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sabato 26 novembre 2011

Alex Fedele: Ballo di morte(stagione 1; episodio 15)


BALLO DI MORTE

PROLOGO:  Salsa, tango, merengue, valzer ... conosciamo tanti tipi di ballo, non è vero? Il ballo è arte, la danza è movimento, interpretazione e ... crudeltà. Già,crudeltà. Cosa succede quando la crudeltà entra in pista? 




CAPITOLO I – Parole ambigue

Mia madre ballava. Le piaceva volteggiare per ore in casa, quando io e mio fratello Stefano eravamo ancora piccolini. Andrea era solo un progetto e la sera, quando papà tornava dal lavoro, mia madre accendeva lo stereo a palla e cominciava a danzare sulle note di artisti famosi quanto bravi. Nomi come Michael Jackson, Santana, Aereosmith, U2 e anche diversi tipi di musica come Pavarotti ad esempio, la esaltavano e facevano di lei il prototipo della mamma allegra e svagata, che in realtà, per vari motivi, non era.
Fatto sta che papà entrava ogni sera in casa ed ogni sera si ripeteva la stessa scena. Volteggiavano, danzavano, si amavano per ore, come se fossero innamorati l’uno del cuore dell’altra più di ogni altra cosa al mondo. Sono questi i ricordi che ti fanno dimenticare i problemi, ad esempio il fatto di essere stato in ospedale per due giorni e di avere ancora una benda sulla parte destra della testa, vicino alla tempia.
Bianca aveva cominciato da poco a frequentare un corso di tango. Nelle vicinanze c’era una scuola di ballo che aveva aperto i battenti relativamente da poco.
«Bianca! Hai finito di prepararti? Dobbiamo andare a lezione!». La migliore amica di Bianca, Barbara, chiamava ininterrottamente la sua amica da tempo immemore. Il tempo è relativo, ok … ma sembrava un secolo da quando le due si erano allontanate.
Barbara Picenti, non era una ragazza cattiva. Era compagna di classe di Bianca, e a i capelli biondastri che le incorniciavano il volto, alternava due vispi occhietti neri. Conoscevo da poco quella ragazza, ma non c’era mai stato molto feeling tra noi. Era venuta a pranzo la domenica prima, e anche se aveva tentato di non farsi sentire, aveva continuamente lanciato occhiatine maliziose a me e Bianca, qualora ci fossimo trovati in situazioni comuni, come ad esempio apparecchiare la tavola insieme. Se avevo ben capito, era il centro di quel mondo perverso e malizioso che le donne chiamano “pettegolezzo”. Ogni volta era buona per sparlare di qualcuno, di qualcosa, per polemizzare su uno status quo non meglio delineato e visto solo da lei stessa. Ok, non si può dire che facesse pettegolezzi con cattiveria. Apparteneva solo a quella categoria di persone che amano farsi i fatti altrui. A tutto questo aggiungeva un’estrosa personalità, fatta di scherzetti, facce buffe e poco amabili circostanze da lei create, non proprio adatte al contesto. Aveva spinto lei per quel corso di tango, e Bianca, pur di non sentirla, l’aveva accontentata. Avete presente come si fa con i bambini piccoli? Uguale. Oh, dettaglio non insignificante … era un po’ viziatella, causa il fatto che fosse figlia unica e che suo padre e sua madre fossero avvocati di successo e che lei avesse vissuto metà della sua vita in compagnie delle tate. Non usciva mai senza una mano di trucco e guai se non fosse andata una settimana dal parrucchiere.
«Arrivo» rispose Bianca. Indossava un sottile fuseaux nero che ne marcava le gambe magre ma comunque ben accorpate. A tutto abbinava una felpa di colore bianco con sfumature violacee. Barbara aveva invece indossato lo stesso fuseaux, ma si era abbigliata con una felpa molto appariscente. Arancio con degli strass che ne accentuavano il modello.
«Allora papà … ci accompagni?».
«Cosa?» Flavio si alzò di scatto dal divano e si rizzò in piedi scalciando il puffo che aveva sotto i piedi.
«Che c’è signor Moggelli?» domandò Barbara. «Non può accontentarci?».
«Scusate, ma non avete i vostri scooter?».
«Purtroppo non ho più benzina! Ho scordato di passare dal benzinaio stamattina e così ho usato le ultime risorse per arrivare a casa». Bianca si legò i lunghi capelli con un mollettone. Li modellò a coda di cavallo.
«Purtroppo devo darvi una buona ed una cattiva notizia».
«Che c’è papà?». Le due ragazze erano in piedi dietro il divano, mentre Flavio le guardava aggrottando sopracciglia e serrando i denti.
«La cattiva notizia è che ho la macchina dal meccanico. Mi ha detto che aveva problemi alla calotta dello spinterogeno e quindi non posso proprio accompagnarvi».
«Cosa?!» Barbara aveva esclamato così forte che se fosse arrivato anche solo un decibel in Cina, da quelle parti avrebbero perso l’udito. «E quale sarebbe la buona notizia?» aggiunse Bianca desolata.
«Farete quattro passi all’aria aperta e vi scalderete per la lezione … non è meraviglioso?». La scena fu quasi esilarante, ma per il dolore causato dal confronto diretto con Turbotti e company, non avevo nemmeno la forza di ridere. Flavio con un sorrisone esagerato, cercava invano di persuadere le ragazze ad andare a piedi. Dal canto loro, Bianca e Barbara spingevano per prendere un taxi, ma, dall’altra parte e cioè quella che riguardava Flavio, era in pensiero e trepidante e non voleva che le due si mettessero da sole in un taxi a suo avviso, pericoloso. Una discussione migliore di quelle che fanno in tv. Avrei potuto mettermi a sgranocchiare pop corn e aranciata fresca e godermi lo spettacolo, ma decisi di vedere un tranquillo film giallo sulla tv satellitare.
«Aspettate! Ho un’idea. Vi accompagnerà Alex!». Avrei fatto volentieri a meno della benda sulla tempia destra in quel momento e avrei voluto alzarmi per comunicare a Flavio che non mi sarei mosso di casa nemmeno se a chiedermelo fosse stato un capo di stato … ma sapete com’è … solo due giorni prima Bianca mi aveva letteralmente salvato … le penne. E ho usato questo aggettivo per non essere volgare, quando in realtà mi aveva salvato molto, molto di più.
Infilai le scarpe da tennis e mi apprestai ad uscire, quando Barbara mi guardò storto. Il desiderio di mettere a terra Flavio, mi era rimasto.

CAPITOLO II – “La Playa”

La scuola di ballo “La Playa”, era un fatiscente edificio che era insorto come un fungo nel bosco, solo da qualche tempo. L’insegna era grandissima ed era stata messa ad un altezza di almeno sette- otto metri dal suolo. Su di essa, il disegno di una enorme palma verde, appoggiata su di una calda spiaggia argentina ed una bandiera della nazione sudamericana con la faccia del fondatore. Durante il tragitto, le due ragazze avevano camminato avanti e per tre, dico tre isolati, non mi avevano rivolto minimamente la parola. Confabulavano tra di loro e quando vedevano che mi avvicinavo, se ne uscivano con delle frasi del tipo: “bella giornata! Oggi il meteo aveva detto che avrebbe piovuto”. Della serie, credibilità zero. Credetemi, sarebbe stato più credibile se mi avessero detto che un elefante stava percorrendo la rampa di scale del Festival di Sanremo, piuttosto che due diciassettenni stessero parlando di meteorologia.
Quando la scuola distava solo un centinaio di metri, decisi di non poterne più e allora instaurai una sorta di dialogo. Mi avvicinai a loro quatto, quatto e appena dietro l’orecchio di Bianca, le sussurrai.
«C’entro qualcosa?».
Tutte e due si girarono di scatto e rimasero a fissarmi come se avessi scritto “giocondo” sulla testa. Sulla benda magari, sarebbe stata ben visibile.
«Ehm … no, no! Assolutamente, figuriamoci! Diglielo anche tu Barbara!». Il viso era rosso come un peperone e gli occhi avevano assunto una sorta di parallelismo dell’imbarazzo.
«Noi stavamo parlando di cose nostre … da ragazze insomma … non immischiarti Alex!» mi rimproverò Barbara.
Adesso il livello di credibilità era sceso ancor di più. Dico, mi avevano forse preso per un idiota?
«Siete sicure?» dissi cambiando espressione, assumendo la classica “faccia di bronzo”.
«Sicurissime! Ehm … cosa stiamo aspettando? Andiamo alla scuola di danza!» aggiunse voltandosi.
«Sarà … ». Terminai con tutta la diffidenza di questo mondo. Non che fossi vanitoso, ma ancora una volta avevo sentito il mio nome e allora volevo sapere cosa avessi fatto per meritare spazio sulle loro “preziose” lingue.
Arrivammo all’edificio. Entrammo dopo aver percorso una piccola rampa di scala. Assomigliavano a quelle rampe che si vedono nei film dove la danza è rappresentata come un sogno. Chissà quanti si erano spaccati le gambe su quelle rampe.
Arrivammo in una stanzetta non molto spaziosa, ma giusta per le prove di danza. C’era un odore fortissimo di legno, dovuto probabilmente al parquet nuovo di zecca. Un enorme specchio troneggiava sulla parete opposta alla porta. Furbo il tipo. Aveva risolto per sempre il problema del “cosa mettere alle pareti”. In quella stanzetta c’era una porticina semi-aperta che dava su un’ulteriore sala da ballo arredata nel medesimo modo. Frotte di ballerini indaffarati sorseggiavano acqua a temperatura ambiente. Nella seconda stanzetta c’era un’altra porta che volgeva su un corridoio.
«Eccole qui le mie allieve preferite!». Una voce maschile, ridondante, marcata, attraversò i cuori delle due ragazze in modo piuttosto repentino. Sia Bianca, ma soprattutto Barbara, erano arrossite. Davanti a loro, un uomo sulla trentina, dai tratti sudamericani, con indosso una maglietta grigia sudaticcia e dei pantaloncini corti. A tutto si abbinavano dei capelli pettinati all’indietro con del gel e dei baffetti tipici di chi ballava il tango. Presumibilmente era quello che mandava avanti la baracca.
«E chi è lui? Un nuovo allievo?» disse indicandomi.
«No, no … è solo un nostro amico. Ci ha solo accompagnato».
«Ah bene, bene». Devo dire che nonostante la provenienza, parlava davvero bene la nostra lingua. Era impossibile che la sua inflessione dei paesi caldi fosse nascosta. «Ragazzo, se vuoi conquistare una di queste due belle donzelle, devi imparare a ballare il tango. E’il ballo più romantico del mondo».
«Ahem … già … ci penserò quando sarò in vena di conquiste» dissi imbarazzato. Bianca e Barbara fecero una risatina.
«Non mi sono ancora presentato. Sono il titolare della scuola, Leòn Bolivàr». Mi strinse la mano ed io feci lo stesso.
«Ti informo che Leòn è un ballerino provetto. E’ arrivato in Italia da circa sette anni. Ma ha vinto già numerosi premi. Tra i suoi successi si contano ben 3 Dance Oscar, 7 volte ballerino argentino dell’anno nella specialità tango e numerosi altri premi individuali. Ha ballato anche a “La Scala”».
«Così mi lusinghi Bianca, non devi mettermi in imbarazzo». Fece un inchino e le baciò la mano. Ecco, adesso mi stava leggermente sulle scatole.
«Congratulazioni allora. Sentite, io vado e vi lascio lavorare».
«Aspetta!» Bianca mi mise una mano sulla spalla. Ero girato verso la porta e avevo già trequarti del corpo fuori le scale.
«Cosa c’è?».
«Non puoi andartene! Poi come ci torniamo a casa?».
«Be’ vi vengo a prendere».
«No. E’ quasi buio e a quell’ora in questo quartiere si vedono brutti ceffi … più siamo meglio è» disse sussurrandomi all’orecchio.
«Insomma, devo restare per forza?».
«Sì».
«Sicuramente sai quello che vuoi … e quanto durerebbe la lezione?».
«Circa un’ora e mezza» aggiunse Leòn.
«Cosa?! Ma siamo matti?».
«E dai Alex! E’ la prima volta e sarà anche l’ultima. Ti siedi sulla panca e aspetti un po’ … dai … ».
«E va bene» affermai rassegnato.
«Ottima scelta ragazzino» affermò Leòn cingendomi il collo con il suo braccio. «La danza è arte … ad ogni livello. Chissà che stando qui, anche tu non impara qualcosa».
Gli sorrisi, ma avrei voluto mandarlo a quel paese.
Mi sedetti sulla panca, in attesa che quella tortura finisse. Non amavo molto la danza, ma credo non fosse per ragioni di pregiudizio. Semplicemente, non mi interessava.
«Ho dimenticato i soldi a casa, cavoli!». Barbara frugava nella borsa in modo frenetico e nervoso.
«Anch’io ho solo banconote da cinque» disse dispiaciuta Bianca.
«Alex, hai qualche monetina da prestare a Barbara?».
«Mi dispiace» affermai frugandomi nelle tasche. «Ma non ho proprio soldi con me».
Barbara Picenti si avvicinò a Leòn, gli tocco leggermente la spalla destra. Il ballerino di origine argentina stava parlando con un altro ragazzo, leggermente più basso di lui, con dei capelli biondi sparati in alto. Dietro di lui, una ragazza di circa vent’anni, con uno chiffon nero.
«Scusi maestro … ha qualche monetina da prestarmi? Ho dimenticato i soldi a casa».
Leòn si mise una mano nella tasca posteriore del pantalone e estrasse un vecchio e segnato portafoglio di pelle marrone. Lo aprì completamente e mostrò che nel suo portafoglio c’era il vuoto più assoluto.
«Mi dispiace Barbara. Ma non ho nemmeno un centesimo con me. Ho lasciato tutto a casa» affermò sorridendo. Tornò subito alle sue spiegazioni. La cosa che mi aveva sorpreso di più di Leòn era il suo ampio sorriso in ogni circostanza. Lo conoscevo da circa dieci minuti, eppure si era sempre mostrato sorridente.
Passai circa mezz’ora a rigirarmi letteralmente i pollici, e l’altra mezz’ora a sentire nozioni a proposito del tango. Imparai cosa volesse  dire “Ocho”, “Parada”, “Gancio” e “Barrida”. Insomma, ero diventato un’enciclopedia danzante. Ok, non proprio danzante visto la mia grazia, e sto usando un netto eufemismo, nella danza, ma avete capito.
Barbara era leggermente più svogliata di Bianca, mentre quest’ultima ci metteva tutta sé stessa. Da entrambe comunque, avevo notato cose davvero notevoli. Non ero un esperto di danza, né avrei voluto esserlo per la mia scarsa attitudine a questa disciplina, ma erano piuttosto brave.
«Paola … Paola!!!». Un urlo maschile mi fece sobbalzare dalla panca. Gli altri ballerini se n’erano andati tutti. Erano rimaste Bianca, Barbara e quei due ragazzini nella sala accanto. D’impeto mi fiondai sulla porta che collegava le due stanze e cominciai a bussare ininterrottamente. Stranamente era chiusa dall’interno. Intanto Bianca e Barbara avevano interrotto i propri esercizi muscolari e si erano impaurite. Bussai sempre più forte. Il maestro era presumibilmente in corridoio, altrimenti avrebbe aperto alle mie insistenze. Fatto sta che dopo circa venti secondi, la pesante porta di legno si aprì, con il maestro sudato e preoccupato e con il ragazzo biondino di prima accasciato a terra sul corpo inerme della ragazza che poco prima aveva chiamato Paola.
La ragazza era stata tremendamente sfigurata con un colpo alla testa. Il sangue le grondava dalla parte destra della tempia. Non sapevo ancora con cosa fosse stata ferita, ma devo dire che pensai subito a qualcosa di grosso. Tutta la parte destra del viso era coperta da sangue, mentre una parte dell’occhio era socchiuso parzialmente, quasi a significare di aver subìto un colpo prima della tragica fine.
«Non muovetevi!» urlai a voce alta. Mi avvicinai al cadavere. Pulsai le vene del collo, ma non c’era nulla da fare. Era inerme a terra ed io inerme con lei. Gli occhi abbassati.
«Chiamate la polizia … chiedete dell’ispettore Ducato … c’è stato un omicidio». Tante grida di stupore accompagnarono questa mia frase. Il cielo non aveva messo bocca … ancora una volta era stato l’uomo.

CAPITOLO III – La bugia

Circa quindici minuti dopo, la squadra omicidi arrivò al gran completo escluso Novato, che dopo l’incidente aveva preferito stare a casa per qualche giorno.  Ne mancava solo uno. Vincenzo Ducato. Al posto di Novato, c’era un agente che avevamo avuto modo di conoscere pochi giorni prima. Era stato lui a redigere il racconto di Flavio. Venne anche da me, in ospedale a chiedermi sviluppi. Si chiamava Silvio Torchi. Aveva trentadue anni, capelli rossicci tirati all’indietro, di media lunghezza e un pizzetto che aggiungeva al quadro un tocco di vecchiaia per nulla sentita. Era stato trasferito da poco da Cuneo e mi era sembrato a primo impatto, davvero molto timido. Per quanto riguarda Ducato, al suo posto, avevano mandato un nuovo ispettore. Non avevo avuto modo di conoscere bene tutti. D’altronde a Torino c’erano molti commissariati, ma quello con cui avevo trattato di più era stato quello di Ducato. Naturalmente i commissariati erano divisi per aree geografiche, ma a volte importava relativamente poco le divisioni in alcuni frangenti. Nel senso, che c’era un crimine e bisognava punirlo. Ad esempio, quante volte Ducato e i suoi uomini si erano interessati a casi lontani dalla loro zona, perché altri commissariati erano impegnati con altre problematiche? Era successo milioni di volte. E così viceversa per le altre questure, sia chiaro.
Il nuovo ispettore, mi si presentò quasi subito. Venne nella stanza, diede un’occhiata al cadavere e ai presenti. Poi esordì.
«Chi è che ha chiesto di Ducato?».
«Sono stato io» avanzai di un passo.
«Piacere ragazzo, ispettore Franco De Vistri, polizia di Torino».
«Molto piacere, Alex Fedele, detective».
«Tu saresti un detective? Non sarai uno di quelli del … PSD?».
«Esatto. Ha centrato».
Franco De Vistri era un uomo relativamente di bell’aspetto. Non doveva avere più di quarant’anni. Aveva liftati capelli neri e occhi profondi, celesti. Insomma, come detto, relativamente un bell’uomo.
L’espressione era da guascone. In gioventù era forse stato un rubacuori? Uno di quelli belli e possibili, che assaggiano ogni parte del magnifico corpo femminile? Non lo saprò mai.
«Bene ragazzo … ora vai via insieme alle tue amichette e … ».
«Non se ne parla nemmeno. Ho assistito al ritrovamento del corpo e voglio stare qui».
«Ci mancava anche il ragazzino che si impunta … ora siamo proprio a posto … d’accordo, tu e le tue amichette rimanete, ma appena combinate un guaio, andate fuori, è chiaro?».
«Limpido» dissi a muso duro. Sarà anche stato bello, ma di certo non era simpatico.
Franco De Vistri cominciò a guardarsi intorno. Leòn, con le mani giunte, sedeva su uno sgabello nero. Bianca e Barbara confabulavano qualcosa dietro di me, mentre il ragazzo biondo, di cui ancora ignoravo nome e cognome, piangeva ai piedi del cadavere.
«Ragazzo, alzati e dimmi nome e cognome» disse freddamente De Vistri.
Il ragazzo non lo ascoltò nemmeno. Il dolore era troppo forte e i singhiozzi facevano da colonna sonora ad uno spettacolo macabro e spezza cuore allo stesso tempo.
«Alzati ragazzo! Reagisci!». Franco De Vistri sollevò di peso il biondino e lo guardò dritto negli occhi. L’ispettore aveva dato segno di reazione al ragazzo. Voleva provare a spronarlo, voleva assolutamente vederlo reagire. Non conoscevo bene De Vistri, probabilmente mi ci sarebbe voluto del tempo immemore, ma l’impressione che dava dall’esterno è che fosse un uomo tutto d’un pezzo. Uno formatosi in marina per poi venire in polizia, anche se probabilmente non era così. Era certamente meno spartano di Ducato nei modi, ma aveva una forza interiore nettamente, se non superiore, quantomeno equiparata al suo superiore. Il ragazzo non incrociò lo sguardo dell’ispettore. Continuavano a scendergli dagli occhi frotte di lacrime amare. Il destino è amaro. Io non ho mai creduto al destino, ma a volte, le trame che è in grado di tessere a chi crede in esso, sono davvero tremende.
«Dimmi il tuo nome e cognome». Silvio Torchi era appena dietro Franco De Vistri e si accingeva a scrivere sul bloc notes quanti più dati potesse scrivere.
«M-mi chiamo Martino Legiati» riuscì a dire il biondino tra le lacrime.
«Quanti anni hai Martino?».
«Ne ho ventuno … ».
«Bene. Silvio, continua tu. Io vado a parlare con l’altro».
Silvio Torchi continuò a fare domande a Martino. Gli domandò se avesse un alibi e tutta quella serie di cose varie che si chiedono quando emergono determinate e altresì spiacevoli circostanze.
Intanto, l’ispettore De Vistri, parlava animatamente con Leòn e contemporaneamente parlava con gli uomini della scientifica. Quelli della scientifica avevano lasciato intatta la scena del crimine, come di consueto e avevano controllate ovunque. Dopo circa dieci minuti, Silvio Torchi e l’agente De Vistri, terminarono il loro interrogatorio in versione ridotta. Silvio che nel contempo che De Vistri parlasse con Leòn, aveva preso appunti, impugnò la penna, se la mise dietro l’orecchio e cominciò a leggere ciò che aveva scritto.
«In conclusione. Ricapitoliamo. La vittima è Marisa Beretta, aveva diciannove anni ed è deceduta per un violentissimo colpo alla testa, infertogli da qualcuno con un oggetto tagliente di cui non si conoscono né dimensioni, né formato. Poco prima del decesso, è stata colpita sull’occhio. Il ragazzo con i capelli biondi, è Martino Legiati, cugino della vittima. Ha affermato di essere andato per un attimo nello spogliatoio adiacente alla stanza per cambiarsi la maglietta. Quando è tornato, ha trovato il cadavere. L’altro sospettato è Leòn Bolivàr, maestro di danza. Ha affermato di essere accorso non appena udito i primi urli di Martino. Al momento del ritrovamento del corpo, si trovava nel corridoio esterno. Stando a quanto dice, usava la macchinetta del caffè».
«Mi faccia capire bene … » iniziò Martino ripresosi dallo shock. «Perché noi due saremmo i sospettati?».
«Le spiego signore» iniziò diplomaticamente De Vistri. «Quando è stato ritrovato il cadavere, era passato poco tempo dal decesso. Ne è una conferma, l’irrigidimento del corpo, che sta entrando in rigor mortis solo adesso. In quell’orario, compreso tra le diciotto e le diciotto e cinque, nella scuola c’eravate solo voi, più i ragazzi che hanno chiamato la polizia. I ragazzi però, si trovavano nella stanza adiacente a questa e nessuno si è allontanato. Un agente della scientifica, ha appurato che la porta comunicante tra le due salette di prove, cigola parecchio. Una eventuale entrata di uno dei ragazzi, sarebbe tranquillamente stata udita da chiunque. E’ la porta sul corridoio che è perfetta e si apre in modo silenzioso. La deduzione più logica, è che l’assassino abbia potuto seguire due diverse strade. La prima, quella dello spogliatoio, la seconda, quella del corridoio».
«E questo basta per incolparci? Mi meraviglio di voi!» disse indignato con accento ispanico Leòn.
«Purtroppo signor Bolivàr, è l’unica soluzione plausibile. Infatti, non ci sono segni di effrazione sulla porta o sulle finestre. Nessuno è entrato e nessuno è uscito. Il colpevole è tra voi!».
«Sono letteralmente indignato! Non rimarrò qui a farmi insultare! Non ho ucciso mia cugina». Martino si era alzato di scatto e, dirigendosi verso la porta, aveva trovato un muro formato da due agenti della scientifica che gli sbarravano l’uscita.
«E questo cosa significa?» chiese ancora più irritato.
«Che siete e siamo bloccati qui» interruppi. «Finché la polizia non avrà trovato l’omicida, nessuno di noi abbandonerà questa scuola, a meno che non ci lascino andare con una scorta». Dietro le mie spalle, sentivo Barbara uscire con frasi del tipo: “ma chi si crede di essere?”, oppure “si farà rimproverare”. Mi stava sempre più simpatica.
«Ma ragazzo, nessuno di noi è l’assassino … c’è sicuramente un’altra spiegazione» affermò Leòn.
«La trovi allora».
«Non sono un detective io!».
«Io lo sono invece … e posso dirle che è andata come ha detto l’agente Torchi».
Un silenzio a dir poco macabro scese sulla sala. Due sospettati, un cadavere e la sera che calava. Bianca venne a chiedermi se avessi capito qualcosa. Io le risposi di no. Era la verità. Non avevo ancora prove a sufficienza per capire cosa stesse succedendo.
«Una vespa!» urlò Martino a squarciagola dirigendosi verso la porta. «Sono allergico … devo andare via!» disse gridando.
«Stia calmo. Andiamo nell’altra stanza. Ho notato che non ci sono finestre». De Vistri aprì la porta e ci dirigemmo verso la sala dove poco prima stavano provando Bianca e Barbara.
Rimase solo la scientifica in quella stanza. Leòn si buttò su una di quelle sedie sulle quali ero stato seduto per tutto il pomeriggio. Torchi e De Vistri formulavano ipotesi a ritroso. Martino inviava sms con il cellulare, Barbara e Bianca si erano sedute in un angolo, mentre io me ne stavo appoggiato alla porta come un idiota, a pensare che qualche geniale intuizione mi piovesse dal cielo. Dovevo agire.
«Scusi Leòn … dov’è il bagno?».
«Prendi la via per gli spogliatoi. Una volta entrato, è la terza porticina a destra. Claro?».
«Claro que sì» risposi a tono in maniera ispanica.
«Tu parli spagnolo amigo?».
«No, poco, poco» dissi imbarazzato.
Entrai nella stanzetta adiacente alla nostra. Gli agenti della scientifica mi guardarono quasi storto. Forse, anzi, certamente, non volevano che mi occupassi di quel caso e che provassi nemmeno ad arrivare alla soluzione.
«Devo andare in bagno» dissi sfoderando un sorrisone.
Annuirono.
Credo che abbiate capito, che del bagno in quel momento, non avevo assolutamente bisogno. Mi serviva un pretesto per andare negli spogliatoi. Appoggiai il mio cellulare su un armadietto. Martino era stato lì poco prima del decesso. Notai sul pavimento, sotto una fessura bassissima degli armadietti, una maglietta nera. Forse la polizia non l’aveva notata per la fioca luce che illuminava quella stanza. La toccai. Era umida. Si era cambiato per davvero. Ma poteva davvero costituire un alibi?
Uscii dopo poco, e doppiando il sorriso di poco prima, entrai di nuovo nella sala dove c’erano tutti. Trovai ognuno nelle posizione nelle quali li avevo lasciati cinque minuti prima. Era come se il tempo si fosse congelato. Strano davvero.
Continuavo ad arrovellarmi a proposito del delitto. Chi poteva essere stato? Leòn o Martino? Chissà. La cosa certa è che in quel modo non l’avremmo mai scoperto. Ci voleva la scintilla. In quella serata, sembrava che la “scintilla” ci avesse abbandonato. Feci per inviare un messaggio a Flavio con il cellulare, ma lo avevo scordato nello spogliatoio. Rientrai ancora, con la scientifica che mi guardava storto, riandai negli spogliatoi, presi il cellulare, uscii e … per finire l’opera inciampai vicino ad alcuni fili collegati a stereo amplificatori. Risultato: Figura a dir poco oscena per imbarazzo causatomi, stereo con filo scollegato e una miriade di sguardi minacciosi che preannunciavano tempesta. Mi scusai almeno trenta volta in un minuto e ricollegai tutto alla presa di corrente. Ma ebbi un dubbio. Lo stereo, sulla cuffia davanti, aveva una sorta di rigonfiamento. La cuffia, era stata spostata, smontata in qualche modo. Non avevo idea di cosa fosse.
Dalla sala accanto intanto, udivo i lamenti di Barbara per aver dimenticato il portafoglio a casa. Era irritante, sbraitava come una ragazzina di dieci anni, non tollerava il fatto di trovarsi lì. Lamentava sete, fame e quant’altro e si era disperata visto che nemmeno l’ispettore De Vistri e l’agente Torchi avevano potuto prestargli denaro.
Stavo quasi parlando da solo per il nervoso. Ma poi … poi ebbi una illuminazione. Non finirò mai di ringraziare Barbara. Promisi a me stesso che non mi sarei mai più arrabbiato con lei e non mi sarei più irritato per le sue noiose lamentele … ma sapevo che non sarebbe stato possibile. Quella volta però, mi aveva spianato la via per incastrare il colpevole.
Entrai in stanza con tutta la naturalezza del mondo, quasi fischiettando il motivetto di “I’m singing in the rain” per la felicità di aver risolto il caso. Mi avvicinai a De Vistri e a Torchi. Bianca mi guardò negli occhi. I suoi incontrarono i miei ed ebbi la sensazione che capì cosa stesse per avvenire.
«Martino» dissi iniziando «nello spogliatoio hai dimenticato la maglietta».
«Vero. Ok, vado a riprenderla dopo, quando quelli della scientifica hanno finito».
«Ok». In tono innocente continuai rivolgendomi a Leòn «Sa Leòn, mi perdoni. Ma non ho potuto fare a meno di notare quel magnifico stereo nella sala accanto. Puoi dirmi il suo nome tecnico per favore? Vorrei comprarlo anch’io».
«Non sapevo ti interessassi di stereo» osservò Bianca. «Oh, ci sono molte cose che non conosci di me» dissi girandomi e strizzandole l’occhio. Fece una espressione distorta.
«Certo “amigo”. E’ un bel modello, si vede che sei esperto. Anche a me piacciono tanto. Quello è uno Yamaha Subwoofer modello yst sw 015 70 W di potenza e a 50 hertz. E’ usato anche per l’Home Theatre, ma sa riprodurre davvero bene le musiche piene di vita del tango».
«Senza dubbio. Be’ grazie».
«Di nulla … ma non dovresti prendere appunti?» mi chiese sempre sorridendomi e lisciandosi la barbetta da capra.
«No, tranquillo. Si dà il caso che abbia un’ottima memoria. Lei invece ce l’ha corta».
«C-cosa?» disse incredulo.
«Su, getti la maschera. L’abbiamo capito tutti che lei è l’assassino di Marisa» dissi sfidandolo con lo sguardo.

CAPITOLO IV – Pista da ballo in amore

«Io l’assassino di Marisa? Ma stai delirando ragazzino?». Leòn era super adirato. Le parole ispaniche erano ormai un triste miscuglio di suoni.
Tutti mi fissavano. Franco De Vistri si avvicinò immediatamente, mi mise le mani sulle spalle e mi guardò fisso negli occhi.
«Ecco perché non volevo farti stare qui ragazzino, vai fuori!» disse spintonandomi.
«Stia calmo ispettore. Non vuole sapere come ha fatto?».
«Ma è assurdo. Stai inventando tutto! Non siamo ancora arrivati ad una conclusione».
«Proporrei di andare di là. Seguitemi per favore». Con la sfrontatezza di un veterano, aprii la porta che comunicava con l’altra sala prove. Barbara e Bianca mi seguirono. Poco dopo vennero tutti gli altri.
«Lei, Leòn, è stato un gran furbacchione!» dissi esordendo sedendomi a terra in un angolo della stanza. Tutti mi guardavano increduli.
«Ha colpito lei la cugina di questo ragazzo» dissi indicando Martino. «Lei ha occultato le prove e soprattutto è stato lei a crearsi un alibi che non sta in piedi!».
Rise di gusto.
«Alex, il maestro è innocente» disse Bianca.
«Il tuo ragazzo sta delirando o sbaglio?» la frecciatina pungente di Barbara.
«Non è il mio ragazzo!» disse sbottando Bianca. Arrossì in modo veemente e cominciò a farfugliare qualcosa, tentando di calmarsi.
«Ascoltate» dissi richiamando l’attenzione. «Leòn, ha approfittato di quando Martino è andato negli spogliatoi. E’ entrato dunque nella stanza, ha ballato con la giovane e l’ha colpita!».
«Hai detto che “ha ballato”?» domandò Silvio.
«Esattamente. Ha ballato. Il tango è un ballo nel quale i due ballerini devono stare praticamente attaccati in alcuni passi. Non gli sarà stato difficile colpirla lì. Nessuno ha udito le urla, quindi deve averla colpita così rapidamente e da vicino, da non darle nemmeno il tempo di urlare».
Le pupille di Leòn si dilatarono. Poi parve riacquistare la calma. «Hai prove a sostegno di questo ragazzino?».
«No, ma mi dica, dov’era al momento del delitto?».
«Lo ha già detto alla polizia» disse De Vistri «era alla macchinetta».
«Davvero? Eppure quando poco fa Barbara ti ha chiesto dei soldi da prestargli,hai aperto il tuo portafoglio e hai fatto vedere che era completamente vuoto. Puoi confermare. Non è vero Barbara?».
«C-certo. Ha ragione Alex».
«Signorina, cerchi di essere precisa» incitò De Vistri.
«Ecco, ho dimenticato i soldi a casa e ho chiesto al maestro di prestarmeli, ma lui ha detto di non averli e come prova mi ha mostrato il portafoglio».
«Quindi» dissi slacciandomi allacciandomi le scarpe contro il muro «a meno che il maestro non conosca un modo per far apparire i soldi dal nulla … la cosa si fa sospetta».
«Perché ha mentito?» chiese Torchi a Leòn.
«Non ho mentito». Aveva ancora la faccia tosta di fare il bugiardo. E’ incredibile certa gente.
«Davvero?» interruppi ancora «Sono sicuro che se faremo svuotare la cassa interna della macchinetta, allora troveremo la monetina con le sue impronte. La scientifica ci metterà un attimo a identificarla, mi creda».
Cominciava a sudare. La maglietta di cotone, si accostava sempre più al respiro per quanto fosse bagnata e si fondeva in un tutt’uno col corpo.
«Sapete … ho voglia di un po’ di musica. Così non mi piace». Lo so, sono terribile. Quando incappo in deduzioni e criminali spietati, li incastro con i metodi più strambi.
«E’ la mia scuola. Decido io se puoi mettere la musica o meno, maleducato».
«Ah davvero? Non avrà mica qualcosa da nascondere?».
«Cosa vuoi dire?».
«Be’ nulla … ma non ci sarà mica un qualcosa nascosto nella cuffia dello stereo? Un qualcosa che faccia rimbombare il tutto e penalizzi la qualità del suo amato impianto?».
Il suo viso era sbiancato, gli occhi erano avidi di emozioni positive e la bocca era tremante. Silvio Torchi smontò la cassa dello stereo. Vi trovarono un spillo di metallo davvero spesso. Molto arrugginito e con degli evidenti segni rossastri sulla punta.
«Ma cosa abbiamo qui?» dissi sbattendo le mani. «Uno spillo. Un’arma perfetta per un delitto, non crede ispettore?». De Vistri continuava a prestare attenzione all’arma e non diceva una parola.
«Veda di esaminarlo agente» dissi rivolgendomi alla scientifica. «Magari ci troviamo una sorpresa» dissi ironico.
«Basta così» Leòn Bolivàr crollò al suolo con le mani attorno alla testa. Era disperato.
«Ho ucciso io Marisa. Lo ammetto».
Martino lo colpì con un calcio in pieno volto. Nessuno fu tanto lesto da impedirglielo. Leòn perse un dente, uno davanti.
«Mi dispiace Martino» disse con la bocca piena di sangue. «Ma non potevo più aspettare».
«Perché lo ha fatto?» chiese De Vistri incredulo. Bianca e Barbara avevano gli occhi lucidi.
«Avevo avuto una relazione con Marisa. Ma da tempo mi diceva di non voler stare più con me. Oggi abbiamo cominciato a ballare. Io avevo quello spillo in tasca. Lo avevo trovato a terra sulle scale, per caso e lo avevo raccolto per fare pulizia. Mi ha spinto e mi ha detto che ero un mezz’uomo. Non ci ho visto più e l’ho uccisa. Mi pento di quello che ho fatto» confessò dolorante tenendosi la mano nel sangue che gli sgorgava dalle gengive.
«Il pentimento è una buona cosa quando a sentirlo è un assassino, Leòn. Ma il suo pentimento non ridarà la vita a nessuno» aggiunsi.
Salutammo la polizia. De Vistri mi diede una violentissima pacca di stima sulla spalla destra. Sulla via del ritorno a casa, Barbara mi chiese:
«Quando hai capito che era stato Leòn?».
«Quando ho ripensato alla tua frase in cui gli chiedevi soldi».
«Capisco». Poi continuò «In gamba il tuo ragazzo, Bianca!».
«Lo vuoi capire che non è il mio ragazzo?!». L’urlo si sentì fino a Tripoli. Che ci volete fare? Sono donne, non è vero?

ANTICIPAZIONE EPISODIO 16: Una persona malata di cuore deve stare lontana da ogni agitazione. Non si può farla arrabbiare o peggio, farla convivere con le proprie fobie. Be', non ci crederete, ma è quello che succede ad Alex Fedele, quando, di fronte ad un caso di infarto, arriva alla conclusione che nell'infarto c'è una causale esterna. Ma che cosa sarà? ALEX FEDELE EPISODIO 16: RAGNI E FOBIE! Solo qui, a partire dal 3 Dicembre 2011! NON PERDETELO PER NESSUNA RAGIONE!!!

sabato 19 novembre 2011

Alex Fedele: Doppio Destino(stagione 1; episodio 14) 2°parte


DOPPIO DESTINO (2° parte)

PROLOGO: Dove può arrivare la sete di Giustizia? All'ospedale per Alex Fedele, detective troppo giusto e troppo poco menefreghista. Chi scegli tra droga e famiglia? Famiglia? Per Franco Turbotti, è l'esatto contrario.
Cos’è successo nella prima parte: Franco Turbotti, uomo di mezza età, si presenta all’agenzia di Flavio per chiedere al detective di indagare sull’improvvisa sparizione di suo figlio di sei anni. Sullo zainetto del bimbo, viene trovata una macchia, che analizzata porta ad una salsa che si prepara solo nel locale/fast food “Bella Vita”. Dopo aver confrontato una nuova macchia, procurata da Flavio volontariamente, con quella sullo zaino, si attesta definitivamente che le due macchie sono appartenenti a due composti uguali. Intanto, mio fratello Andrea, dice di conoscere Giosuè, il bimbo che stiamo cercando. Bianca, si accorge che Turbotti ha dimenticato il portafoglio, ma quando lo apriamo, cade una foto che ritrae l’uomo in compagnia di un noto boss della droga. Cosa nasconde Turbotti …e perché?



CAPITOLO IV – Parole importanti

La mattina dopo, c’era un clima di enorme pesantezza e oserei dire, di senso di dovere. Nel senso, che non si erano ancora allietate definitivamente le ferite tra me e Flavio e in più avevamo una vittima che poteva tramutarsi in carnefice senza che noi ce ne accorgessimo. Entrai nello studio a piccoli passi e vidi Flavio letteralmente provato in viso. Era stato sveglio tutta la notte per controllare i precedenti di Verani e per vedere se Turbotti c’entrasse qualcosa.
«Allora trovato niente?» gli domandai sedendomi sul divano.
«Purtroppo no».
«Poi tu sei stato tutta la notte a cercare …  potevi aspettare stamattina».
«E quindi allungare i tempi? Impara ragazzo, devi sempre anticipare i tempi».
«Cosa intendi fare ora?».
«Chiamare Turbotti e dirgli della storia della foto. Dopotutto stiamo cercando suo figlio».
«Già bravo, e se poi la prende male?».
«In che senso la prende male?».
«Nel senso che non sappiamo come potrebbe prenderla. C’è in ballo la vita di un bambino, ma ricordiamoci che Turbotti ha una personalità abbastanza fragile».
«E allora come pensi di agire?».
«Io lo pedinerei per un po’. Poi lo avvicinerei di persona».
«Sciocchezze! Hai visto troppi film polizieschi. Ascolta, si fa come dico io!» disse a muso duro. Si alzò dalla scrivania, si toccò i capelli e aggiunse: «Non prima di aver fatto una doccia calda».
Circa venti minuti dopo, Flavio rientrava in ufficio, col suo cellulare in mano e già all’orecchio.
«Pensaci, forse … ».
«Sta zitto» e mi placò immediatamente con uno dei suoi sguardi di fuoco. Se fossi stato un pezzo di legno sarei bruciato.
Attendemmo qualche secondo, poi dall’altro capo del telefono, si udì una voce. Era Turbotti. Chiesi a Flavio di mettere il vivavoce.
«Pronto signor Turbotti, sono il detective Moggelli. Volevo informarla di una cosa».
«Ha notizie del mio piccolo? Oh, detective, sapevo che dovevo rivolgermi a lei!».
«Si calmi signor Turbotti. La chiamo per dirle che ha dimenticato il portafoglio qui in ufficio».
«Ah, ecco perché non riuscivo più a trovarlo».
«Già. A proposito di questo, vorrei chiederle una cosa per facilitare le indagini. Lei conosce un certo Rocco Verani?».
«Rocco Verani? Non mi pare, perché?». Viva la sincerità ragazzi.
«Perché io ho qui di fronte a me una sua fotografia in compagnia di Verani. Signor Turbotti, non menta, altrimenti non troveremo mai suo figlio!» urlò Flavio.
Per tutta risposta, Franco Turbotti attaccò il telefono e alle successive quindici chiamate di Flavio, il telefono risultò essere staccato. Era fuggito.
«Hai visto cos’hai combinato?» gli rinfacciai.
«Che cosa? Io ho fatto la cosa migliore pivello!».
«La cosa migliore era rintracciarlo di persona. Gli hai dato tempo di scappare, zuccone!».
«Zuccone a me? Parli tu che hai solo fortuna? Io vengo da quindici anni di carriera poliziesca!».
«Ah davvero? Con tutto il rispetto, ma non sembra proprio».
«Cosa vorresti insinuare?» urlò sbattendo violentemente un pugno sulla scrivania.
«Che non usi il cervello!».
«Ok» disse calmandosi all’improvviso e allargando le mani. «D’ora in poi faremo a modo tuo».
«Cosa vuoi dire?».
«Ti affido il comando delle operazioni. Ma se qualcosa va storto, sarai tu a pagare!».
«Perfetto!» dissi sfidandolo con lo sguardo. Se avevo pensato di riappacificare i rapporti, allora non stavo avendo successo.
Si allontanò da me e si sedette alla scrivania con le mani giunte. «Allora ragazzino, qual è la prossima mossa?». Non capirò mai se quello fu un raptus di improvvisa follia umana che aveva colpito Flavio, oppure un modo per insegnarmi il mestiere.
Intanto entrò Bianca e ci vide pensierosi.
«Avete litigato non è vero?» domandò senza avere risposta.
«Tu Flavio, procurati informazioni sul passato di Verani e di Turbotti. Io e Bianca andremo da “Bella Vita” a mettere sotto torchio il proprietario.
«Così sarebbe questa la tua mossa vincente? Dividerci i compiti? Bah …».
«Per me puoi anche fare come vuoi» dissi appoggiandomi con entrambe le mani alla scrivania. «Ma tutti gli errori fatti finora, sono provenuti da te».
Il clima era ancora più pesante e Bianca, temendo una rissa tra detective, mi trascinò all’indietro per un braccio, sussurrandomi: «Cosa diavolo stai facendo? Ti ha dato di volta il cervello? Io che dovrei fare?».
«Tu segui me e basta, d’accordo?» le dissi sorridendo.
«Ok» affermò con lo sguardo stranito.
 Alle dieci e quarantacinque, entrammo nel locale “Bella Vita”. Poco prima di aprire la porta, avevo detto a Bianca di seguirmi e di non farsi coinvolgere in nulla. Portammo con noi anche Andrea. Se avesse negato, il bambino lo avrebbe disarcionato dalle sue bugie.
«Buongiorno» sussurrai esibendo il mio miglior sorriso.
«Buongiorno a lei, desidera un tavolo?» chiese il solito cameriere super-efficiente.
«No, grazie, vorrei parlare con il proprietario».
«Al momento è occupato. Posso riferirgli qualcosa?».
«No, grazie, è una questione che deve essere risolta da soli».
«Posso sapere con chi ho il piacere di parlare?».
«Le dica che è passato un amico».
«D’accordo».
Ok, lo ammetto … in quella conversazione fui un po’ “Pulp Fiction”, ma d’altronde, se non facevo così,dov’era il bello delle indagini?
«Scusa, ma cosa devi dirgli?» mi domandò candidamente Bianca.
«Il proprietario di questo posto sa quasi sicuramente qualcosa sul bambino scomparso. Tenterò di farlo parlare».
«Capisco. E perché ti sei portato dietro me e Andrea?».
«Tu mi servi nel caso in cui tentasse di fuggire. Tieni il telefono a portata di mano per dare un colpo di telefono alla polizia, nel caso io fossi occupato ad inseguirlo. Il bambino deve smascherarlo nel caso negasse tutto».
«Ok … ma non dire mai più “mi servi” riferendoti a me» aggiunse con un po’ di sdegno.
Quindici minuti e qualche secondo dopo, uscì dalla cucina principale un uomo sul metro e ottanta, con lunghi capelli biondi, vestito con una maglietta e pantaloni bianchi ed un grembiule. Era giovane e non doveva avere più di trent’anni.
«Salve, sono Carlo Nesci, proprietario di “Bella Vita”, il cameriere mi ha detto che volevate parlare con me».
«Esatto».
«Non sarà a proposito di qualche piatto che non vi ha soddisfatto? In tal caso vi porgo le mie più umili scuse».
«No, no … » dissi imbarazzato. Non sembrava cattivo.
«E allora perché siete qui? Sbrigatevi, ho poco tempo».
«Ok, sarò diretto» affermai. «Lei conosce Giosuè Turbotti? E’ un bambino di circa sei anni, capelli biondi, occhiali, statura simile a questo bambino» dissi indicando Andrea.
«Mai sentito nominare».
«Ne è proprio sicuro?».
«Sì … e ora se volete scusarmi, devo tornare al lavoro e … ».
«Pazienti un attimo per favore … quindi lei non ha mai, dico mai, visto questo bambino?» dissi mostrandogli la foto.
«No».
«Andrea, prego» dissi facendogli un cenno con la mano.
«Bugiardo! Tu parlavi sempre con Giosuè al ritorno da scuola!».
Il suo sguardo impallidì, le rughe intorno agli occhi, nonostante la giovanissima età, si dilatarono.
«Allora, signor Nesci. Vogliamo vuotare il sacco?». La gente ci guardava.
«E va bene, venite nel mio studio» ultimò la conversazione. Aveva assunto un’aria rassegnata che dipingeva esattamente il suo stato d’animo.
Attraversammo la cucina e imboccammo un piccolo corridoio con tre porte. Carlo Nesci ci aprì la seconda. L’ufficio era abbastanza modesto. Aveva una scrivania, un pc ed una sedia comune da ufficio, di colore bianco. Davanti alla scrivania, due sedie di plastica, di quelle che si usano al mare per sedersi, quelle di colore verde.
«Ok. Conosco il bambino» cominciò Nesci.
«Ci risulta che sia stato rapito» gli dissi a muso duro.
«Cosa vuole sapere?».
«Lei ha visto qualcosa? Ma aspetti, prima di rispondere, pensi a cosa possa accadere se lei ipoteticamente dicesse una balla. Lo scoprirei comunque e sarebbe arrestato con l’accusa di “omertà finalizzata alla complicità criminale”. Ci pensi, signor Nesci. E’ in ballo la vita del piccolo Giosuè». Sembravo Humphrey Bogart.
Queste mie parole lo colpirono. Abbassò lo sguardo ed un velo di lacrime gli attraversò il viso. Bianca sospirò in segno di compassione, Andrea aveva perso la sua espressione combattiva.
«Ok. L’altra mattina l’ho visto salire su un auto di colore nera».
«Sa dirmi che modello era?» dissi estraendo il block notes.
«Sì. Era una Toyota Auris».
«Ha per caso letto la targa?» chiesi appoggiandomi la mano al mento.
«No, sfortunatamente non ci ho pensato».
«Lei ha assistito a tutta la scena? Cioè voglio dire, saprebbe descrivermi la dinamica dei fatti?».
L’uomo si guardò intorno, quasi per paura che i muri avrebbero potuto recepire il tutto. «Era circa l’una e trenta, quando sono uscito dal locale per prendere una boccata d’aria fresca. Ad un tratto,vedo un uomo abbastanza possente avvicinarsi a Giosuè. Lo attira, perché il bambino corre verso di lui».
«Ha sentito cosa gli ha detto?».
«No, erano lontani almeno trenta metri».
«Lo ha attirato e poi?».
«Poi lo ha fatto salire in auto».
«Non ha visto più nulla?».
«No, mi spiace».
«Mi tolga una curiosità» dissi afferrando e tenendo tra le mani una sorta di piccolo soprammobile in legno rassomigliante ad una divinità buddista. «Perché ha detto che non sapeva nulla?».
«In realtà avevo paura che fosse della banda».
«Cosa? Di quale banda?».
«Insieme all’uomo che ha attirato il bambino, ce n’erano altri due, così ho pensato che ci fosse la criminalità organizzata in mezzo … ».
«Capisco. La ringrazio davvero. Ricordi di non dire a nessuno che siamo stati qui e che abbiamo parlato di questo».
«Ma cosa dico ai miei impiegati? Chi è lei?» disse come risvegliandosi da uno stato d’incoscienza.
«Può dirle che eravamo rappresentati di un’azienda che volevano proporgli uno stock di qualche prodotto e che lei ha rifiutato» intervenne Bianca. «In quanto a me» interruppi «Mi chiamo Alex Fedele, detective privato».
«Ok» affermò stranito.
Usciti dal locale, feci i miei complimenti a Bianca. Pur restando in silenzio, aveva contribuito quantomeno a creare la scusa sul nostro arrivo.
Lei mi sorrise.

CAPITOLO V – Il tempo dell’azione

Ritornati a casa, mi recai nell’ufficio di Flavio e lo trovai già lì, con un sigaro fumante in bocca ad attendere sviluppi.
«Allora, hai scoperto qualcosa?» gli chiesi aprendo una finestra.
«Altroché. Sono andato in periferia con l’auto e ho preso qualche informazione da un mio vecchio amico che stava in polizia».
«Cosa ti ha detto?».
«Gli ho descritto la dinamica, gli ho raccontato di Verani, e ha detto che da qualche tempo ha uno scagnozzo di nome Dimitri».
«Dimitri?».
«Sì, è un russo che ha portato in Italia da circa due mesi».
«E cos’altro ti ha detto?»
«Più nulla purtroppo. Mi ha dato informazioni sulle operazioni passate di Rocco, ma erano cose che sapevo già». Buttò il sigaro. «E a te com’è andata?».
«Abbastanza bene. Il proprietario del locale dapprima ha negato, poi invece ha avuto il buonsenso di ammettere che conosceva il bambino. Ha detto che lo ha visto salire in una Toyota Auris di colore nero insieme ad altri tre uomini, che è stato attirato da qualcosa».
«La cosa più avvilente è che non abbiamo la più che ben minima idea di dove cercarlo».
«Già. Non ha lasciato nessun indizio. Ho controllato anche la strada, mentre camminavamo a piedi, ma non c’era nulla».
La sera si stava affacciando su Torino. In quei due giorni, io e Flavio avevamo mangiato e dormito pochissimo. Entrambi ci davamo da fare per ritrovare quel bambino e per sfuggire alle nostre intemperanze. Il caso dell’anniversario non si era ancora affacciato alla realtà passata e questo lo sapevamo tutti e due. Non era ancora il momento di dire “è acqua passata”, anche se entrambi probabilmente lo avremmo voluto fortemente. Flavio prese la fotografia di Turbotti con Verani e se la mise di fronte agli occhi.
«Che poi questi spacciatori o questi assassini, si scelgono sempre dei posti sperduti dove andare, chissà questo dove si sarà nascosto». La fotografia ritraeva Turbotti e Verani abbracciati, quasi in modo fraterno, con sullo sfondo un cantiere edile presumibilmente rovinato e illuminato solo dalla fiacca luce dei lampioni circostanti. Ero di spalle alla scrivania, mi girai di scatto e incrociai lo sguardo freddo e distaccato di Flavio, che non appena mi guardò negli occhi si illuminò in modo decisamente inusuale.
«Il cantiere!» dicemmo contemporaneamente. Eravamo stati stupidi a non pensarci prima. Non è detto che Giosuè fosse effettivamente rinchiuso in quel cantiere, ma probabilmente era un inizio e non controllare sarebbe risultato solo errato.
Ok, eravamo stati due zucconi epocali, ma le problematiche delle ultime vicende ci avevano fatto dimenticare tutto il dimenticabile.
«Aspetta un attimo, ci sono centinaia di cantieri edili a Torino …  come facciamo a sapere in quale si trovano» mi chiese Flavio.
Presi la fotografia in mano e la osservai. Non c’erano segni che potessero identificare il posto, ma ad un tratto scorsi su un tubo che spuntava alle spalle dei soggetti, il logo della “CS Edil”, edilizia che aveva chiuso da pochissimo per insufficienza finanziaria.
«Questo è il logo della “CS Edil”» sussurrai.
«Cavoli, l’unico cantiere aperto da quell’azienda edilizia si trova in periferia a circa sette isolati dal locale nel quale sei andato!».
«Ma non si può nascondere un bambino in un cantiere per due giorni … qualcuno ne avrebbe sentito i lamenti» osservai.
«Non mi dirai che … ».
«Esatto, la casa!». La casa a cui alludevo, era una casa solitaria che pareva disabitata da anni e che era nota a Torino come “La casa degli spettri”. I muratori del cantiere avevano detto molte volte che da quella vecchia casa abbandonata avevano udito lamenti strazianti. Io credo solo a ciò che è possibile spiegare con raziocinio. Mai creduto ai fantasmi, né alle leggende e credo neanche Flavio, vista la reazione.
Corremmo fuori. Per la cronaca, uscimmo completamente non in condizione. Flavio aveva una vecchissima camicia bianca, interamente sbottonata, con delle macchie di unto sopra. Dal canto mio, non me la cavavo meglio. La mia maglietta era strappata, macchiata ed i miei jeans, completamente ricoperti di sudiciume. Avevamo fatto la doccia, non fraintendetemi, ma non c’era stato tempo di vestirsi e cambiarsi e avevamo finito per indossare gli stessi vestiti.
Arrivammo in Via Ferrati 31, circa venti minuti dopo. Avevamo spinto parecchio sull’acceleratore e per questo alcuni passanti ci avevano rivolto delle paroline non proprio gentili.
Tuttavia, parcheggiammo la macchina dietro l’angolo. La notte era calata. Avevamo contattato la polizia e ci avevano mandato Novato con due altri agenti in borghese, alla guida di una Station Wagon. Ci avevano seguito per tre isolati, poi per non destare sospetti avevano preso la strada più lunga ed erano arrivati sul posto circa dieci minuti dopo di noi.
La casa aveva tutte le luci spente, nessuno sembrava popolarla, ma se le nostre deduzioni erano esatte, sarebbe stata roba di poco tempo.
Alle 21 e 42, una luce nella casa trovò il pieno bagliore. Era una luce fioca, tenue, accennata appena e non sembrava adiacente ad una casa nella quale si conducesse una vita agiata. Forse era solo il covo di Verani e approfittavano della voce che fosse infestata, solo ed esclusivamente per tenere lontani i curiosi. Non mi sarei stupito se quelle urla provenissero dagli abitanti della banda di Verani.
Flavio si scambiò un cenno di intesa con Novato dallo specchietto retrovisore. Uscì dall’auto in modo repentino e veloce.
«Dove vai?» gli dissi affannato.
«A comprare un hot dog … non vedi che si sono accese le luci? Mi pare ovvio che io vada a controllare».
«Vengo anch’io» dissi slacciandomi la cintura di sicurezza.
«No. Tu rimani di guardia qui, nel caso dovessero avvicinarsi delle forze aggiunte di Verani» disse bisbigliando.
Intanto Novato ci aveva raggiunti affianco alla macchina e aveva caricato a dovere la sua Sig Sauer P220. Stessa cosa avevano fatto i due agenti in borghese. Non li avevo mai visti, ma dovevano avere esperienza da  vendere. Uno di loro aveva le tempie imbiancate, mentre l’altro portava occhiali da sole, nonostante del sole non ci fosse traccia essendo in serata, e aveva una maglietta che gli marcava i muscoli dei pettorali. Sembrava più un bambolotto che un poliziotto.
«Che cosa? Non se ne parla nemmeno!» tentai di protestare vivamente.
«Dannazione! Ascolta, se entro quindici minuti non ci vedi, avvisa il commissariato, ma non uscire dall’auto, è chiaro?» mi disse Flavio.
Acconsentii controvoglia.
Passarono cinque minuti prima che mi stufassi e decidessi di andare a controllare. Lo so, sono idiota. Mi acquattai all’angolo e lo aggirai senza preoccupazione. La casa era ancora parzialmente illuminata. Di Flavio, Novato e degli altri due agenti non vedevo nessuna traccia.
Poi un urlo. Il lampione che spadroneggiava nel giardinetto dell’abitazione delineò una sagoma cadere dall’alto di un balconcino in giù. Potevo scommetterci la vita, era Flavio!
Era caduto da un secondo piano e non saprei dire che tipo di urto avesse subìto. Inoltre ero disarmato. Ok, non avevo il porto d’armi, ma avrei saputo certamente centrare il bersaglio. Al PSD avevano fatto sviluppare in noi una conoscenza delle armi. Sapevamo conoscerle bene, conoscevamo le loro caratteristiche e per quanto mi riguarda, sapevo anche sparare con alcune di esse. Merito di mio fratello Stefano. E’ stato sempre fissato con le armi da fuoco. Così mi aveva insegnato qualcosina.
Mi avvicinai strisciando a terra per non farmi vedere. I gomiti erano sudici e ustionati dallo sfregamento a terra delle mie braccia. Lo chiamai bisbigliando.
«Flavio».
«Ragazzo … » sussurrò ansimando.
«Cavoli, ti sei fatto male?».
«Solo qualche livido» disse nella penombra.
«Dammi la pistola» gli bisbigliai.
«Cosa vuoi fare?».
«Dammi la pistola, cavolo!».
Me la diede controvoglia. La afferrai e mi trascinai verso i piedi della casa. Udì una voce forte, graffiante e maschile dire la propria dal balcone. Diceva parole confuse.
«Dove sono gli agenti?» gli dissi.
«Novato è ferito ad una spalla. Gli altri due non lo so». Parlava in modo stanco. Doveva aver fatto un bel volo ed era evidentemente confuso.
Mi arrampicai sugli appigli di pietra che il balconcino offriva e caricai la pistola. Poco prima avevo chiamato Ducato e mi aveva assicurato che avrebbe mandato una pattuglia immediatamente. Novato era ferito però, due agenti erano spariti, Flavio era caduto da un’altezza di almeno tre metri e aveva riportato sicuramente qualche lesione.
A complicare il tutto, c’era un bambino che sicuramente rischiava la vita. Non ci avrebbero messo molto a farlo fuori.
Arrivai pian piano sul balconcino. Attraverso il vetro della finestra notai che erano tutti girati di spalle, e guardavano il bambino, Giosuè, che aveva le mani e i piedi legati e uno spesso nastro adesivo a bloccargli la bocca. Era uno spettacolo tremendo.
Loro erano tre però e io solo uno. Tenevano puntata una pistola contro il bambino. Non fu saggio da parte mia, ma fui impulsivo. Sparai due colpi verso il vetro della finestra che andò ovviamente in fratumi  e mi accostai sulla parte destra del balcone. Mi nascosi per evitare di essere colpito.
Un membro della banda venne fuori a controllare. Probabilmente pensava che il colpo provenisse da lontano, perché rimase una decina di secondi immobile di fronte alla ringhiera del balcone. Questo mi permise di scaraventarlo giù. Nell’immediato momento in cui stavano per spararmi, la polizia arrivò a sirene spiegate.
«Dannazione! La sirena della polizia!» urlò Rocco Verani. Cominciò a sparare su di me, ma fortunatamente sbagliò mira per la tensione. Il bambino fu lasciato lì. Loro fuggirono come dei vigliacchi, ma la polizia fece irruzione dal mio stesso balcone e non ci fu più nulla da fare. Rocco Verani e due dei suoi uomini erano stati arrestati. Un boss della droga che era rincorso da tutta la polizia italiana da un totale di due anni. Poco dopo ritrovammo Novato. Perdeva molto sangue alla spalla sinistra. Si toccava la ferita, e fu portato col 118. Per quanto riguarda i due agenti in borghese, furono trovati in casa storditi. Uno di loro perdeva sangue dal naso. Aveva subìto diversi pugni. Per quanto riguarda Flavio, be’ … rifiutò il trasporto in ospedale, nonostante le riluttanze di tutti. Diceva di avere dolore alla schiena, ma di essere rimasto illeso. Non sembrava ferito da alcun lato effettivamente. Per quanto riguarda il bambino, era illeso. Aveva solo qualche graffio, nulla più. Tutto finito?

CAPITOLO VI – Non accontentarsi mai!

Mio padre diceva una cosa. Per avere successo nella vita, non bisogna accontentarsi .. mai. Ed è per questo che quella sera avevo un dissapore strano, un retrogusto amaro in bocca. Ero andato a letto a mezzanotte e mezza. Guardai la sveglia. Recitava ore 2:45. Notte fonda.
Poche ore prima, avevamo messo al fresco uno degli spacciatori italiani tra i più ricercati degli ultimi due anni. Niente male. Ma rimaneva un dubbio. Dov’era Turbotti? Non lo sentivamo da quando, quella mattina Flavio gli aveva sbattuto telefonicamente in faccia la verità. Il bambino era stato affidato, momentaneamente si intende, alle cure del commissariato. Avrebbe passato un paio di giorni lì, poi se magari fosse stato ritrovato il genitore, la sua vita sarebbe ricominciata  più o meno come prima. Nel caso in cui Turbotti si fosse rivelato una sorta di grande ingrato, un cafone matricolato, un immane perbenista, contornato da cumuli e cumuli di menzogne, be’, allora per il bambino, già orfano di madre, ci sarebbe stato poco o nulla da fare; Sarebbe stato riformatorio, collegio, o … chiamatelo come vi pare. Ma non potevo permetterlo. La mia coscienza mi diceva di farlo e quando hai la coscienza rompiscatole, è difficile dissuaderti dal fare una determinata cosa. Alcuni anni prima, avevo perso mio padre per incidente stradale. Lo avevo visto per l’ultima volta una sera di febbraio. Uscì di casa e non lo vidi mai più. Mi dissero che era immobile a letto, che le sue condizioni fossero apparse disperate fin dai primi secondi successivi all’impatto. Non avevamo fatto in tempo nemmeno a vederlo. Proprio per questo, per questa serie di ragioni, non potevo permettere assolutamente che quel bambino rimanesse senza padre. Ma soprattutto non potevo permettere che un padre se ne fregasse in quel modo di suo figlio. Non so cosa avrei fatto, se a quella mia tenera età, fossi rimasto anche senza madre. Probabilmente sarei cresciuto in uno di quei istituti in cui ti aprono le porte della serenità e poi successivamente ti trattano come se tu appartenessi ad una classe sociale da discriminare ingiustamente. Avete presente i collegi? Non sono mai come sembrano. Il bambino ha bisogno di una educazione formativa familiare, non di un gruppo di suore che lo tratti in modo zerbino. Ma attenzione, può accadere, in casi più o meno rari, di incontrare persone all’interno del collegio che riescano a sostituire la figura di una madre, di un padre. Allora devi tenertele strette.
Franco Turbotti era quel genere di persona che scaturiva in me una rabbia senza paragoni. Non tollererò mai l’omicidio, o alcun genere di reato, ma una cosa che mi da rabbia in modo inverosimile, è certamente il modo in cui certi genitori trattano i figli. Quel grandissimo idiota si era rivolto a Flavio, aveva partecipato attivamente alle operazioni per il tentato ritrovamento di suo figlio, poi, quando avevamo impugnato la cornetta e gli avevamo sbattuto in faccia cose relativamente di secondo piano, come una sua papabile alleanza ad un boss della droga di espansione nazionale, se n’era andato, fregandosene di ogni qualsivoglia figlio. Alla faccia della coerenza. In pratica, se vogliamo semplificare, è come se tra salvaguardare il suo mondo sporco e condurre una vita normale con suo figlio piccolo, provando magari a ripartire, avesse scelto la prima.
Alle tre e mezza, ero in piedi, davanti al cantiere della “CS Edil”. Avevo in mano la fotografia che Turbotti aveva lasciato nel suo portafoglio. Sulla faccia, un’espressione da film western. Dico davvero, una sorta di Buffalo Bill rivisitato in chiave moderna.
Mi inoltrai nello spazio delimitato dalla sabbia. Non ero armato, fui stupido quella sera, ma dov’era la novità?  Poi mi sentii spintonare, un calcio, un pugno, spintoni. Cercavo di dimenarmi in mezzo a tante mani che non avevano altro obiettivo che quello di colpirmi violentemente fino a farmi perdere i sensi. Mi ritrovai a terra, ma ricordo che colpii uno dei bastardi con un pugno allo stomaco. Poi chiusi gli occhi, vidi nero. Persi i sensi, non avevo più lucidità, e per un attimo prima di chiudere gli occhi, pensai che sarebbe stata la volta buona che fossi andato a trovare mio padre.
La mattina dopo, all’apertura dei miei occhi, la prima cosa che vidi fu lo sguardo concitato e affannato di Bianca. Avevo lo sguardo appannato, molto appannato e non mettevo molto a fuoco le cose, ma mi pareva che fossi in una camera d’ospedale. Una vuota stanza bianca si apriva davanti alle mie pupille, un profonda e chiara luce gialla, mi accecava gli occhi.
Nel mio risveglio, sentii la voce di Flavio e Sergio, che urlavano nel corridoio, chiamando:
«Dottore, si è svegliato! Accorra!».
Nel contempo, avevo riacquistato parzialmente la vista. Notai Fabio che mi guardava con aria preoccupata.
Il dottore era un tipo tarchiato e sulla sessantina. I capelli biancastri, facevano da cornice ad un viso segnato evidentemente dagli anni di professione. Non appena mi vide, mi guardò dritto negli occhi. Mi sgranò le palpebre e infine mi incise una luce nelle pupille per vedere le solite cose di rito.
«Il ragazzo sembra a posto» sussurrò a Bianca in tono solenne.
«Grazie a Dio!» disse sospirando.
«Avrà problemi dottore?» domandò Sergio.
«Nulla di grave. Forse mal di testa e nausea per una settimana al massimo. Ah, forse gli capiterà anche di vomitare. I colpi subìti sono stati inferti in modo abbastanza pericoloso. Gli hanno colpito la tempia in modo alquanto veemente».
Solo adesso mi rendevo conto che avevo una vistosa fasciatura sulla parte superiore a destra del viso.
«Co-cosa succede?» bisbigliai.
«Possiamo parlargli dottore?» domandò mio fratello. Non l’avevo notato inizialmente. In successione mi dissero che se n’era stato per tre ore in silenzio sulla sedia accanto al letto. Povero piccolo.
«Cercate di non affaticarlo. Il paziente è cosciente da poco» rispose il dottore sorridendo e sorridendomi.
«Ok».
Il dottore uscì dalla stanza in modo lesto e professionale.
«Co-cosa succede?» ribadii.
«Vedi di andarci piano, ragazzo. Non sei immortale» sussurrò Flavio con aria decisa.
«Dove sono?» cominciai ad ansimare.
«Stai calmo. Siamo al “Molinette”» mi disse Flavio.
«Ma perché?».
«Non ti ricordi più che ieri sera hai fatto il … cavallo pazzo … e te ne sei andato da solo, senza armi, senza un minimo di piani a cacciare Turbotti e la banda?».
«Ah già» dissi deglutendo in modo pesante e facendo una smorfia. «Ma perché sono qui?».
«Ti sei messo a fare a botte. Loro erano in tre. Turbotti, il russo di cui ti parlavo e un altro idiota che spacciava la droga».
«Se sono qui, ne deduco che ho avuto la peggio». Provai ad abbozzare un sorriso, ma faceva male anche quello.
«Fai poco lo spiritoso» mi ammonì Bianca con dolcezza. «Ti rendi conto che potevi farti ammazzare?».
«Non meriti una amica così». Finì l’opera Flavio.
«Perché mi stai dicendo questo?».
«Si dà il caso, che la signorina ti abbia sentito mentre uscivi di casa …  e degna di suo padre, ha intuito che andassi a cacciarti nei guai. Avendo sentito il discorso sul cantiere della “CS”, ha avvertito l’ispettore Ducato e l’ha convinto a mandare due uomini che perlustrassero la zona, più una volante per le emergenze. Quando sono arrivati lì, tu ti dimenavi a forza tra i tre uomini e cercavi di colpirli. Effettivamente ci sei anche riuscito. Uno di loro ha un dente rotto. Certo, a te è andata peggio». In tutto questo frangente, Bianca sorrideva dolce e imbarazzata. Aveva distolto lo sguardo. Ora rimirava il paesaggio al di fuori della triste finestrella della camera.
«Smettila papà, ho solo fatto quello che era giusto fosse fatto» affermò arrossendo.
«Che cos’ho?» dissi sofferente e dolorante.
«Vediamo» disse girandosi di spalle. «Escoriazioni sui gomiti, qualche livido sull’addome e un colpo bello grosso sulla tempia destra causata dal calcio di una pistola. Il medico ha detto che se avesse colpito due centimetri più in là, saresti morto».
«Dannazione» sussurrai mantenendo lo sguardo basso.
«E non hai niente da dire a mia figlia?» disse aggrottando le sopracciglia.
«Papà! E’ debole, lascialo stare!».
«No, ha ragione. Ti ringrazio. Non so … non so come avrei fatto senza il tuo intervento. Grazie sul serio Bianca, ti devo un favore». Le presi la mano. Davanti a tutti. Arrossimmo un po’. Lei me la lasciò per prima. Ci fu un clima inusuale.
«Ascolta» iniziò Fabio. «Il dottore ha detto che devi riposare». «Papà» disse rivolgendosi a Flavio e mettendogli una mano sulla spalla. «Forse sarà meglio lasciarlo solo».
«Hai ragione» ci vediamo domattina ragazzo. E non scappare dall’ospedale. Non senza avermi lasciato una dichiarazione dove ti assumi tutte le responsabilità. Sei maggiorenne, è vero, sulla carta è così. Ma sei sempre nella mia casa e tecnicamente sono io l’adulto e nel caso ti succedesse qualcosa, potrebbero prendersela con me». Spiritoso come sempre.
Uscirono lentamente dalla stanza. Avevo una flebo attaccata al braccio e mi sentivo un perfetto idiota. Alex Fedele, il ferito. Suonava bene come una puntata di uno scadente telefilm americano a puntate sui thriller. Uscirono tutti dalla stanza. Tranne Bianca e Andrea. Lei sistemava alcune cose sul tavolino accanto al letto. Andrea stava seduto a penzoloni su una sedia grigia.
«D’accordo. Noi andiamo» affermò trascinandosi Andrea.
Le afferrai il polso e la tirai verso di me. Si ritrovò a contatto con il mio torace. Mi faceva male, ma era il dolore più piacevole avessi mai provato. La verità è questa ragazzi. I maschietti sono dei grandi scemi. Era la verità. Lo ammetto, mi era capitato di pensare a Bianca … “in quel senso”, ma adesso la sentivo ancora più vicina a me. E non perché aveva consentito l’arresto di criminali spudorati e nemmeno perché mi aveva salvato la vita. Avevo cominciato a sentire qualcosa dal momento in cui aveva fatto cadere le sue dolci lacrime dal suo viso, davanti a me, con la maggior naturalezza possibile. Avevo provato brividi gelidi al solo pensiero di doverla vedere di nuovo in lacrime.
Andrea ci fissava imperterrito. Paranoia. La mia è paranoia. Credo da anni che mio fratello non sia un bambino come tutti gli altri. Sarà pur un vezzo, ma credo che alla fine capisca le cose molto più velocemente di come la sua età consenta. Mah …
«Hai … hai bisogno di qualcosa?» mi chiese arrossendo. Bianca era agitata. Malgrado i miei tentativi di guardarla negli occhi, si dimostrava sfuggente. Segno di agitazione. I suoi capelli neri le coprivano parte del viso.
«No» risposi con freddezza. Gli occhi di ghiaccio.
«E … e allora … ?».
«Volevo solo ringraziarti. Hai fatto davvero tanto per me e per Andrea. Ieri notte sei stata magnifica».
«O-ok … non c’è di che … in fondo non ho fatto nulla, sai?».
Le lascai il polso, lei si alzò lentamente lasciando la sua scia di profumo nell’ambiente.
«E tu? Tu piccolo? Ce l’hai ancora con me?» chiesi a mio fratello.
Andrea si avvicinò e mi diede un bacetto sulla fronte. Sembravamo esserci scambiai i ruoli. Che strana la vita a volte.
Bianca uscì sorridendo. Forse facevo troppi film. Avrebbero dovuto premiarmi come sceneggiatore dilettante o magari come stuntman … con tutte le ferite che avevo … mi avrebbero preso di sicuro.

ANTICIPAZIONE EPISODIO 15: Salsa, tango, merengue, valzer ... conosciamo tanti tipi di ballo, non è vero? Il ballo è arte, la danza è movimento, interpretazione e ... crudeltà. Già,crudeltà. Cosa succede quando la crudeltà entra in pista? ALEX FEDELE EPISODIO 15: BALLO DI MORTE! Solo qui a partire dal 26 Novembre 2011!!!! Non perdetelo per nessuna ragione!