PROLOGO: Fuggire non serve a niente, solo a peggiorare le cose. Ma nei momenti dove il cuore abbatte il cervello, chi può capirlo? Nessuno. Ci vuole una persona molto cara che te lo faccia capire. Perchè ora tutta la verità è stata svelata!
Sigla di oggi: "The view from my window" by Yiruma
CAPITOLO VI – Rivelazioni
La notte era diventata padrone del tempo, il dolce riflesso della luna rischiarava la terrazza della mia cameretta. Mia madre, con gli occhi lucidi, mi guardava fisso negli occhi. Era cattivo segno. Mamma era di tipico carattere espansivo. Lei sì che ci sapeva fare. Quando avevo tre anni, a causa della mia eccessiva vivacità, sbattei allo spigolo di un tavolino del salone della nostra casa a Fondi. L’urto fu terribile. Andai a sbattere con la tempia e per poco non ci lasciai le penne. Reagii come un qualunque bambino di tre anni, cioè piansi a dirotto. Forse fu la penultima volta, perché anche da bimbo, non piangevo quasi mai.
Indovinate cosa fece mia madre? Mentre mio padre si dimenava per curarmi e per rassicurarmi, lei mi sorrideva e mi carezzava dicendo che non era stato nulla e che sarebbe passato tutto in un battibaleno. Era questa la mamma che amavo. La donna di fronte a me con gli occhi lucidi, piena di incertezze, era solo la sua brutta copia. La brutta copia di una donna con la “D” maiuscola. La lontana parente della giornalista brillante ed esuberante che aveva intervistato i famosi capi di stato facendo loro domande scottanti sul governo e riuscendo a metterli in palese difficoltà. Era solo una copia sbiadita della ragazza allegra che aveva incontrato mio padre e che aveva avuto la forza e la volontà di partorire tre figli.
«Ecco, la cosa che voglio dirti è … ».
Non riuscivo minimamente a proferire parola. La tensione si tagliava a fette e la fronte mi si era incredibilmente imperlata di sudore, segno evidente di un disagio incontrollabile.
«Puoi aiutarmi a risolvere questo enigma? E’ complicatissimo!» disse con un po’ d’imbarazzo lasciandomi di sasso. Feci un risolino, giusto per compiacermi e per compiacerla e le dissi:
«Tutto qui?».
«Come tutto qui? Fin da piccolo sei stato bravissimo nella risoluzione di codici segreti e enigmi. Perciò ho pensato di sottoporti questo. Me l’ha dato un mio collega giapponese ed io l’ho tradotto. Ascolta.
“Un ciclista scala una montagna alla media di 20 km/h , e poi, giunto in cima, gira la bicicletta e ridiscende a valle,seguendo la stessa strada,ad una media di 60 km/h. Qual è la media complessiva tenuta dal ciclista, durante tutto il suo viaggio”. Ammetto che è possibile che sia difficile per un ragazzino di diciotto anni come te, ma ti prego di sforzarti e …».
«La risposta corretta è 30 km/h. La risposta più frequente che viene data a questo problema è invece 40 km/h, basata sul fatto che il ciclista ha percorso esattamente metà del cammino alla velocità media di 20 km/h e esattamente l'altra metà alla velocità media di 60 km/h, ma la risposta è errata. Infatti, procedendo in discesa ad una velocità tripla rispetto a quella tenuta in salita, il nostro atleta ha pedalato per un tempo triplo alla velocità di 20 km/h rispetto al tempo in cui è andato a 60 km/h. La risposta corretta è dunque data da velocità = (3 x 20 + 60) / 4 = 30 km/h. Bisogna cioè tenere conto del peso relativo di ciascuna delle medie». Risposi senza esitazione. Mi piacevano i giochi di logica.
«E’ … è impressionante» disse mia madre. Si avvicinò lentamente e mi abbracciò “soffocandomi” di nuovo.
«Il mio bambino!».
«Mamma, per favore! Argh!» dissi mentre tentavo di dimenarmi.
Un altro periodo di silenzio assordante.
«Ricordi quando hai risolto da solo il problema di quella fiera cittadina a Fondi? Mi ricordo che il professore di fisica che guidava il gioco rimase sorpreso che un ragazzino di soli sette anni riuscisse a risolvere problemi di quel genere, tanto che sospettò anche di me come suggeritrice, quando invece non c’entravo nulla» disse sorridendo. «Sei sempre stato speciale» aggiunse commossa con gli occhi bassi.
«Ci portammo una radio a casa come premio. Era la fiera di …».
«Di Sant’Onorato. Sì, proprio quella fiera. Parecchi anni fa».
«C’era anche tuo padre a quella fiera».
«Già. C’era ancora».
«Era bello no?» disse con la voce rotta dal pianto. Le lacrime che cominciavano a sgorgare.
«Non piangere … non c’è nulla da … ».
«Lo so» affermò stoppandomi «ma non riesco proprio a farne a meno quando parlo di lui. Mi spiace». Il mascara si riversava sulle candide guancie di mia madre conferendole un’espressione triste e poco incline al dialogo. Sembrava che il pianto fosse il suo unico modo di comunicare, in quel determinato momento I miei occhi scuri fissavano la scena da un punto di vista quasi esterno, come se io fossi stato sempre estraneo ai fatti. Probabilmente sbagliavo, e della grossa anche.
«Dimmi la verità» la incitai toccandomi i capelli «l’enigma non c’entrava nulla con quello che devi dirmi, non è vero?».
Stette un attimo in silenzio. «E’ questa la sfortuna di avere un figlio detective» fece sorridendo tra le angosciose lacrime. «Non gli puoi nascondere nulla» aggiunse.
«E allora di cosa si tratta? Ne possiamo parlare domattina? Sai, sono stanco dopo l’agguato e … ».
«No. Ho aspettato fin troppo. Il fardello è troppo pesante ormai».
Più andavamo avanti nella conversazione e più non capivo cosa stesse succedendo.
«Facciamola breve» le dissi guardandola con diffidenza. «Sono le due passate. Domani io e Flavio dobbiamo occuparci di nuovi casi e … ».
«Riguarda tuo padre».
Il silenzio non era assordante, era praticamente fuori da ogni controllo sonoro e perdonate l’iperbole.
«Papà?».
«Già».
«Che cosa c’è? Hai trovato qualche lettera? Vuoi mostrarmela?».
«Non è nulla di tutto questo».
«E allora cos’è? Dai, che è tardi. Sinceramente … sono stanco mamma».
«Hai mai sentito parlare del Fuoco Re?».
«Fuoco Re … » ripetei tra me e me. Ebbi un flashback improvviso. Ecco dove l’avevo sentito! A bordo della “Karen”! Sì,Elisabetta Criota poco prima di saltare in aria aveva parlato di quel clan mafioso per il quale lavorava.
«Allora? Non ti dice nulla?» chiese tra il pianto e il tragico.
«Sì … in uno dei miei casi … ho avuto l’impressione di sentirlo. Era quello della nave … la ragazza lavorava per loro e … ».
«E tu cosa sai della morte di papà?».
Rimasi attonito. «Come cosa so? Quello che mi dici da cinque anni a questa parte. E’ morto per un incidente stradale mentre era fuori per lavoro e … ».
Scosse il capo con gli occhi bassi.
«Come … no?» chiesi interrogativo.
«No» disse asciugandosi le lacrime. «Tuo padre era amico di Marbelli, ricordi? Erano amici di infanzia».
«Sì, come no? Lo ricordo eccome».
«E sai anche che papà lo aiutò parecchie volte nei casi dove poteva, giusto?».
«Sì, ma dove vuoi arrivare?» chiesi spazientito.
«Lo aiutò anche in un caso dove era coinvolto il Fuoco Re».
«E … e allora?».
«Papà, non è mai … » voleva parlare, ma il pianto aveva la meglio.
«Parla!» la incitai duramente.
«Papà non è mai partito per lavoro. Fu catturato dal clan e fatto prigioniero. Volevano estorcergli informazioni sulle operazioni di polizia. Erano convinti che tuo padre fosse un pezzo grosso e che avesse dei contatti con i piani alti della polizia e invece … ».
Non reagivo più ormai. Ero morto.
«Fu fatto prigioniero e ucciso a colpi di arma da fuoco» continuò balbettando a causa del pianto e dell’emozione. Il suo mento tremava e i suoi occhi erano ormai avvolti da un increscioso e ininterrotto pianto. «Il suo corpo fu ritrovato in un bunker sotterraneo, sette giorni dopo la sua cattura».
I miei occhi erano sgranati a fissare intensamente la figura di mia madre, quella piccola e minuta donna, che con le sue parole mi stava torturando l’anima.
«Nemmeno Stefano sapeva nulla» continuò prendendo un fazzoletto «fino ad una settimana fa. L’ho detto a lui e ho deciso di dirlo anche a te, così che tu possa … ».
«Ma così che io possa, cosa?! Che cosa?!» dissi rizzandomi in piedi e scattando come una furia.
«Non fare così, ti prego … » la voce di mia madre era inevitabilmente aggregata al pianto che le contorceva i sensi.
«Dovrei fare anche di peggio, dannazione!» e così dicendo diedi un pugno fortissimo contro il vetro della porta – finestra. Corsi il rischio di frantumare i vetri e di rompermi la mano sinistra.
«Ma ti rendi conto?» continuai imperterrito «tu hai tenuto nascosto la verità per cinque anni? Come cavolo hai fatto? Come hai potuto farlo, mamma? Come?!». Ero completamente fuori di me. Urlavo come un forsennato e cominciava ad arrivare qualche lamentela da parte dei vicini. Ma non me ne importava.
«Stai zitto, ti prego. Fai silenzio, ti scongiuro» mi implorò a voce bassa.
«Silenzio? Nemmeno per sogno! Che madre sei? Che madre sei?!».
«Non te l’ho detto per non farti soffrire, temevo che l’avresti presa male e … ».
«Ah! Per non farmi soffrire? Perché adesso cosa stai facendo? Hai notato come la sto prendendo? Quindi mi hai tenuto nascosta la verità per tutti questi anni? Hai preferito fare i tuoi interessi, nonostante vedessi che noi soffrissimo più di chiunque altro per la morte di papà?! Rispondi! Non piangere, perché le tue sono solo false lacrime!». La mia voce si era alzata all’inverosimile, la fronte era corrucciata, gli occhi gridavano vendetta e c’era una grandissima tensione nell’aria che dava alla situazione uno stato di irrequietezza.
«Cosa dovevo dirti? Eh? Che tuo padre era stato rapito e che il suo corpo è stato ritrovato solo grazie ad una telefonata anonima? E’ questo che dovevo dirti? Come potevo farlo? Avevi solo tredici anni, eri un bambino».
«Un bambino rimasto orfano di padre! Un bambino al quale hai fatto credere per cinque anni una cosa ben delineata e al quale poi riveli una verità incredibilmente assurda, ma tragicamente reale! Ti rendi conto cosa diavolo hai fatto?».
«Lo so, ma sono pentita» affermava con le lacrime agli occhi, il mascara sul volto che le si era spalmato. «Ti prego, perdonami! Perdonami, figliolo!». Si attaccò ad un braccio, ma la scansai e andando in camera, cominciai a correre a perdifiato verso il piano inferiore. Mia madre mi inseguiva chiedendomi di fermarmi. Sulla soglia della porta incontrai Flavio.
«Che succede? Cosa …?».
«Sta zitto e dammi le chiavi» gli dissi strappandogliele dalle mani.
«Ehi! Federica, ma che succede?» domandò disturbato e incredulo.
«Te lo spiego dopo» sussurrò mia madre tra le lacrime. «Alex! Dove vai? Non andare via! Alex!».
Presi la macchina e corsi come un forsennato. Non mi interessava nemmeno di chi fosse quell’auto. Mi serviva un mezzo per andarmene il più lontano possibile. Perché quando sei in queste circostanze puoi fare due cose. O sfoghi la tua rabbia prendendotela con tutti non sapendo come andrà a finire, oppure te ne vai e pensi a quello che hai sentito in quel momento, magari tiri qualche pugno all’aria, come se dovessi andare su un ring facendotelo passare. Io avevo optato per la seconda scelta, altrimenti non credo avrei mai più avuto la forza di guardarmi allo specchio. Sarei diventato un vile.
Non riuscivo a credere a ciò che mia madre mi aveva detto. Ora piangevo anch’io, ma le mie non erano lacrime di disperazione, o magari di pentimento del mio comportamento, ma solo di rabbia, di frustrazione, di enorme forza interiore che all’improvviso si sprigiona a causa di una circostanza spiacevole. Che schifo.
Andavo con la macchina di Flavio a una velocità del tutto superiore a quella che era consentito ad un essere umano. Per fortuna era notte fonda e non incontrai nessuno sulla mia strada. Sembrava quasi una maledizione, la mia vita. Ogni qual volta che cercavo di dimenticare le cose brutte del passato, esse ritornavano come in una fastidiosissima strofa di una canzone melensa. Ora però era stato davvero troppo. Per cinque anni avevo creduto invano a determinate cose e adesso mi ritrovavo stravolto, con una verità differente da quella che conoscevo.
E dove sarei andato? Guidavo, acceleravo, cambiavo marce, ma onestamente, senza cadere in classicismi, non avevo una mia destinazione. Mi serviva una grande emozione per scacciarne un’altra ancor più grande e impetuosa. Forse sarei dovuto andare al cimitero, anche se per fortuna non avevo nessuno lì. O magari sarei potuto andare in un bar, a farmi di caffè fino a non dormire più per tre giorni di seguito. Chi può dirlo? Non sapevo quale sarebbe stata la mia destinazione.
CAPITOLO VII – Il discorso della madre
«Mi spieghi cosa è successo?». Flavio si era lasciato andare sulla poltroncina bianca che troneggiava in salotto e aveva assunto un’aria pensierosa. Non aveva mai visto Alex, ragazzo a suo avviso calmo, tranquillo e razionale, così arrabbiato. Doveva per forza esserci un motivo serio. Doveva esserci. Altrimenti non si sarebbe spiegato nulla.
Dal canto proprio, Federica era stravolta a trecentosessanta gradi. Il mascara le si era spalmato sul viso sbavandosi agli angoli degli occhi e facendole assumere una espressione tragica e al tempo stesso compassionevole.
«E’ che … » ma la donna non riuscì a completare la frase. Era seduta sul divano con entrambi i piedi su di esso, raggomitolata, quasi a proteggersi dal mondo e non aveva la minima intenzione di pensare a ciò che era appena successo. Come spesso accade però, la psiche è nettamente più forte della persona stessa. E allora si pensa a qualcosa di spiacevole, anche se non volessimo farlo.
Sul posto intanto erano accorsi Bianca, Andrea e Fabio. La ragazza era tornata da casa di Barbara, accompagnata dal padre di quest’ultima, mentre le grida dei protagonisti di quella triste tragedia avevano svegliato il figlio più piccolo di Federica. In quanto al ragazzo, pochi secondi dopo l’uscita di Alex, era rientrato dalla sua serata con Martina.
«Mamma, cosa succede?» disse con fare assonnato Andrea. Non era a conoscenza ancora di nulla.
«Piccolo mio, non è successo nulla … » disse ancora con le lacrime agli occhi.
«Ma allora perché stai piangendo?».
«Ho … ho visto in film d’amore. Sai com’è la mamma, si commuove sempre. Non è vero Flavio? Ti sei commosso anche tu, non è vero?» gli chiese cercando di farlo mentire. Pregava che l’uomo capisse i suoi segnali.
Flavio, preso di sorpresa, sorrise con fare malizioso e rispose:
«Eh … certo! Io sono un sentimentale! Di fronte ai film drammatici, non mi tiro certo indietro!».
Il detective fece segno a Fabio di portare il bambino fuori dalla stanza. Aveva intuito che qualcosa non andasse e aveva intuito che la verità non poteva essere messa sul piatto d’argento per servirla a Andrea. Bianca trasalì. Era tornata da pochi minuti e si era trovata una situazione a dir poco spiacevole in casa. Pur senza sapere nulla, anche il più stupido degli uomini avrebbe compreso che qualcosa era andato storto, quella sera.
Uscito Andrea dalla stanza, Flavio Moggelli si passò una mano sulle folte sopracciglia e con la fronte corrucciata, cominciò a parlare.
«Federica, non sono fatti miei, ma raramente ho visto Alex in quelle condizioni … cosa succede?».
La donna prese fiato.
«Sai Flavio» iniziò col pianto in gola «ci sono cose di me che non vi ho ancora detto». Bianca si accomodò alla sinistra della donna. Era incuriosita e al tempo stesso intimorita da una cosa che avrebbe potuto renderla volubile e nervosa allo stesso tempo.
«Allora?» chiese Flavio dopo un po’ di pausa. Cercava di rimanere impassibile alle lacrime della donna, ma sapeva che prima o poi sarebbe crollato e che il suo cuore avrebbe dato ordine al cervello di mollare la presa e di farsi travolgere dalle emozioni.
«Il padre di Alex, mio marito è tragicamente morto qualche anno fa».
«Sì, Alex aveva accennato qualcosa. Accidenti, mi dispiace molto. Immagino che sia stato un grandissimo dolore».
«Puoi dirlo forte. Ma il modo in cui fu ucciso ha lacerato qualcosa che non potrà mai più essere rimarginato».
«Cosa … ?».
«Mio marito è una vittima della criminalità organizzata. Non so se hai mai sentito parlare del Fuoco Re. Nei tg nazionali spadroneggiano le loro varie azioni illegali».
Alla parola “Fuoco Re”, Flavio Moggelli rabbrividii. Quel nome gli aveva provocato già troppi dolori. Aveva toccato quella gente, vissuto con quella gente, studiato quella gente e le aveva sonoramente prese da quella gente. Versate le lacrime più amare, solo ed esclusivamente per quella gente. Era difficile per lui imbastire un discorso a proposito di questo. Flavio considerava il Fuoco Re come un avversario, come un obbiettivo e come un qualcosa di innominabile. Era quasi come se gli fosse rimasta la paura di quei terribili giorni vissuti quando Bianca e Fabio erano troppo piccoli per capire tutto.
«Flavio, ti senti bene? Sei diventato pallido all’improvviso» chiese di premura Federica.
«S-sì … un piccolo giramento di testa. Dicevi?».
«Gianni era intimo amico del commissario della nostra città, Marbelli. Ed è capitato molteplici volte che fu invischiato in piccole operazioni di collaborazione con le forze dell’ordine. Be’ cinque anni fa, Marbelli, come ogni commissario che si rispetti, decise di effettuare un blitz contro il clan per agguantarli e magari ristabilire la pace. Fu un’operazione di quelle che si fanno in polizia contro il Fuoco Re. Lo sai meglio di me, no? Ogni tanto c’è qualche commissariato che si prende la responsabilità di provare ad effettuare qualche blitz. Comunque,» continuò mentre si asciugava il fiume di lacrime che le sgorgava dagli occhi «Gianni si offrì volontario per quella operazione. Marbelli non voleva partecipasse ma … » si fermò un attimo per soffocare l’impulso di piangere «lui si intestardì. Ricordo ancora quella sera. Tornò dopo otto ore di lavoro e decise di andare in commissariato. Gli raccomandai di fare attenzione. Il risultato fu che mio marito sparì e nessuno ebbe più sue notizie … per almeno una settimana».
Lo sguardo di Flavio Moggelli si era fossilizzato in quello di Federica Dolbi, in Fedele. Bianca guardava in basso. Suo padre aveva assistito a tante cose nella sua carriera, Aveva conosciuto il dolore, si era rialzato dalla terra fangosa ed era risalito a più alti livelli solo per mandare avanti la baracca. Ma lei non sapeva fino a quando avrebbe potuto resistere e controllare la sua stessa forza interiore. Intuiva che qualcosa non andasse, ma non osava chiedersi cosa fosse.
«E cosa accadde?» chiese timorosa in un barlume di coraggio.
«Una settimana dopo … uno sconosciuto chiamò da una cabina telefonica dicendo di aver trovato un cadavere in una buca sotterranea».
«Non dirmi che … » Flavio si era alzato di scatto, come a simulare una fuga.
Federica scosse la testa in segno di assenso.
«Oh mio Dio … è terribile …» riuscì a dire l’uomo passandosi una mano tra i capelli. Ora le vene situate sulle tempie pulsavano più veloci del normale e il battito cardiaco aveva assunto la frequenza di un’orchestra rock.
«Ma non è questa la parte peggiore della storia» disse singhiozzando «il fatto è che ho fatto credere ai miei figli un’altra cosa per cinque lunghissimi anni. La scorsa settimana ho rivelato la verità a Stefano, ma l’ha presa meglio. Ha pianto, ma non mi ha attaccato. E credevo non lo avesse fatto nemmeno Alex. Invece … mi ha fatto diventare piccola piccola» concluse emettendo un piccolo gemito di disperazione alla fine. «Ed ora» riprese a parlare tentando di mantenere la calma «non vuole più vedermi».
«Non fare così Federica, sono sicuro che tornerà presto, non … ».
«No, non tornerà!» gridò quest’ultima. «Me lo sento, non lo farà. Alex ha un carattere diverso da suo fratello».
Sia Bianca che Flavio non avevano parole. Fabio, rimasto sulla soglia della porta che comunicava il salone al corridoio, si passava una mano sul volto quasi in segno di resa all’inevitabile.
«E ora dov’è andato?» chiese Bianca commossa.
«Non ne ho idea … ha solo detto di non volermi più vedere». Federica aveva le lacrime che le asfaltavano completamente il viso. Nascondeva il viso in un cuscino e lo colpiva con dei piccoli pugni quanto bastasse a far comprendere appieno la sua attestata disperazione.
Mentre Flavio cercava di consolare invano Federica si sentiva partecipe del suo dolore, anche vivendolo da un punto di vista esterno. I suoi occhi erano nel problema, il suo cuore e la sua mente anche. Non c’era nulla che non lo rappresentasse in quella spiacevole situazione. Era stato come riavvolgere il nastro. Un destino beffardo al quale non si crede mai, ma che è sempre pronto a darti una lezione. Anche lui aveva nascosto e nascondeva ancora delle verità nude e crude ai figli. Forse per paura del loro giudizio o forse solo per non metterli davanti alle cose così, in giovane età. Fatto sta che aveva tenuto nascosto il vero motivo della morte di sua moglie per anni e che c’era ancora qualcosa che lo tormentava e che non aveva ancora rivelato. Lo faceva perché non avrebbe mai sopportato che i suoi figli fossero consci del dolore che lui stesso aveva e continuava a provare. Si era scottato lui, non voleva che lo facessero anche i suoi figli e per questo non li aveva detto tutta la verità. Ma non capiva che così si sarebbero scottati ancor di più.
Bianca dal canto suo se ne stava immobile, con lo sguardo nel vuoto, con i capelli che le cadevano sui profondi occhi neri. Le labbra carnose erano immobili, quasi in attesa di un piccolo giudizio da parte di una qualsivoglia autorità superiore. Ragionava. Alex se n’era andato in preda alla rabbia e alla frustrazione. Lei lo conosceva già bene, anche se era relativamente poco tempo che i due si erano conosciuti. Era a Torino relativamente da poco. Quale posto avrebbe per lui significato qualcosa di importante? Ripensava ai vari casi e ad un tratto si alzò. Scostò i lucidi e castani capelli dalla fronte e impugnò il casco che il giorno prima aveva lasciato sul divanetto e che non era mai stato messo a posto. Suo padre le domandò cosa stesse succedendo, ma lei non rispose. Voleva salvare un’anima. Aveva capito come si era sentito Alex, ci era già passata anche lei e probabilmente doveva ancora passarci.
Uscì di corsa di casa e in un battibaleno, nonostante i numerosi richiami da parte di suo padre, era sullo scooter, uno Scarabeo 500 di colore rosa chiaro, quasi pastello.
Il vento le scompigliava le poche ciocche di capelli rimasti all’infuori del casco, ma non le importava. Aveva capito quale fosse l’unico posto che fino a quel momento Alex considerava importante. Ci aveva quasi rimesso le penne.
CAPITOLO VIII – Lacrime al cantiere
Non era cambiato poi così tanto quel cantiere. Era passato relativamente poco tempo, ma sentii al telegiornale cittadino che erano iniziati dei lavori per chiuderlo e invece … che fortuna. Trovato il parcheggio, mi sedetti su una cassa d’acqua abbandonata. Chissà da quanto tempo era lì. Era polverosa e ammaccata. Ma faceva ancora bene un lavoro, quello di seduta. Fatto sta che il cantiere era rimasto ancora lo stesso e i lavori di chiusura, erano andati a farsi fottere.
Guardai il cielo. Buio, nemmeno una stella. Se non fosse stato per il lampione a intermittenza che padroneggiava la strada e le poche luci lasciate accese dagli abitanti insonni dei condomini affianco, sarei stato nell’oscurità più totale.
Non riuscivo a credere a ciò che mia madre mi aveva detto. Avevo sempre creduto che mio padre fosse stato vittima di un incidente stradale. Mi raccontarono che in un impatto con un maledettissimo camion, morì sul colpo. E invece …
«Sei qui allora». Nell’oscurità, una voce femminile, del tutto familiare, mi fece sobbalzare quanto bastava per avere un infarto. Mi girai di scatto e impugnai impulsivamente un’asta di ferro che era a terra probabilmente come residuo dei lavori che erano iniziati clandestinamente qualche anno prima.
«Calma, calma … sono io» disse avvicinandosi e porgendomi la mano.
«Bianca?».
«Sapevo saresti venuto qui. E’ qui che hai rischiato la vita contro Turbotti, ricordi?».
Non risposi. Mi sedetti di nuovo. Lei si accomodò a fianco, su un cassone di legno rovinato e logorato dagli anni. Sembravamo due veterani, due reduci del Vietnam, e avevamo sogni, disperazioni e follie nei nostri zainetti invisibili. Sì, i nostri zaini immaginari erano pieni di sogni, di speranze e c’era anche un po’ di autoironia, perché senza quella non si va lontano.
«Sai, lo so come ti senti» iniziò cercando di essere seria, senza condizionamenti. Quando si avvicinò cercò di nascondere le lacrime, ma notai, grazie al riflesso nei suoi occhi provocati dal lampione, un pizzico di tristezza.
Non risposi ancora.
«Per arrivare qui ho consumato dieci euro di benzina, ascoltami almeno» disse sorridendo.
«Ti ascolto. Ti sto ascoltando».
«Tua madre … ».
«Alt! Se sei venuta qui a parlarmi di lei … puoi anche andar via, Bianca».
«Ok, vuoi parlare di tuo padre?».
«Cosa vuoi dire?».
«Voglio dire … l’amore può essere anche eterno. Come ad esempio quello tra tuo padre e tua madre, o magari quello tra i miei» fece una pausa di pochi secondi. «O magari quello tra tua madre e te».
«Quello è momentaneamente fuori servizio».
«Non vuoi bene a tua madre?» mi chiese continuando a sorridere.
«Ma sì che le voglio bene! Sono arrabbiato ok? Sono furioso. Nascondermi la verità su … ».
«Ma perché? Perché voi detective siete alla ricerca della verità?Perchè la volete anche quando vi fa male? Ci godete? E’ una sorta di discorso masochistico o cosa?».
«Ma fammi capire» dissi guardandola con stupore «che discorsi fai? Una donna mi nasconde … ».
«Non è una donna qualsiasi, è tua madre!».
«E’ mia madre, ma mi ha nascosto delle cose che non possono essere nascoste! Vuoi capirlo sì o no?».
«E cosa vuoi fare? Cessare i rapporti con lei a diciotto anni? Cosa? Dimmelo! Cosa dovrei fare io con mio padre? Anche a me ha tenuto nascosto delle cose e continua a tenerne altre nascoste., ma non per questo non ci parlo più. A volte penso che lo faccia per proteggermi, ma io penso che un giorno mi rivelerà tutto».
«E’ un modo diverso di reagire, ok? Sei contenta? Sei venuta a farmi la morale? Sei venuta per … ».
«Ehi, ma lo sai che c’è?» disse alzandosi di botto «i problemi sono tuoi, la vita è tua. Mi sono fatta trenta minuti di motorino per venirti a prendere e riportarti a casa e ottengo questo? Ma che razza di carattere hai?» fece rabbiosa. Mi spintonò, come solo una donna che ti vuol bene sa fare.
Si girò di scatto e se ne andò. Ma quando si allontanò abbastanza, sussurrai abbastanza forte per essere sentito.
«Mi dispiace».
Si voltò lentamente. Mi guardò con occhi caritatevoli, si avvicinò di nuovo e mi carezzò la guancia.
«Alex, l’ha fatto solo per non farti soffrire».
«Col risultato … ».
«Col risultato di farti soffrire di più, lo so bene. Ma non puoi prenderla così, capisci? Dai … ». Mi diede un buffetto sulla tempia, quasi a volermi schernire. La abbracciai forte quella sera. Il suo petto contro il mio, il suo profumo che mi allietava l’olfatto, i suoi capelli che mi davano tranquillità.
Guardavamo il cielo entrambi con gli occhi pieni di lacrime. Chissà mio padre come si stava appassionando. Si dice che la vecchiaia equivale a saggezza. Per esperienza personale, non condivido. Quella avuta da Bianca era stata la lezione di vita più straordinaria e stupefacente della mia vita. E me ne accorsi quando tentai di parlarle. La bocca non era più collegata al cervello. La mia vita però aveva una priorità adesso. Fuoco Re.
ANTICIPAZIONE EPISODIO 29: Qual'è la cosa più difficile da fare quando si ha subìto un torto? Perdonare, esatto. Tra casi coinvolgenti, sentimenti contrastanti, relazioni trapiantate e forza di ricominciare, chi avrà mai la forza di concedere ... il perdono? ALEX FEDELE EPISODIO 29: IL PERDONO. Solo qui a partire dal 3/03/2012 NON PERDETELO PER NESSUNA RAGIONE!
Riuscirete a risolvere il caso? Pagina Facebook qui. Parliamo anche di Detective del passato ricordandoli con i link. http://www.facebook.com/pages/Alex-Fedele/240472229318634
Statistiche del Blog
sabato 25 febbraio 2012
sabato 11 febbraio 2012
Alex Fedele: La verità sul passato(1°Parte): Stagione 1; Episodio 26
LA
VERITA’ SUL PASSATO(1°parte)
PROLOGO: Ci risiamo, il passato ritorna, ma stavolta tocca ad Alex e non a Flavio, affrontarlo. L'arrivo della madre del ragazzo porterà squilibri, novità e ... inquietanti rivelazioni!
CAPITOLO
I – Un’e- mail inaspettata
Quel giorno il tardo pomeriggio
stava regalando un tramonto davvero niente male. La casa pullulava di
tranquillità e silenzio e i numerosi abitanti di casa Moggelli, erano tutti
indaffarati a fare qualcosa, me compreso. Ok, non proprio come loro. Flavio e
Sergio sbrigavano la loro consueta mansione in ufficio; Bianca studiava per un
importante compito in classe che si sarebbe dovuto svolgere a breve; Andrea era
in camera sua a disegnare per la sua maestra d’asilo, mentre Fabio era andato in
fretta e in furia in biblioteca per «prendere nuovi libri di medicina». Il
sospetto che dietro la quasi quotidiana visita alla biblioteca ci fosse un
secondo fine, diveniva sempre più chiaro e onestamente sia Flavio, che Bianca,
l’avevano ammonito più di una volta, ricevendo risposte secche, spiazzanti, del
genere «fatevi gli affari vostri». Per quanto mi riguarda, ero sul letto a
piedi incrociati, col pc sulle gambe, e guardavo in streaming qualche vecchio
serial giallo di cui mio padre era fan quando era ancora in vita. Già, mio
padre. Chissà cosa c’è dopo la vita? Il grande mistero, lui, l’aveva conosciuto
prima di me. Da quando ero a Torino ne
avevo avuti di modi per conoscere il grande mistero, eccome. Dalla lotta con
gli scagnozzi di Turbotti, all’incidente con la famiglia Pelviani, fino a
passare all’avventura indimenticabile della “Karen”, la nave da crociera andata
distrutta con l’esplosione della bomba programmata da quell’affiliata al clan
mafioso … come si chiamava? Non lo ricordavo proprio e a distogliermi dai miei
pensieri, arrivò il “bip” polifonico del pc. Era arrivata una mail e
l’indirizzo era tale e quale a quello aziendale di mia madre.
Come dettovi tante volte, mia
madre faceva la giornalista per un’importante emittente nazionale in Giappone.
Era stata una donna che aveva fatto della gavetta il suo pane e della fatica la
sua soddisfazione. Aveva prima lavorato per ben sette anni in un’emittente minuscola
di Fondi, la nostra città. Poi era stata chiamata al nord, ma aveva rifiutato
perché … be’perché io, Stefano e Andrea eravamo davvero troppo piccoli per stare senza
mamma. Eravamo troppo piccoli per stare senza uno dei due genitori. Mio padre
era ancora tra noi. Dopo la nascita di Andrea, nostro padre se n’era andato nel
giro di pochi mesi, non potendo assistere al suo ultimo pupillo. A mia madre,
quando Andrea non era nemmeno in programma e quando Stefano aveva dieci anni e io ne avevo sette,
avevano offerto un prestigiosissimo lavoro come redattrice a Brescia. Quando
poi Stefano era diventato maggiorenne, mamma aveva accettato il Giappone e mi
aveva lasciato con lui fino a quando mio fratello non aveva deciso di andare a
studiare architettura negli USA, cosa che si verificò in pochi mesi. Da quel
momento ero stato da solo per circa tre anni. Mia madre aveva avviato delle
procedure legali che parevano durare in eterno, per far capire ai giudici che
ero abbastanza responsabile per vivere da solo nonostante avessi soltanto
quindici anni. A quell’età sapevo già essere abbastanza indipendente, mamma
sognava il Giappone, Stefano gli USA. Ricordo che vennero degli inviati del
giudice tutti i giorni a casa mia per almeno un mese. Controllavano se fossi
davvero responsabile. Se mantenessi casa in ordine,se sapessi provvedere al
cibo e cose di questo genere. Dopo la sentenza del giudice, fortunatamente
positiva, mio fratello Andrea lo vedevo nelle festività,o in estate, in quanto
fino a quando non compii la maggior età,visse per ben tre anni con mia madre
nel Sol Levante. Una volta che avevo compiuto 18 anni, mio fratello insistette
per venire a vivere con me. Era così mio fratello, per me ha sempre avuto una
sorta di piccolo debole. Così mia madre e la legge, lo avevano affidato a me
tramite ancora delle estenuanti procedure legali. Poi c’era stato il PSD, e il
resto della storia la sapete.
La mail, proveniente dall’Oriente,
recitava più o meno così:
OGGETTO:
Ciao tesoro!!!
Ciao
amore, come va a Torino? Ti sei ambientato? Mangi? Bah … inutile farti queste
domande, tanto più che ho intenzione di venire lì tra soli due giorni per
riabbracciare il mio detective preferito!!! Spero sarai contento di rivedermi
dopo tanto tempo. Non fraintendermi, mi fido dei Moggelli, ma sono davvero
curiosa di sapere come te la cavi.
Ora
devo andare, ricordati che verrò a Torino con il volo delle 11 del mattino.
Un
bacio e … salutami Flavio!!!
Cioè, avete visto? Se qualcuno
avesse potuto equivocare sarebbe stato davvero uno scemo! La prima cosa che mi
ha chiesto è se mangio … la tipica madre apprensiva, anche se tendeva a non
farlo sembrare e a non dimostrarlo. Certo ero felice di riabbracciarla, ma non
avrei mai voluto che si mettesse a fare la mammina che deve per forza
disciplinare i comportamenti di suo figlio. Ero abbastanza maturo per cavarmela
da solo. Su una cosa però aveva ragione mia madre. La testardaggine ed io,
andiamo a braccetto.
Appena ricevuta la mail, decisi
di scendere dal letto e andare ad avvertire Flavio. Aprii la porta in legno
dell’ufficio e trovai sia lui che Sergio in mille scartoffie diverse. Davvero
non riuscivo a distinguere nessuno dei due per quanto entrambi fossero coperti
da post-it, di fogli di carta volanti e quant’altro.
«Chi è?» domandò la voce roca
segnata dal fumo di Flavio.
«Sono io. Ascolta, devo dirti una
cosa a proposito … ».
«Non mi interessa nulla della tua
vita, se hai notato qualcuno sospetto o se hai dei dubbi sul fratello della
portinaia del commesso del “Poe”, ora devo riuscire a mettere in ordine questi
fascicoli prima che faccia notte fonda!».
«Sei completamente fuori strada»
avvicinandomi, notai Sergio intento a raccogliere penne sul pavimento e lo
salutai.
«Ciao Alex» mi rispose con la sua
voce gentile sistemandosi gli occhialetti. Risposi con un veloce cenno del
capo.
«E allora cosa vuoi?» riprese
Flavio «ti auguro di avere un motivo davvero importante per venire qui mentre
lavoro!».
«Certo, ascolta. Ho ricevuto una
mail da mia madre che dice verrà a trovarmi tra due giorni. Non è mica un
problema?».
«E perché dovrebbe esserlo? Certo
che per essere un detective sei abbastanza stupido!»
Ha parlato il genio incompreso.
«Allora, posso confermarle … ».
«Puoi dirle che è la benvenuta!
E’ normale che una madre voglia vedere come si trovi il proprio figlio, non ti
pare?» chiese in modo scorbutico.
«Davvero verrà tua madre?»
domandò Bianca. Era apparsa dietro la porta in modo repentino. Il suo sguardo
era illuminato dalla gioia di poter vedere la mia mamma e di poter finalmente
conoscere una parte nuova di me, il figlio Alex. Me ne aveva accennato tante
volte. O meglio, quando stavamo parlando di ciò che facevo a Torino, chiedeva
sempre di descriverle mia madre. Chiedeva che carattere avesse, in che modo mi
avesse educato, se ci fosse qualche aneddoto interessante … ma io sviavo il
discorso e facevo lo stesso con i suoi tentativi di “estorcermi” più
informazioni possibili sul mio passato.
«Già» le risposi con poco
entusiasmo.
«E’ magnifico! Finalmente la
conosceremo, non è vero papà?».
«Già. Chi sarà mai quella santa
che ti ha sopportato per … quanto tempo hai vissuto per tua madre prima di
stare da solo? Quindici anni, vero?».
«Spiritoso» apostrofai annuendo.
«Lo hai detto a Andrea?» mi
chiese Bianca.
«Non ancora».
«Vuoi che … vada a dirglielo
io?».
«Se potessi farlo, ti
ringrazierei molto».
«Nessun problema».
Due giorni dopo, eravamo tutti
all’aeroporto di Torino. Erano le 11 meno un quarto, e onestamente, ero l’unico
indifferente della comitiva. Andrea, non appena saputo che mia madre sarebbe
arrivata, aveva cominciato a saltare e a chiedermi quanto mancasse per
riabbracciarlo.
Flavio, per presentarsi meglio,
si era letteralmente riempito di gel i suoi capelli e impomatato il ciuffo sul
davanti. Aveva indossato l’abito buono, quello messo al matrimonio del suo
miglior amico e aveva fatto una cosa che da sempre gli dava fastidio. Era
riuscito a mantenere la cravatta per più di cinque minuti. Di solito la metteva
sempre, ma se la slacciava nel corso della giornata, per poi rimettersela di
nuovo e … indovinate? Slacciarsela di nuovo. Fabio era anch’egli elegantemente
vestito con una camicia gessata ed un jeans nero classico. Bianca invece
indossava una camicetta di jeans nera ed una gonnellina bianca fino poco sopra
il ginocchio che lasciava intravedere le gambe. Era davvero splendida e non
potevo guardarla per più di dieci secondi senza arrossire.
Anche Sergio aveva voluto venire
con noi. Indossava un giubbotto bianco di rango primaverile ed un comunissimo
pantalone. Tra i più, era quello vestito in maniera più semplice. Per quanto mi
riguarda, mi ero dovuto sorbire le lamentele di Flavio, Fabio e Bianca, per
tutta la mattinata. Avevo indossato una maglietta a maniche corte ed un jeans abbinando
il tutto ad un paio di scarpe da tennis bianche. Per tutta l’attesa mi
tormentarono.
«Tua madre viene a trovarti dal
Giappone e tu ti vesti come se dovessi partecipare ad un party in discoteca?»
cominciò Flavio.
«A parte che a me le discoteche
non piacciono proprio … e poi mi dici come avrei dovuto vestirmi?».
«Be’, almeno una camicia ed un
pantalone elegante … potevi anche metterli su» continuò Fabio.
Tentai di rispondergli, ma fui
anticipato da Bianca. «Fabio ha ragione … forse tua madre potrebbe offendersi».
«Ma non siate ridicoli! Voi non
conoscete mia madre. E’ del tutto diversa dal come ve la immaginate».
«Perché non prendi esempio da tuo
fratello? A 5 anni è più maturo di te!» mi ammonì Flavio indicandomi Andrea.
Mio fratello era davvero un principino. Vestiva di una camicia bianca ed un
jeans normalissimo. Era davvero splendido.
Finimmo di discutere quando venne
annunciato il volo di mia madre.
Era paradossale. I Moggelli erano
più emozionati di me e di mio fratello! Dopo una ricerca abbastanza confusa, mi
sentii picchettare sulla spalla destra, ed una voce femminile, mi chiamò.
«Alex!».
CAPITOLO
II – Mia madre
Ci voltammo di scatto e vedemmo
mia madre, con il suo sorriso accattivante e un sacco di valigie in mano. Mia
madre era una donna bellissima. Davvero, non lo dico perché è mia madre. I
capelli a caschetto castani chiaro erano la cornice perfetta del viso
aggraziato di una donna obiettivamente giovanile e poco consona ai suoi
quarantaquattro anni. Gli occhi color nocciola, il nasino appena accennato e le
labbra carnose, davano poi il via ad un fisico egregiamente tenuto. Dalle
orecchie penzolavano lunghi orecchini avorio che si sposavano alla perfezione
con il suo tailleur sul giallino pallido.
«Tesoro! Ma usano il
fertilizzante per farti crescere? Sei ancora più grande dell’ultima volta!»
disse abbracciandomi e stringendomi a più non posso. Per un attimo sentii di
soffocare, ma poi fu molto coscienziosa nel lasciare la presa e darmi ossigeno.
Non appena Flavio vide mia madre si mostrò provvisto di cavalleria e andò
subito a prenderle le pesanti valigie dalle mani lanciando un urlo per richiamare
Fabio, reo di non aiutarlo.
Mia madre abbracciò mio fratello
sollevandolo con non poca fatica e apostrofandolo come «giovanotto». Poi, una
volta terminati i familiari da strapazzare, passò ai Moggelli. Flavio si parò davanti a tutti e con il suo
bohemièn, degno del miglior film romantico, disse:
«Signora Fedele, mi chiamo Flavio
Moggelli, lieto di fare la sua conoscenza» e così facendo le fece il baciamano
e le porse una rosa rossa che ardeva di passione.
«E quella dove l’hai presa?»
dissi ridendo. «Non è che l’hai cacciata fuori dal nulla?» proseguii
divertendomi un mondo. Bianca mi diede di gomito.
Mi guardò storto, ma non distolse
la sua attenzione da mia madre.
«Oh signor Moggelli, lei è un
galantuomo! Ma non doveva disturbarsi per me! Anche per l’ospitalità».
«Disturbarsi per una donna come
lei è un onore». Che spettacolo avvilente.
«Lei è proprio un mascalzone»
disse mia madre ridendo. Poi continuò «E chi sono questi due splendidi
ragazzini? Sono figli suoi signor Moggelli?».
«Mi chiami Flavio … comunque … »,
ma non riuscì a terminare la frase, venendo interrotto da mia madre.
«E allora lei mi chiami Federica.
Con questa “signora Moggelli” mi fate sentire vecchia!» disse ridendo.
«Ok» risposero in coro i
Moggelli.
«Comunque» continuò Flavio « lui
è mio figlio Fabio. Ha ventun anni e studia medicina». Che presentazione.
«Lieto di fare la tua conoscenza
Federica» disse semplicemente il ragazzo
«Lietissima caro Fabio. Anche tu
sei un bel giovanotto come tuo padre a quanto vedo! Hai la stessa età del mio
Stefano!».
«Eh
eh eh … » rise Flavio. Chissà
se era davvero convinto di essere ancora un giovanotto.
«Io sono Bianca, signora Fedele
».
«Ancora con questa signora
Fedele? Bianca, dammi del tu e chiamami Federica!».
«Ok … Federica». Bianca era più a
disagio di me. Era arrossita parecchio e pareva parecchio nervosa. Avete
presente quei risolini abbastanza timidi? Be’, li stava emettendo ormai da
qualche secondo.
«Bianca, sei bellissima! Flavio,
la ragazza ha il fisico di una modella e il viso di un’attrice!».
«Federica, non esagerare, così mi
metti in imbarazzo» disse Bianca abbassando lo sguardo e lasciando trasparire
un minimo di soddisfazione personale.
«Ma quale imbarazzo? Sei divina
mia cara. Mi ricordi un po’ me quando avevo la tua età».
Poi toccò a Sergio. «Io-Io mi
chiamo Sergio di Verna, ho trentuno anni e sono l’assistente burocratico del
detective Moggelli». Sembrava un provino per quei reality show di basso rango.
«Piacere di conoscerti Sergio.
Sei perfetto anche tu». Inutile dirvi che Sergio arrossì. Già era timido e
impacciato normalmente. Figuriamoci se poi una donna gli faceva un complimento.
Rischiavamo l’esplosione.
«Bene, ultimate le presentazioni»
disse Flavio «direi che è ora di pranzo. Andiamo a casa. Naturalmente Federica,
ci darai l’onore di essere nostra ospite». Flavio così non l’avevo mai visto.
Ma cos’era? Aveva ingoiato un libro che si occupava di galateo?
«Il dolce però» interruppe mia
madre «è affar mio. Ho portato alcune specialità dolciarie giapponesi. Sarei
contento se voi assaggiaste».
«Con estremo piacere!» annunciò
entusiasta Flavio. Figurarsi, quando c’è da mangiare non lo ferma nessuno.
Arrivati a casa pranzammo tutti
insieme. C’era il clima di un giorno di festa. Mi piacque il modo in cui
accolsero mia madre. Bianca le fece vedere la casa, Fabio le mostrò il letto
dove avrebbe dormito, mentre Flavio continuava a fare dialogo in modo amabile e
sciolto.
Andrea fu subito impaziente di
raccontarle la sua esistenza a Torino. Le raccontò delle avventure da lui
vissute. Mia madre prima lo fissò, poi fece schioccare un bacio sulla sua candida
fronte e, rivolgendomi uno sguardo, mi disse: «tu stagli sempre dietro,mi
raccomando. Ha insistito per venire con te, ma ha corso già molti rischi, lo
sai?».
«Lo so, ma come hai detto tu, ha
insistito per venire con me e non c’è stato modo di dissuaderlo. E’ normale che
nel lavoro di un detective vi siano attentati, casi complessi e a volte si può
rischiare. Ma ti assicuro che Andrea ha fegato da vendere e comunque i pericoli
ai quali alludi tu non sono veri pericoli».
«Ok» disse esasperata. «Dimmi un
po’ … tu come ti trovi?».
«Abbastanza bene. Torino è la mia
città, ormai».
«Ho letto molti dei tuoi casi su
internet! In redazione mi hanno fatto tutti i complimenti! Il mio bambino!»
disse accennando un pianto.
«Mamma! Che fai?» le dissi mentre
correva a soffocarmi ancora una volta.
Durante il pranzo parlammo del
più e del meno. Mamma raccontò la sua vita negli ultimi mesi. Flavio aveva
quasi un’adorazione per lei. Ascoltava i suoi racconti con entusiasmo e
partecipazione. Stessa cosa facevano Bianca e Fabio, mentre io, che li avevo
ascoltati già milioni di volte in tenera età, pensavo a quanto ancora sarebbe
dovuto durare quello strazio. Era bello stare con mia madre, ma avete presente
i racconti di Zio Paperone quando narra delle sua vicende nel Klondike? Ecco,
mia madre mi aveva narrato le sue avventure almeno il triplo delle volte.
In ordine, c’era la storia
dell’intervista alla fotomodella isterica la quale mandò a quel paese uno dopo
l’altro tutti i suoi principali manager. Poi venivano le due storie collegate
tra loro, quella del servizio sui posti di guerra e l’altro su un articolo che
la fece processare davanti alla corte di Tokyo per calunnie ad un famoso
politico giapponese, reo secondo mia madre, di aver falsato le elezioni. Anche
se non le avevo ascoltate direttamente, mia madre me le raccontava a valanga
quando ci sentivamo al telefono, o via mail.
«Mio figlio invece » terminò
mentre ero distratto «non mi racconta mai nulla. Non mi dice come sta, non mi
dice di che casi si occupa. Flavio io non ne so nulla delle vostre imprese!»
disse puntandomi il dito contro.
«Alex!» mi rimproverò Bianca «fai
il detective, risolvi casi difficili e non dici nulla a tua madre?».
«Be’ il fatto è che … » tentai di
giustificarmi imbarazzato.
«Non c’è nessuna giustificazione!
Come mai non aggiorni tua madre dei casi che fai?» mi domandò in aria da
maestrina.
«Ma li legge su internet!».
«Ma forse preferirebbe ascoltarli
da te, non credi?». Al rimprovero collettivo si era unito anche Fabio.
Nel bel mezzo del rimprovero,
fortunatamente squillò il telefono.
«Il lavoro chiama Federica, mi
spiace» si giustificò Flavio.
«Oh, la capisco Flavio».
«Detective Moggelli, al suo
servizio» rispose.
Dall’altro capo dal filo, si
udivano numerosi cambi di tono, come quasi in un film drammatico. La voce,
tipicamente femminile, di tipo giovanile, era passata in pochi secondi da
drammatica a paradossale, dall’assurdo al tragico. Alla fine di una
conversazione che pareva non finire mai, Flavio Moggelli riagganciò il telefono
congedandosi con un lampante «ci vediamo tra poco».
Mi guardò con la faccia di chi
non ha tempo da perdere, e mi disse:
«Preparati ragazzo, abbiamo un
caso».
«Di che si tratta?».
«Risparmia le domande per dopo.
Adesso, seguimi».
«Posso venire anch’io?». La voce di
mia madre aveva riempito i due secondi di silenzio venutosi a creare dopo il
dialogo da me raccontato poche righe fa.
«Nemmeno per sogno!» dissi
indignato. Figuriamoci se permettevo a mia madre di impressionarsi con cadaveri
e roba del genere.
«Perché no?» chiese quasi
supplicandomi «seguo sempre i polizieschi in tv e sono sicura di sapere come
comportarsi!
«Non puoi perché … », ma fui
interrotto da quel genio che tutti chiamavano Flavio.
«Perché no?».
«Cosa?» mi girai dietro quasi
balbettando per lo stupore.
«Federica, sei la benvenuta!»
disse a voce alta e trionfante.
«Grande!». Mia madre si lasciò
andare ad un grido liberatorio dei suoi, come per stemperare il clima che si
viene a creare prima di ogni caso. Insomma, alla fine le circostanze vollero che venne con noi.
CAPITOLO
III – Il mistero delle rose
La signorina che aveva avuto
l’idea di chiamarci, era una ragazzetta sui ventidue anni, con lunghi capelli
biondi e ricci e con un accenno di simpatiche lentiggini. Gli occhietti dolci,
completavano un quadro impreziosito da labbra carnose e da un piccolo nasino
aquilino.
«Grazie per essere venuti subito»
esordì facendoci entrare nel suo appartamento, una piccolissima abitazione
nella quale viveva da sola per studio. «Mi chiamo Arianna Cartinella, e sono
una studentessa universitaria».
«Grazie a lei per essersi rivolta
a noi» disse Flavio con charme, lasciandosi andare sul divanetto color porpora.
«Lui è un mio amico, Alex Fedele e lei è sua madre, la signora Federica». Io
sorrisi, mentre mia madre si limitò ad aggiungere «molto lieta» al dialogo
delle presentazioni. Fu presentata anche
Bianca, che, come me, sorrise in modo candido e innocente.
«Qual è il suo problema? Il
motivo della chiamata, intendo» continuò Flavio toccando e ritoccando un prezioso
soprammobile in legno che raffigurava un vecchio elefante indiano.
«Be’, signor Moggelli … il fatto
è che mi sono trasferita qui da poco. Io vengo dalla Calabria, ma per motivi di
studio sono dovuta arrivare fin qui. In pratica, ogni sera ricevo un mazzo di
rose rosse ma poi … ».
«Poi?» dissi con curiosità.
«E sta zitto!» mi disse Flavio
con la sua solita e proverbiale gentilezza. Spero voi cogliate la sottile, anzi
trasparente ironia.
«Be’, ogni sera trovo nel mazzo
la lama di un pugnale. La settimana scorsa sono arrivata addirittura a procurarmi
un taglio profondo» disse indicandoci l’indice della mano destra.
«Perbacco! Una lama dice? E le ha
conservate tutte?».
«Non tutte, perché all’inizio non
prendevo in considerazione l’idea di ingaggiare un professionista come lei, ma
poi … ».
«Una domanda» interruppe mia
madre «da quanto tempo riceve questi fiori … pericolosi?» disse aggiungendo un
risolino.
«Mamma, così disturbi le
indagini» tentai di rimproverarla, ma Flavio mi apostrofò come «irrispettoso» e
mi ammutolì.
«Da circa un mese».
«E da quando è qui per motivi di studio?»
continuò mia madre per l’occasione improvvisata detective.
«Vede, è da circa un mese e
mezzo».
«Quindi,» continuò Flavio «è
probabile che lei abbia avuto modo di far conoscenza, di iniziare qualche
relazione amorosa, non è vero?» disse sgomitando energicamente alla ragazza con
un sorrisino da ebete.
«Non credo» interruppi
sorridendo.
«E perché no?» rispose a tono
lui.
«In un mese e mezzo una persona
potrebbe anche innamorarsi di un’altra, ma in una casa abitata da una persona
così lontana dalla propria città natale, noteremmo sicuramente qualcosa che ricordi
i momenti felici passati insieme al suo innamorato. Sarebbe solo per …
ambientarsi di più. Nell’abitazione non vedo nessuna foto che possa lasciar
trasparire una relazione e anche nel cestino non vedo foto strappate e non noto
nemmeno segni di stizza per una relazione finita. Inoltre …» fui interrotto da
Flavio, che sbuffò come un bambino al quale hanno tolto il giochino preferito.
«Bah! Non dire sciocchezze,
detective in miniatura!» mi apostrofò toccandomi in segno di sfida sulla spalla
«potrebbe aver già svuotato il cestino, oppure … ».
«Per la miseria, ragiona un po’!
Ma ti pare che una studentessa della Calabria possa riuscire, qui a Torino, a
trovare un ragazzo che gli piace e possa fidanzarsi con lui … in un mese e
mezzo? Senza contare che come ho detto, non c’è nessun indizio di un papabile
fidanzamento».
«Ha ragione il ragazzino» disse
timidamente Arianna. «Non … non ho ancora conosciuto nessuno da quando sono a
Torino».
«Visto?».
«E sta zitto … » disse sottovoce
Flavio. Poi continuò a parlare «Quindi il nostro compito sarebbe quello di
capire cosa sta succedendo, giusto? ».
«Capire cosa sta succedendo,
esattamente» disse veloce e tremante la ragazza.
«Scusi, può dirci il nome del
fiorista?»chiesi.
«Subito» disse prendendo in mano
un bigliettino color avorio. Ce lo mostrò. Su di esso c’era scritto:
CIRCE
L’originalità non era il loro
forte.
Visto il bigliettino, lo presi in
custodia ed io e tutta l’allegra combriccola ci dirigemmo verso il fiorista.
“Circe” era un negozio di fiori
piuttosto desolato. Non sembrava essere molto curato. L’insegna era scolorita
da parecchio tempo, i fiori erano poco curati e la vetrina era parzialmente
rotta, probabilmente da qualche esaltato che l’aveva presa a sprangate.
Entrammo, e un campanello posto appena sopra la porta, uno di quelli che andavano
di moda nei gloriosi ’40 nelle botteghe artigianali, annunciò il nostro arrivo.
In verità entrammo solo io e Flavio, mentre
mia madre e Bianca rimasero in macchina.
«Buongiorno, chi è il titolare?»
chiese Flavio in modo spavaldo.
«Sono io» disse timidamente un
ragazzo sulla trentina, con i capelli mal pettinati e la barba incolta. Vestiva
di un gilet verdino e aveva una camicia gessata. A prima vista sembrava più
un broker di Wall Street che un
fiorista.
«In cosa posso esservi utile?»
disse scavalcando il bancone con un’agilità del tutto anomala guardando il suo
fisico non certo aitante.
«Lei conosce una certa Arianna
Cartinella?» chiese Flavio mettendosi una mano sulla barba incolta.
Intanto me ne stavo a guardare i
fiori tenuti male e trattati peggio. Più che il negozio di un fiorista, mi
sembrava quello di un disinfestatore.
«Arianna … no, mai conosciuta, mi
spiace».
«Ascolti, ci risulta che ogni
giorno un tale venga qui e ordini un mazzo di rose rosse. La destinataria è
sempre questa Arianna della quale vi ho appena parlato, ma puntualmente, il
mazzo di rose ha al suo interno la lama di un pugnale».
«Oh, misericordia!» apostrofò in
modo effeminato. «No, non la conosco proprio, mi spiace».
«E cosa mi dice dell’uomo che
ordina i fiori? Le sarà certamente capitato di notare un tizio che ordina tutte
i giorni lo stesso mazzo di rose rosse. La storia va avanti da un mesetto»
affermai guardandomi l’orologio.
«Be’ … in effetti … ».
«Allora? Sa dirci qualcosa?».
«Sì» disse avvicinandosi con
fermezza al mio orecchio. «Ma non dite niente alla polizia, per favore! A
proposito, con chi ho il piacere di … ».
«Detective Moggelli» disse Flavio
nervosamente
«Ah! Un detective!».
«Già. Allora?».
«Allora … posso dirvi solo che è
un tale che camuffa la voce e che chiama qui ogni giorno!» concluse affannato
il fiorista.
«Cosa?» dissi con rabbia «chiama
soltanto? Non è mai venuto di persona?».
«Mai, nemmeno una volta».
«Capisco. Credo lei sia d’accordo
nel» mi avvicinai lentamente al suo orecchio «far mettere i telefoni sotto
controllo dalla legge».
«Ve lo proibisco! Non se ne parla
nemmeno! Qui ci vado di mezzo io!». Il fiorista cominciò ad urlare agitando
vorticosamente le mani.
«Stia zitto, dannazione!» Flavio
gli aveva tappato la bocca ed ora lo guardava con un’aria mista tra il tragico
e il disperato.
«Non potete mettere … ».
«Ascolti» dissi in modo
aggressivo sempre attaccandomi al suo orecchio «c’è la vita di una ragazza in
pericolo. Non sappiamo chi sia quel folle che inserisce lame nei fiori e
dobbiamo scoprirlo. Che fa? L’omertoso? C’è in ballo la vita di una studentessa
universitaria!».
«E … va bene! Ma come farò?».
«In che senso?».
«Verrà sicuramente a scoprirlo e
… ».
«Stia tranquillo» intervenne
Flavio in modo sicuro «La polizia manderà degli uomini in borghese che fingeranno
di essere suoi parenti. Lei dovrà assecondarli in tutto e per tutto, chiaro?».
L’uomo deglutì.
Passarono giorni. Giorni
interminabili nei quali anche la studentessa universitaria fu protetta dalle
forze dell’ordine. A casa sua mandarono un’agente di polizia. Una bellissima
donna dai capelli mossi che finse di essere un’amica di Arianna. Furono giorni
nei quali mi sentii abbastanza a disagio. Mia madre mi trattava ancora come un
bambino. Mi tagliuzzava la carne nel piatto, mi puliva la bocca col fazzoletto
se l’avevo sporca, mi offriva mentine e caramelline varie, ed io dovevo
assecondare il tutto con un sorriso. Volevo bene a mia madre, ma addirittura il
bacetto della buonanotte, a diciotto anni, mi sembrava davvero eccessivo.
Alcuni giorni dopo però, Giuseppe
Novato entrò nello studio di Flavio. L’agente indossava un completo grigio senza
cravatta e sembrava, a giudicare dalle vistose occhiaie presenti sui propri
occhi, abbastanza provato.
«Come va detective Moggelli?».
«Potrebbe andar meglio Novato.
Allora, hai portato la documentazione sul caso di cui parlavamo al telefono
ieri sera?».
«Certo» disse aprendo un
fascicolo colmo di fogli scritti e riscritti.
Lo osservavo con ammirazione. In
una delle nostre conversazioni, Novato mi aveva fatto chiaramente capire come la
sua aspirazione, fin da quando era stato bambino, fosse diventare poliziotto. E
ce l’aveva fatta. Mai rinunciare ai sogni, segnatevelo in calce da qualche
parte.
«Il tizio dei fiori chiama tutti
i giorni in una fascia oraria compresa tra le 18 e le 19:45. La localizzazione
dovrebbe essere a circa una dieci di chilometri da qui. Sorvolo sulle
informazioni futili, ma il fatto che più ha sconvolto la polizia è un altro».
«E cioè?» chiesi curioso.
«L’appartamento dal quale sembra
provenire la chiamata, pare essere abitato da un tale di nome Fabrizio Dorati.
Dorati ha precedenti penali come rapinatore, fuga a mano armata, furto di un
furgone portavalori e infine … stupratore».
«Accidenti!» disse Flavio con un
pizzico di paura in gola. La parola “stupratore” aveva cominciato a far sudar
freddo tutti noi.
«E’ stato dentro per la bellezza
di quindici anni. Uccise una ragazza nel parco di Torino violentandola e
successivamente inferendo sul corpo con delle pietre molto pesanti. Inoltre ha
partecipato a numerosi stupri di gruppo anche fuori città. E’ praticamente un
malato, anche se la perizia psichiatrica ha evidenziato il soggetto come “capace
di intendere e di volere”».
«”Capace di intendere e di volere”?»
dissi incredulo ad alta voce.
«Alex, non ci capiscono niente,
abbi un po’ di comprensione» rispose ironicamente Novato.
Ma il problema era un altro.
Arianna era in pericolo. Cosa significava la lama nelle rose? Aveva un vero e
proprio significato o era solo un pretesto per minacciarla? E soprattutto,
quanto tempo ci sarebbe rimasto ancora per agire?
ANTICIPAZIONE EPISODIO 27: C'è un caso da risolvere! Alex e Flavio lo sanno e vogliono assolutamente salvare la vita ad Arianna e scoprire la verità sul caso dei "fiori taglienti". Ma c'è una sorpresa per Alex e, sfortunatamente per il ragazzo, non è affatto positiva. Il passato chiama e deve per forza rispondere ... ALEX FEDELE EPISODIO 27 LA VERITA SUL PASSATO(2°Parte), Solo qui a partire dal 18 Febbraio! NON PERDETELO PER NESSUNA RAGIONE!
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