. E’ pronto».
«Ok». Mi diressi verso l’ufficio di Flavio. Andrea intanto ci aveva già raggiunto in cucina. Se fosse dipeso da mio fratello avremmo mangiato in quel modo tutte le sere. Andava matto per il rustico. Aprì la porta di Flavio lentamente. Non lo sentivamo sbraitare un po’. Di solito ha il vizio di fumare come una ciminiera nell’ufficio, di bere tre o quattro caffè nel pomeriggio. Ha il vizio di abusare di qualunque cosa. Per essere detective conduceva una vita molto sregolata. Spesso rimaneva addormentato vicino alla televisione, si alzava nel cuore della notte, quando ormai si affacciava la mattina, e si addormentava per un paio d’ore. Poi, quando andavi in cucina per fare colazione, lo vedevi già alle prese col cibo, sua passione.
«Flavio è pronto in tavola».
Non mi rispose.
«Flavio, è pronto».
«Sì, sì, ti ho sentito, adesso arrivo» disse in maniera scorbutica. Tipico. Se ne stava con le gambe appoggiate alla scrivania di legno. Beveva caffè come un cammello disidratato e aveva la camicia fuori dai pantaloni e la cravatta allentata. Questo era strano.
Arrivò dopo circa dieci minuti, si sedette a tavola di mal voglia. Poi prese un bicchiere e si versò acqua per almeno due-tre volte. Fabio quella sera non cenava con noi. Era finalmente riuscito ad invitare fuori Martina, quella ragazza della quale si era invaghito.
«Che cos’hai papà?» chiese Bianca vedendo che Flavio non aveva ancora toccato cibo.
«Niente piccola, niente». Non era vero. Conoscevo ormai Flavio e quando non mangiava aveva sicuramente qualcosa da nascondere.
«No davvero, Flavio, sei strano oggi» dissi.
«Fatti gli affari tuoi, ok?». Gentile come sempre. Poi continuò «A me non va da mangiare. Vado in ufficio a riordinare qualche pratica».
«Scusa, ma c’è Sergio apposta per quello!» dissi non controllandomi.
«Cos’è che non capisci della frase “ fatti gli affari tuoi?”» chiese irritato.
«Papà!» Bianca lo rimproverò fortemente con veemenza.
«Che cosa c’è?», Flavio si voltò guardando storto la ragazza.
«Ti pare questo il modo di trattare le persone? Dovresti solo vergognarti!».
«Uh, ma quanto la fai lunga. Sembri una di quelle mammine isteriche che rimproverano i loro figlioletti» e così facendo si alzò dalla tavola e si diresse deciso verso l’ufficio.
Dopo circa cinque minuti, il dialogo a tavola riprese senza alcun problema, Poi parlammo d’altro, soprattutto quando rimanemmo solo io e Bianca da soli e Andrea era andato in camera sua.
«Cos’ha tuo padre? C’è qualcosa che non so?»
Non mi rispose subito.«Diciamo che ci sono parecchie cose che non sai di questa famiglia».
La guardai con sospetto.
«E non guardarmi con quello sguardo sospettoso» disse porgendomi i piatti.
«Me li tiri questi sguardi» dissi candidamente.
Sorrise. «Vedi di non farti … tirare qualche piatto». Dolce non è vero? Come lo zucchero filato, anzi di più.
La voce di Flavio mi chiamava ripetutamente dall’ufficio. Mi precipitai da lui immediatamente.
«Che cosa c’è?» dissi spalancando la porta in modo rabbioso. Ok, non ero arrabbiato con lui, ma a volte mi dava su i nervi. Sembrava non conoscere complimenti, ma solo parole che suscitassero distanza e poco affetto.
«C’è che abbiamo del lavoro» disse scolandosi alla Steve Austin l’ultimo goccio della lattina di birra.
«Un caso? A quest’ora?» dissi guardando l’orologio che ho al polso sinistro. Per la cronaca il mio orologio è praticamente un computer. Ha la luce, può andare sott’acqua fino ad una profondità di cento metri, si illumina al buio e tante altre cose. Erano le dieci e trenta di sera.
«Come ti ho detto … non aspettano mica te per commettere delitti? Su andiamo» disse rialzandosi pigramente dalla sedia che incornava la scrivania.
«E Bianca e Andrea?».
«Li portiamo con noi. E’ molto tardi e Fabio ha telefonato dicendo che non verrà prima di mezzanotte. Gli lascio un post-it in camera da letto e poi possiamo andare».
«Di cosa si tratta?».
«Ti ho già detto che hai la lingua lunga?».
«Sì».
«Hai la lingua lunga».

CAPITOLO II – Arriva il lavoro

Dopo aver preso la macchina, lasciata la cucina in uno stato pietoso e l’ufficio di Flavio anche, prendemmo l’auto e ci dirigemmo verso un normalissimo condominio della periferia torinese. Era un palazzo interamente grigio con una striscia di vernice rossa dipinta orizzontalmente sul balcone dell’ultimo piano.
Notai che le volanti della polizia erano già lì. Ducato aveva la puntualità di uno svizzero, l’appetito di un americano frequentatore di fast food e la discrezione di un giapponese. A pensarci bene aveva anche un carattere da pugile. Possibile che quell’uomo fosse sempre incavolato? Misteri della vita.
L’appartamento era al secondo piano ed era arredata in modo piuttosto modesto. All’entrata c’era un piccolo ingresso con una sedia a dondolo di legno. Successivamente si continuava dritti per dritti in un corridoio. A destra c’era la cucina, mentre andando sempre dritti sulla sinistra c’era una sorta di finestrone senza infissi il quale dava sulla camera da letto della vittima, un certo Filippo Belsi.
«Ricapitoliamo» disse l’ispettore Ducato dopo averci salutato con un veloce cenno della mano. Quando voleva ottenere l’attenzione era solito colpire qualcosa. Non importa se fosse cosa o persona. L’importante era che gli tirasse un pugno, un calcio, uno schiaffetto. Quel giorno colpì Novato sulla spalla, l’agente in erba che si portava sempre dietro nei casi più intricati.
«Dicevo, ricapitoliamo: La vittima si chiamava Filippo Belsi, ed aveva cinquantatre anni. Lavorava presso un liceo scientifico di Torino come professore di matematica. Era ben stimato da tutti ed i suoi colleghi l’adoravano. La vittima è morta apparentemente senza alcuna traccia, ma le indagini svolte dagli agenti hanno fatto ipotizzare un decesso per avvelenamento da monossido di carbonio. Lo sportello della cucina che conteneva le bombole del gas destinate alla cucina apparentemente non ha subito forzatura. L’ora del decesso è stimata tra le ventidue e cinque e le ventidue e quindici».
«Ispettore, chi sono i sospetti?» domandò Flavio.
«I sospetti sono riuniti in camera della vittima. Novato elencali per favore e vedi di darti una mossa».
Novato cominciò a leggere i suoi appunti. «Sì signor ispettore. I sospetti sono due al momento. La moglie della vittima, la signora Gilda Belsi di quarantasette anni e l’unico figlio della coppietta, il signor Mirko Belsi di ventiquattro anni. Le porte dell’edificio non hanno subìto forzatura, e nemmeno le finestre».
«Capisco. Mi porti da loro ispettore».
Ducato eseguì. Entrammo nella stanza della vittima. Lo stavano coprendo in quell’esatto momento. Aveva lunghi capelli brizzolati ed era completamente rasato. Non aveva la barba insomma.
«Ispettore, ha già interrogato i sospetti?» chiesi avanzando verso la vittima.
«Sì Alex. Vuoi che ti legga le loro testimonianze?».
«Se si può … ».
«Certo!» disse in modo gentile. Poi cambiò totalmente tono chiamando «Novato! Leggi le testimonianze!». Povero ragazzo.
«Sì subito. Allora» disse tenendo la cartellina con su il foglio «La signora Gilda Belsi ha affermato che ha passato tutto il pomeriggio dalle amiche del club del libro» In quel momento mi girai verso Bianca «vedi che è un passatempo per donne di mezza età?» dissi prendendola in giro. Mi fece la linguaccia. Hai capito al bohemièn. Novato continuò imperterrito la sua lettura. «Inoltre stasera aveva in programma di incontrarsi in pizzeria con quelle sue amiche. E’ uscita di casa verso le ventuno e dieci ed è rincasata verso le ventidue e quindici. Trovando il corpo di suo marito ha subito lanciato l’allarme».
«C’è qualcuno che possa dire se effettivamente la signora sia uscita a quell’ora da casa?» chiese Flavio.
«No, dico detective. Sospetta di me?» dissi irritata la signora Belsi, una donna con biondi capelli a caschetto, dagli occhi azzurri e dal viso solcato da alcune rughe inevitabili.
«Tranquilla signora. Faccio solo il mio lavoro».
«E allora veda di farlo senza sospettare di me!» disse ancora più irritata. «Io ho un alibi di ferro. La mia vicina di casa, la signora anziana qui di fronte mi ha visto uscire di casa a quell’ora e ci siamo anche intrattenute a parlare per un po’».
«Capisco» affermò Flavio. Poi si girò verso di me e mi sussurrò: «Simpatica non è vero?». Feci un cenno di assenso ironico.
«E per quanto riguarda il ragazzo Novato? Puoi gentilmente descrivermi anche il suo rapporto?» dissi indicando un ragazzo con la barba tagliata in stile punk ed i capelli tagliati in modo particolare.
«Il signor Mirko Belsi, ha passato il pomeriggio in giro con degli amici. Abbiamo già chiamato, così come per la signora, per verificare se l’alibi fosse attendibile, e ci risulta esserlo. E’ rientrato verso le venti, ha cenato e poi è uscito di casa verso le ventuno e quaranta. Aveva un appuntamento con la sua ragazza in un pub della zona».
«Capisco. Grazie agente Novato».
«All’apparenza sembra un mistero irrisolvibile» annunciò Flavio guardando Ducato.
«Storie! Non esistono misteri irrisolvibili. Non è vero Novato?» disse rabbioso gettando la penna a sfera a terra. L’agente si limitò ad un timido cenno di assenso.
«Scusate» dissi a bassa voce. «Posso guardare la cucina?».
«Certo»disse la signora Belsi.
«La ringrazio». Bianca e Andrea, rimasti in silenzio fino a quel momento, mi seguirono come di consueto. Il che non mi dava fastidio. Ma non era spettacolo per ragazzine o bambini.
Domandai a Ducato come mai respiravamo normale, senza usare nessuna precauzione, come se non fosse accaduto nulla. Avevo timore che il monossido fosse rimasto nell’aria. Mi rispose con scioltezza dicendo che gli uomini della scientifica avevano spruzzato un nuovo gas sperimentale della polizia che eliminava tracce di veleno che veniva immesso nell’aria. In poche parole: E’ una prova e noi siamo le cavie. Divertente, non c’è che dire. Ispettore dell’anno.
Ispezionai la cucina. Non trovai nulla di particolarmente interessante. Ispezionai dappertutto. Aprì anche lo sportello dove era contenuta la bombola di gas che aveva sprigionato il monossido.
«Cosa fai? E’ pericoloso!» disse Bianca.
«Ma cosa dici? Non hai sentito l’ispettore a proposito del gas spruzzato per depurare l’aria?».
«Ha detto sperimentale! Vuol dire che c’è possibilità che non faccia effetto!».
«Non direi. Altrimenti saremmo morti da un bel pezzo Bianca. Siamo qui da una mezz’ora e non ci è successo nulla. Quindi … ».
«Anche questo è vero, ma stai attento lo stesso» disse con aria disorientata.
«D’accordo» dissi aprendo lentamente lo sportello. Le molle che sostenevano l’apri-chiudi non mi sembravano allentate. Inoltre non vedevo segni di forzatura allo sportello. Sembrava solo un normale sportello che non era stato aperto.
«Mi dica signora» dissi incrociando lo sguardo della signora Belsi «lei dice che lo sportello è stato aperto?»
«Intende lo sportello dove c’era la bombola di gas? No, non credo. Soprattutto perché cigolava di parecchio e mio marito se ne sarebbe accorto visto che aveva il sonno molto leggero».
«Capisco» dissi aprendo lo sportello. Dire che cigolava era usare nettamente un gentile eufemismo. Faceva più rumore della marmitta di una motocicletta. Incredibile. La cosa di cui avevano bisogno quelle molle non era olio, ma una buona razione di preghiere per farlo smettere di cigolare.
Provai a riaprirlo di nuovo, ma stavolta non veniva via. La signora Belsi, vedendomi affannato nel da farsi, mi sussurrò: «No, non è colpa sua, a volte non si apre perché le molle rimangono bloccate».
«Lo vedo» dissi tirando con sempre più forza. Tirai talmente tanto che ad un certo punto la manopola si sganciò dallo sportello ed io caddi a terra come un perfetto imbranato. Bella figura. Un detective cadente.
«Oh, si è fatto male? E’ strano però, mio marito l’aveva appena incollato»
Inutile dire che sia Bianca che Andrea scoppiarono a ridere, mentre Flavio mi diede un’occhiata triste e poco benevola. Era stato così tutta la giornata. Triste, angosciato. I suoi occhi avevano brillato solo per un momento, e cioè quando stava conducendo le indagini. Probabilmente tra vent’anni sarei stato anche io come lui. Forse, l’unica cosa che poteva rialzare un uomo che celava chissà quale segreto, era far bene il proprio lavoro. Onestamente, e voglio essere sincero, fin da quando misi piede a Torino capii una cosa. Capii che Flavio non era ciò che voleva apparire. Forse era solo una mia impressione, o forse solo stupide illazioni. Ma c’era qualcosa in quella famiglia, qualcosa che non mi convinceva. Era come se tutto d’un tratto mi fossi trovato catapultato in una famiglia nella quale mi trovavo bene, nella quale vivevo in modo sostenuto, ma della quale sapevo meno di zero. La signora Moggelli era morta, ma perché? In quali circostanze? Perché la madre di Bianca e Fabio, nonché naturalmente moglie di Flavio era avvolta da un alone di mistero? Perché i figli ne sapevano meno di zero e soprattutto perché Flavio non ne parlava mai? Erano tutte cose che mi chiedevo da giorni ormai. Ok, so cosa state pensando. Non saranno affari miei. Ma mettetevi nei miei panni. Un detective che non si pone delle domande, un ragazzo che non riesce a scorgere tutto ciò che dovrebbe a quelle persone alle quali voleva bene. Ok, va bene, l’ho ammesso. Mi ero affezionato a Bianca, le volevo già un gran bene. Anche Flavio e Fabio, in modi diversi erano due grandi simpaticoni e mi trovavo bene con entrambi. Forse era proprio per quello che tentavo di scoprire delle cose del loro passato che non erano di mia competenza. Forse perché volevo troppo bene a tutti in quella famiglia. O forse semplicemente perché quando vedo qualcosa di sospetto, occultato, tappato, reagisco d’istinto e caccio fuori la parola “detective” dal cilindro. O forse semplicemente perché credevo che Flavio avesse una spina nel fianco e che ne avessero una anche Flavio e Bianca. Credetemi, non avrei mai dovuto immischiarmi di cose loro, intime della famiglia, ma soffrivo al pensiero che Bianca e Fabio non conoscessero il motivo della morte della loro madre. La ritenevo una cosa ingiusta e, si sa, di fronte alle ingiustizie, criminali o familiari che siano, non mi fermo. Nessuno dotato di un minimo di buonsenso lo farebbe e nessuno che fosse a contatto con quella famigliola resisterebbe nel provare a scoprire la verità.

CAPITOLO III – Il colpevole allo scoperto

Feci questi pensieri nel giro di pochi secondi. Ero ancora a terra, con la manopola in mano e la fissavo come un idiota.
«Vuoi una mano?» Bianca mi porse la sua per rialzarmi.
Una volta in piedi continuai a guardare la manopola, mi toccai i capelli, mi passai la mano tra di essi e poi continuai ancora a pensare. Mi venne in mente una strana idea. Forse l’assassino credeva che per far passare il gas correttamente dalla bombola verso l’esterno e quindi per ottenere la propagazione che avrebbe ucciso la vittima, avrebbe dovuto aprire qualche varco. Il buco lasciato libero dalla manopola era sufficiente per far pensare a questa balzana teoria. Mi servivano delle prove, avevo qualche sospetto, ma ora veniva la parte che preferisco di più. Quella nella quale c’è il detective che cammina a testa bassa stile Sherlock Holmes e trova qualche indizio.
La signora Belsi si era congedata dalla cucina. Bianca e Andrea anche. Insomma, ero rimasto lì da solo con la manopola. Romantico, non è vero? Sembra un film scadente, una di quelle commedie di Owen Wilson “Io e la manopola”. Vabbè, sto dilagando in termini di battute scadenti.
Perlustrai il pavimento alla ricerca di qualche indizio. Scrutavo le piastrelle incollate col silicone e pensavo alla mia balzana teoria. Spesso le cose impossibili, sono quelle che accadono realmente.
Un sussulto. Della sabbia. Più granelli di sabbia, quasi dei piccoli cumuli nascosti agli angoli della stanza. Ora era chiaro. Il quadro era decisamente meno complesso di quanto appariva in precedenza. Dovevo solo dire la mia, riunire i presenti e mettere a tacere una volta per tutte la persona crudele, colei che aveva commesso il delitto.
Entrai in soggiorno dopo aver fatto una brevissima telefonata di accertamento. Sapete com’è, volevo essere sicuro di non aver toppato.
«Sa, signora Belsi» dissi accomodandomi sul divanetto color legno. «lei è una persona relativamente insospettabile». Flavio mi guardò e nei suoi occhi riapparve quel barlume, quel fuoco. Bianca mi guardava incredula, Andrea si era messo sulla poltroncina, comodo a godersi lo show.
«Cosa vuoi dire con questo?»
«Nulla signora Belsi, un bel nulla. Stavo solo constatando che se ipoteticamente lei fosse l’assassino che stiamo cercando sarebbe una grande attrice. Se lo è recita benissimo».
«Non lo dica nemmeno per scherzo! Come può pensare che io sia l’assassino di mio marito?».
«Già. Ora che ci penso … anche suo figlio è insospettabile».
Ducato si spazientì. Forse stavo tirando un po’ troppo la corda. «Alex!» disse urlando «stai zitto e lasciaci lavorare in pace!».
«Ma ispettore» provò a dire Novato «forse ha risolto il caso e … » non fece in tempo a finire la frase che si ritrovò fulminato da uno degli sguardi di Ducato. Avete presente quei film di basso grado che fanno in televisione? Sì, quelli che vedi solo quando hai l’influenza e sei troppo debole per prendere il telecomando e ribellarti ai dogmi della televisione. Proprio quelli. Lo sguardo di Ducato assomigliava ad uno di quei commissari di basso grado, uno di quelli che è tutto birra e rutti e pochi fronzoli. Ovviamente nella realtà, l’ispettore non era così(lo spero vivamente per lui).
«Meno male che esistono i cellulari ispettore» gli dissi alzandomi e mettendomi le mani in tasca.
«Ma cosa diamine dici? Ti sei ubriacato?».
«Mai stato così sobrio. Il fatto è che riflettevo sull’enorme potenza della tecnologia. Oggi può anche inchiodare un assassino, lo sa?».
«C-cosa vuoi dire?» intervenne Bianca con gli occhi sbarrati.
«Oh, è molto semplice. E’ che se non fosse per questo aggeggio» dissi estraendo il mio telefono «non avrei mai scoperto l’autore del delitto. Sono portentosi … non è vero Mirko? Mi dica, è lei l’autore del delitto?»
«Cosa? Ma che domande sono ragazzino? Io sono innocente!».
«Ah davvero? Mi dica, dov’è stato oggi pomeriggio con i suoi amici?».
«Un po’ in giro, perché?».
«Non ricorda con esattezza dove ha passato il tempo?».
«Vediamo … prima siamo andati al centro commerciale e poi in un bar qui vicino. Perché me lo chiede? Cosa c’entra con il delitto di mio padre?» disse inviperito. I suoi occhi avevano sfumature di sangue. Sangue che avevano le persone che si arrabbiano all’inverosimile quando non ottengono ciò che vogliono.
«Oh,nulla. Ho fatto un colpo di telefono ad una sua amica. Mi pare ha detto di chiamarsi Marika. Sbaglio?».
«No, non sbaglia. Cosa vuoi da lei?».
«Mi ha detto che la vostra compagnia è stata per ben due ore al mare. Lei nega?».
«No, non nego. Ma l’avevo dimenticato».
«Davvero? Quindi lei ha una forma di memoria selettiva? Cioè ricorda solo alcune cose? Non stiamo parlando di cose successe un mese fa. Le sto parlando di cosa ha fatto oggi pomeriggio, per ben due ore».
«Cosa sta cercando di insinuare?».
«Sa, a volte la peggior cosa da fare in queste circostanze è proprio ciò che sta facendo lei. Fare il furbo. Perché non confessa e da il cuore contento a sua madre?».
«Mirko … tu?» chiese la signora Belsi. Sudava freddo, aveva le mani sudaticce e la fronte le si era imperlata di sudore.
«No, mamma! Non credere ad una sola parola di quello che dice questo idiota!» disse Mirko riferendosi a me.
«Sa, Mirko. Questo idiota la sta assicurando alla giustizia. Lei non mi ha detto che era andato al mare perché voleva nascondere le tracce evidenti di sabbia che ha sotto le scarpe e che ha disposto in cucina!».
«Non stavo nascondendo niente. E poi come ti ho detto sono stato in cucina per cenare. Dopo fatto la doccia ho indossato di nuovo le stesse scarpe di prima e deve esserci rimasta della sabbia sotto».
«Già, ma mi dica, lei era di fretta?».
«Dovevo uscire».
«Ok, diciamo che era di fretta ok? Lei ha lasciato solo piccoli granelli sulle piastrelle della cucina che fanno da pavimento. Il resto lo ha come accumulato agli angoli della stanza. Non sono veri e propri cumuli, certo, ma sicuramente sono stati allontanati agli angoli per non essere visti».
«No, stai dicendo stupidate!» disse con violenza. «Io ho semplicemente spazzato via la sabbia perché so che a mia madre dava fastidio».
«Ah davvero? E così lei invece di prendere paletta e scopa come farebbe qualsiasi essere umano, ha deciso di raggruppare i cumuli in un angolo?».
«Andavo di fretta ti ho detto!».
«Ma mi dica, se andava di fretta … come mai ha trovato il tempo per una veloce spazzata? Mi dica, quanto le avrebbe portato via in più, prendere una paletta e raccogliere normalmente il tutto? Pochi secondi. No, amico mio. Lei si è introdotto in casa e … »
«E cosa? Ti pare una priva sufficiente per incastrarmi? Voglio vedere le prove!»
«Le vuole? Bene, eccole qua, servite come il migliore dei piatti della nouvelle cousine dal miglior chef francese.» disse toccandomi i capelli per la stanchezza. «Lei ha commesso l’errore di credere che per la propagazione del gas e quindi per l’avvelenamento di suo padre, fosse necessario aprire un varco alla sostanza. Invece se si apre il gas e si richiude normalmente lo sportello, la sostanza si propaga lo stesso e si ottiene il medesimo risultato. Ma lei no, lei ha voluto eccedere di minuziosità. Ha tirato fortemente lo sportello, la manopola si è staccata e l’ha lasciata aperta per un bel po’. Probabilmente lei sapendo che la manopola era già lenta di suo ed era stata appena riparata da suo padre ha tirato fortemente fino a far scollare di nuovo quella parte dello sportellino. Indossava una mascherina per non respirare. Poi ha incollato il tutto di nuovo, ma si è dimenticato di farlo bene. Infatti, appena lo sportello si è bloccato, poco fa in cucina, la manopola si è staccata di nuovo ed io sono caduto all’indietro con essa in mano».
«Sono solo supposizioni ragazzino» disse ridendosela di gusto.
«No. Sua madre ha sessant’anni ed è una signora abbastanza magra, dotata di poca forza fisica. L’unico che poteva tirare con forza la manopola a tal punto da scollarla è lei signor Mirko, questa è una prova inattaccabile! Sono sicuro che per la circostanza non indossava nemmeno i guanti quindi ritroveremo le sue impronte. La vogliamo finire questa partita signor Mirko? Le va di mettere palla al centro e di rientrare negli spogliatoi?».
Il sorriso del ragazzo scomparve. Avevo colpito nel segno. Si lasciò andare sul divano. La signora Belsi emise un gemito e si mise le mani davanti al volto.
«E va bene» disse esausto. «Confesso. L’ho ucciso io».
«Ma perché?! Perché Mirko?» disse la signora Belsi piangendo a dirotto.
«Tu non puoi capire mamma! L’ho fatto per te dannazione!».
«Cosa vuol dire?» chiesi guardando sia Mirko che Flavio.
«Mio padre tradiva mia madre con una donna più giovane di lei. Mia madre sapeva tutto ma non reagiva mai. Da qualche tempo ero venuto a scoprirlo anche io. Ho controllato il suo cellulare e ho trovato messaggi di ogni genere rivolti a quella donna. Non potevo perdonarlo. Mia madre soffriva. Sì, l’uomo che ammiravano tutti a scuola, colui che veniva soprannominato “il genio della matematica”, era in realtà un vile traditore».
«Signor Mirko» disse Flavio sedendosi accanto a lui e mettendogli una mano sulla spalla. «Le persone care sono un dono inestimabile. Lei oltre ad aver commesso un delitto imperdonabile ha anche tolto a sua madre il suo unico amore oltre a lei. Suo padre aveva sbagliato, ma non meritava questa punizione e lei lo sa bene. Ha perso suo padre, mi auguro che lei non perda una cosa altresì importante e cioè il rispetto che sua madre aveva per lei» Le parole INESTIMABILI e RISPETTO erano state pronunciate quasi in modo solenne. Ma non avrei potuto comunicare messaggio migliore. Flavio aveva perso la moglie. Era inutile girarci intorno. Sapeva com’era perdere una persona cara. A dir la verità lo sapevo anch’io e lo sapevano mia madre e i miei fratelli. Ma sicuramente c’era una cosa che forse Flavio sapeva fare ed io no. Esternare il tutto. In qualunque modo possibile, anche tirando calci. Non mi ero mai sfogato, non avevo mai parlato della morte di mio padre. Mi avevano detto che era morto per una malattia indibile.
Mirko pianse quella sera, ed ebbi l’impressione che a Flavio fossero venuti gli occhi lucidi. Era andata così e parecchio tempo dopo, quando quella sera era finita, i cattivi erano stati presi e i buoni si dondolavano sull’altalena contornata da allori, presi coraggio e decisi di dire a Bianca qualcosa a proposito della morte di sua madre. Avevo ottenuto qualche informazione con Fabio. Bianca non l’avevo mai ancora sentita a proposito di questo problema. Quella sera, dopo aver cenato in un orario a dir poco inusuale(erano le due del mattino quando finimmo), Flavio si allontanò dal tavolo per andare a prendere qualcosa in ufficio e alla fine in cucina rimanemmo io e Bianca.
«Allora Bianca. Impressionata?».
«Per niente. Sai che sono cresciuta in mezzo a queste cose».
«Già, ma è raro trovare una ragazza che non si scandalizza davanti ad un cadavere».
«Lo so. Mi sono un po’ commossa solo per il pianto di Mirko».
«Non importa se ha agito perché non volesse far soffrire sua madre. Ha commesso un delitto e deve essere punito».
Non rispose.
«Senti, posso farti una domanda un po’ personale?».
«Certo» disse voltandosi leggermente.
Il chiarore della luna che filtrava dalla finestra quasi del tutto aperta le faceva risplendere il viso.
«Ho già rivolto la domanda a tuo fratello. Non sei obbligata a rispondermi».
«Lui ti ha risposto?» disse accomodandosi di fronte a me.
«Be’ lui sì».
«E allora non può essere una cosa indicibile. Dimmi pure».
«Senti, prima di chiedertelo … non sono affari miei. Chiamami impiccione. Ma è per evitare futuri fraintendimenti che ti faccio questa domanda».
«Come sei misterioso e diplomatico» disse sorridendo sarcasticamente. «Guarda che parli con me, non con il capo di stato americano».
Credetemi, sarebbe stato meglio parlare con un capo di stato.
«Ok. Flavio è un uomo affascinante. Tu sei una bellissima ragazza» le dissi facendola arrossire. «La vostra famiglia è davvero meravigliosa. Tuo fratello mi ha detto che vostra madre è morta. Ma non mi ha detto tutto, non è vero? Ripeto, non sei obbligata a rispondermi e puoi darmi due ceffoni fin da adesso se ti ho portato alla mente ricordi spinosi. Ma la mia domanda è un semplice incentivo a voler evitare fraintendimenti in discorsi futuri. Non vorrei ritrovarmi in conversazioni con uno di voi e senza volerlo fare qualche errore nel parlare di vostra madre».
Gli occhi neri si riempirono di niente. Forse non avrei dovuto chiedere nulla. Ma lo facevo per capire quale fosse la motivazione che in dieci giorni non avevo mai sentito la parola “mamma” pronunciata da Bianca. Volevo sapere la verità. Alla fine è il mio lavoro. Scoprire l’unica verità certa. E quella sulla famiglia Moggelli, la quale mi ero affezionato, non era ancora chiara. Avevo come l’impressione che si forzassero determinati discorsi.
«Mia madre … » disse incominciando il discorso. «Cosa sai?».
«Solo che è morta» dissi abbassando la voce.
«Sai quel che so io allora Alex» dissi portando le mie mani sulle sue. Il suo sguardo era sincero.
«Ma … non sai … ».
«Alex» disse riprendendo fiato e guardandomi con gli occhi di lacrime. «Non so nulla. Ti rendi conto? Non so niente di mia madre. Lui lo sa. Mio padre sa. Io posso dirti solo che è sepolta a Cuneo. Ma ora che hai scoperto qualcosa anche tu … ti prego di aiutarmi».
«Aiutarti a fare cosa?» la guardai con paura. Aveva lo sguardo di una persona sofferente. Incrinò la bocca.
«Di aiutarmi a scoprire la verità. La verità, Alex. E’ il tuo lavoro. E’ quello di mio padre e …»
«Bianca!» un urlo possente interruppe la conversazione.
«Sì papà?» disse rizzandosi subito in piedi.
«Non preoccuparti per i piatti. Ci penso io».
Non sapevo da quando Flavio fosse lì. Non sapevo quanto avesse ascoltato. Ma il suo tono non prometteva davvero nulla di buono.
«Ok papà, grazie» disse baciandolo sulla fronte. «Buonanotte papà, buonanotte Alex».
La salutai e guardai Flavio fisso negli occhi.
Si avvicinò, mise la sedia a posto,
Mi alzai, feci per andarmene, quando mi bloccò trattenendomi con forza il braccio destro. Ci ritrovavamo a pochi centimetri uno dall’alto. Ma non ci guardavamo in faccia.
«Alex, fatti dire una cosa».
Non risposi.
«Saper stare zitti è la cosa più preziosa del mondo. Il silenzio è d’oro. La parola è d’argento».
Non sapevo fin dove volesse arrivare, ma riuscii a bisbigliare qualcosa come «quindi?».
«Ti consiglio di non dire più nemmeno una parola a proposito di ciò che sai. Rispettami ed io rispetterò te. Sono stato chiaro?».
Non risposi ancora una volta, ma mi lasciò andare. Quando mi voltai, vicino alla porta, vidi un uomo psicologicamente distrutto. Non sapevo ancora nulla. Ma il mio dovere era scoprire la verità. Ora non più solo per una questione di circostanze, ma perché la invocava una ragazza che non sapeva nulla del passato della madre.

ANTICIPAZIONE EPISODIO 11: Flavio sparisce nel nulla. Già, nel nulla. Prende la macchina e lascia tutti a piedi. E' l'inizio di un'avventura ai limiti dei rancori che travolgerà tutti i protagonisti della nostra storia. Alex, la morale, Flavio, la forza d'impulso, Bianca e Fabio, la disperazione, la parte lesa. ALEX FEDELE EPISODIO 11: L'ANNIVERSARIO(1°parte)
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