LA
LEGGENDA DEL GABBIANO NERO(1°parte)
CAPITOLO
I – Una storia poco chiara
L’odore delle
sigarette pesanti fumate da Flavio, fluttuava nell’aria. Bianca si era
lamentata tante volte di quella insostenibile puzza che avvolgeva l’ufficio in
un abbraccio di vapore. Eppure a Flavio, come potrete certamente immaginare,
non importava un bel nulla. Era il suo ufficio, faceva quel che voleva e se
voleva passare la giornata chiuso a fumare sigarette su sigarette poteva farlo.
Flavio era così. In quanto a me, non mi dava molto fastidio la puzza di fumo,
ma avevo una sorta di avversione per le sigarette. Non mi erano mai piaciute.
Ricordo che quando ero piccolo e mio padre fumava sul balcone di casa, mia
madre gli andava dietro e lo rimproverava continuamente. Lo tormentava tanto da
costringerlo a buttare la sigaretta che stava fumando. Ma poi finiva in un
bacio, in un abbraccio. Mi mancano quei momenti.
Quel pomeriggio
non avevamo niente di particolare da fare. Flavio fumava, Bianca leggeva delle
riviste in salotto, mio fratello Andrea era in camera sua perché non voleva
perdersi la maratona di cartoni animati, mentre Fabio era uscito e Sergio se ne
stava in ufficio ad ordinare le pratiche. Nemmeno io avevo niente da fare.
Decisi di staccare un po’, di non pensare per almeno qualche ora ai casi da
risolvere, al PSD, o a qualunque cosa avesse a che fare con quello che sarebbe
poi diventato col tempo il mio lavoro effettivo.
Me ne stavo quindi
anch’io in salotto, seduto sulla poltrona opposta a Bianca e leggevo dei quotidiani
sportivi. Mi appassionava lo sport, in particolare il calcio, ed ero tifoso
della Juventus, una squadra capace di conquistare ben ventinove scudetti con
campioni come Del Piero, Platini, Sivori, Scirea e quant’altro.
«Vuoi un po’ di tè
freddo Alex?» Bianca si era alzata. Aveva riposto il libro che stava leggendo
sul bracciolo della poltrona.
«Sì, grazie. Molto
volentieri» risposi sorridendo.
Mentre Bianca
andava in cucina, le idee su di lei si moltiplicavano. Ero sempre stato un
ragazzo che aveva avuto poco tempo di pensare all’amore. Avevo diciotto anni ed
avevo avuto una vita abbastanza piena. Non mi lamentavo, sia chiaro. C’era
gente che aveva sofferto di peggio, ma non si può dire che la mia esistenza
fosse stata una passeggiata fino ad allora. Da quando ero a casa Moggelli, devo
dire che avevo riacquistato una serenità che a Fondi, mi era mancata. E pensare
che all’inizio temevo che le cose potessero peggiorare. Passare da Fondi,
cittadina di trentacinquemila abitanti a Torino di quasi un milione era
all’apparenza incredibile. Eppure era solo questione di abitudine.
«Grazie mille»
disse prendendo il bicchiere di tè freddo che mi era stato offerto.
«Nulla» disse
Bianca rimettendosi il libro in mano e sorseggiando dal bicchiere.
«Dimmi un po’»
inziai «che libro è?».
«E’ la biografia
di quel famoso scrittore, Ferdinando Magorni»
«Aspetta … Magorni
chi?».
«Hai presente
quell’uomo che l’altra sera a quel talk show in seconda serata? Quello con i
capelli biondi e la barba incolta»
«Ah Capisco. Non è
quello al quale è stato rapito anche un figlio in gioventù?»
«Esatto» disse
chiudendo il libro in modo appassionato. «Pensa che rapirono suo figlio Pietro
quando aveva solo due anni. Non lo vide per ben tre anni. I rapitori non
chiesero nessun riscatto. La polizia riuscì a scoprire la dimora del criminale
solo intercettando una sua chiamata»
«Sì, sì.
Verissimo. Me lo ricordo questo caso di cronaca. Il padre del bimbo fu ripreso
mentre riabbracciava il suo bambino. Ebbe un pianto continuo» dissi annuendo.
«Lo credo bene. Ma
poi come si fa a volere del male ad un frugoletto di due anni?»
«Non lo so
proprio. Al mondo esistono tante persone malate. Probabilmente il cervello gli
si era fulminato»
«Hai proprio
ragione»
«Una volta accadde
qualcosa di simile anche nella mia città natale»
«Davvero?»
«Sì, certo. Un
figlio di un assessore comunale fu rapito mentre suo padre e sua madre erano a
lavoro»
«Lo ritrovarono?»
«Be’ Bianca, ci
vollero ben cinque anni. Il bambino era stato portato da Fondi fino a Latina.
Dista alcuni chilometri. Era rinchiuso
in una baracca di legno abbandonata in campagna. Al momento del ritrovamento
del corpo, il rapitore non c’era. La polizia fece estenuanti appostamenti e
dopo ben quattro giorni gli tese una trappola»
«Hanno ri-
ritrovato il corpo?»
«Già»
«Vuol dire che è
morto?»
«Purtroppo sì. Il
criminale ebbe la crudeltà di picchiarlo ed il bambino, avendo solo quattro
anni non poté difendersi»
Un velo di lacrime
si dipinse negli occhi di Bianca. Quella ragazza aveva una sensibilità
incredibile. Alcune sere prima si era commossa per un film romantico. Ok, forse
nelle ragazze era normale, ma Bianca aveva un’emotività decisamente anormale.
In quel poco che era passato dal mio trasferimento l’avevo vista commuoversi
tantissime volte. Suo padre naturalmente, le dava della sciocca, della bambina.
«No, no, adesso
non piangere. Non era mia intenzione bianca» dissi avvicinandomi a lei.
Per tutta risposta
si asciugò le lacrime con le mani. «Sei uno stupido lo sai?» disse sorridendo
nel pianto.
«Ah, bene. Questa
sì che è una bella notizia!» dissi ridendo.
Scoppiò in una
mezza risata. «Non piangevo per te naturalmente. Piango per quel povero bimbo.
Come si può picchiare una creatura indifesa?»
«Non lo so
proprio. Devi avere una mente malata»
In quel momento scese
Andrea. I suoi piccoli passi sulle scale che portavano al piano di sopra
rimbombarono nell’aria.
«Ciao fratellone.
Da quando sei tornato?»
«Da circa
mezz’ora»
«Hai trovato
quella cosa?»
«Certo che sì»
dissi porgendogli le figurine che mi aveva chiesto. Mio fratello faceva l’album
delle figurine di qualche strano cartone animato di mostri o qualcosa del
genere.
«Grazie
fratellone» disse abbracciandomi e sedendosi sulle mie ginocchia. Poi si voltò
verso Bianca, vide che aveva gli occhi arrossati.
«Bianca, che
cos’hai? Chi ti ha fatto piangere?»
«Nulla di grave
piccolo. Tuo fratello è proprio un birbante»
«E’ stato mio
fratello a ridurti così?»
«Sì, sì. Picchialo
su» disse ridendo.
Mi diede un
piccolo buffetto sulla guancia sinistra.
«Sta mentendo!
Aiuto!» scherzai fingendo dolore.
«Ciao ragazzi,
come va?» Fabio entrò dalla porta riponendo sull’appendiabiti il suo giaccone
di pelle.
«Tutto ok, tu»
rispondemmo in coro.
«Oh, tutto bene.
Ho incontrato una ragazza … solo Alex può capirmi!»
«Perché io scusa?»
chiesi.
«Dico, ti sei
guardato intorno? In questa stanza ci sono quattro persone. Due uomini, che
saremmo noi, un bambino ed una ragazza che non appena vedrebbe la mia nuova
fiamma la troverebbe inadatta a qualcosa»
«Non è vero!»
disse Bianca sorridendo.
«Oh sì che lo è.
Non ricordi la mia ex ragazza? Quella che portai a cena poco prima di partire?
Era bellissima ma tu la giudicasti subito male»
«Se l’ho fatto è
solo per il tuo bene! Non essere ingrato!»
«Sì, come vuoi.
Ascolta Alex, posso parlarti un attimo?»
«Intendi me? A
proposito di cosa?»
«Non fare troppe
domande. Vieni in cucina e parliamo»
«Capisco. C’è
qualche problema?»
«Nulla, nulla.
Solo qualche consiglio. Niente di grave»
«Sei sicuro?»
«Insomma. Vuoi
seguirmi in cucina? Oppure devo rivolgermi a mio padre che mi farà la solita
paternale?»
«Ok. Torno subito»
«Ah, ragazzi,
un’ultima cosa» disse Bianca richiamando la nostra attenzione.
«Sì?»
«Non vedo uomini
qui!» disse scoppiando in una risata.
«Molto spiritosa»
disse Fabio in segno di stizza.
Una volta arrivati
in cucina, Fabio si sedette sul divanetto ed io feci lo stesso accomodandomi
vicino a lui.
«Allora. Di che mi
volevi parlare?»
«Si tratta di
quella ragazza»
«Ti piace eh? Come
si chiama?»
«Il suo nome è
Martina. Di cognome fa Tulberi»
«Capisco. L’hai
incontrata dove?»
«Be’ecco. Era in
biblioteca. Io ero andato lì per consultare alcuni libri della mia facoltà.
Trasportava almeno dieci libri in mano e così mi sono offerto di aiutarla»
«E lei?»
«Lei ha rifiutato,
ma poi l’ho convinta. Mi ha detto di essere figlia di un noto industriale che
lavora all’estero»
«Ok. E quindi?»
«Quindi volevo
parlare con te per sapere cosa fare»
«Non vorrei essere
indiscreto Fabio» dissi passandomi una mano tra i capelli. «Ma io ho diciotto
anni. Tu ne hai ventuno. Se c’è qualcuno che dovrebbe darmi consigli con le
donne quello sei tu»
«Non direi, visto
i risultati»
«Ma scusa, quali
risultati?»
«Quelli che
ottieni con il tuo … carattere particolare?»
«Ma di cosa stai
parlando?» dissi mentre mi veniva da ridere. «Cos’hai fumato prima di arrivare
qui?»
«Mai stato così
sobrio amico mio» disse sorridendo e dandomi una pacca sulla spalla.
«Mi dispiace, ma
non posso aiutarti. Non ho la minima idea di cosa tu stia parlando»
«O fai finta?»
«Ma finta di cosa?
Ma vuoi scherzare?»
«Possibile che tu
non te ne sia accorto?»
«Ma di cosa?»
chiesi spazientito. «Davvero amico, non di cosa tu stia parlando»
«Ok, sappiamo
tutti quali sono i tuoi difetti no? Sei testardo, troppo audace a volte, non
stai mai zitto sulle cose che possono darti fastidio ma … »
«Ma?»
«Non so come, ma
questi tuoi difetti piacciono alle donne!»
«Ahahah! Ma cosa
diamine dici?» dissi ridendo
«Non l’hai notato?
Eppure da una mente acuta come la tua, che risolve i casi più difficili con
facilità, mi sarei aspettato più brillantezza»
«No, dai
sinceramente. E’ uno scherzo?»
«Ti sembro uno che
scherzo?»
«Sinceramente?»
«Ok, lascia
perdere. Mi aiuti sì o no?»
«Se solo capissi
di cosa hai bisogno, molto volentieri»
«Ok. Mi servono i
tuoi consigli per conquistare Martina»
«Io non so niente
sulle donne! Come devo fartelo capire?»
«Ah no? Quando ad
una ragazza cade qualcosa per la strada, tu fai sempre il galante. Attui una
tattica particolare. Non è belo volersela tenere tutta per sé lo sai?»
«Oh mio Dio. Io
non adotto nessuna tattica! Sono fatto così! Sono solo buone maniere. E adesso
se vuoi scusarmi, devo tornare a leggere»
«Altra tattica
vero? Hai sondato ed ora stai cercando di raccogliere vero? Non avrai
rimproveri da parte mia, sappi che sono per te. Dovrai solo affrontare mio
padre. Ma credo ce la farai»
«Cosa?»
«Bianca no?» disse
abbassando la voce
«Cosa c’entra
Bianca?»
«Lo sai che sei un
grande attore?»
«Lo so, mi ha
chiamato Brian De Palma e vuole offrirmi una parte in uno dei suoi film.
Diamine, che stai dicendo?»
«Sei qui da
quando? Da pochissimo no? E hai già fatto colpo su mia sorella! E per questo
che sto chiedendoti consigli».
«Ok, ora posso
esserne certo»
«Di cosa?»
«Che sei tutto
scemo!»
«Non vuoi
credermi? Scusa, perché non provi a ragionare? Hai notato che ogni volta che
siamo a tavola serve per primo te?»
«Stupidate»
«No, che
stupidate? Facciamo un altro esempio ok?»
«D’accordo. Spara»
«In ogni
discussione, in ogni diverbio, in ogni piccola esitazione, lei da ragione a te.
Anche quando hai a che fare con nostro padre. Ti aiuta sempre e … »
«Alt!» lo fermai
prima che potesse continuare a sparate stupidate per tutta la vita «E’ solo una
tua immaginazione. E’ gentile anche con te»
«Sì, ma non guarda
me come guarda te. Capisci che intendo?»
«Per niente. Ma se
il fatto che io comprenda qualcosa del tuo contorto discorso possa aiutarci a
concludere questa conversazione qui … allora posso dire che ho capito»
«Non fare lo
gnorri con me Alex! Sii sincero. Non ti sei mai accorto che ti guarda in modo
diverso?»
«Ma la vuoi finire
di farti i film? Chissà quanti ragazzi ha che gli piacciono. Tra scuola,
pallavolo e cose varie»
«Sarà … ma non c’è
chi sordo di chi non vuol sentire»
«In questo caso il
sordo ha l’apparecchio acustico e sente benissimo»
«Sarà. Se lo dici
tu … »
Ok. Ammetto che
quella conversazione non fu del tutto inutile. E ammetto, anche se solo con
voi, che probabilmente fu una delle più interessanti della mia vita. Negli
ultimi tempi avevo imparato ad apprezzare Torino. Avevo imparato ad apprezzare
Flavio e Fabio. Ero riuscito a trovare dei lati positivi persino nell’ispettore
Ducato. Ma se c’era una cosa sulla quale non mi ero sforzato nel trovare cose
che fin da subito mi piacessero … quella era Bianca.
La voce di Flavio
risuonò nell’aria come un proiettile. Proveniva dal salotto.
«Dov’è quello
scansafatiche?» Sicuramente ce l’aveva con me. Gentile non è vero?
La voce di Bianca
rispose «E’ in cucina con Fabio»
«Bene. Due
scansafatiche in uno. Abbiamo fatto tombola»
Dalla cucina
uscimmo sia io che Fabio. Trovammo Flavio con un foglietto di carta in mano.
Probabilmente l’aveva strappato alla sua agendina. Lo teneva in mano, lo
rigirava, poi lo riguardava e lo rigirava ancora.
«Mi hai chiamato?»
chiesi.
«Diciamo di sì.
Hai intuito ultimamente»
«Visto?»
Mi sedetti sulla
poltrona. Fabio fece lo stesso. Bianca era rimasta esattamente com’era stata
lasciata, con la differenza che non aveva più Andrea sulle ginocchia. Mio
fratello e i suoi cartoni.
«Allora cosa c’è?»
chiesi insistentemente.
«Chiariamoci. Non
volevo questo incarico. Ma poi la voce al telefono si è fatta struggente e
allora … sai come sono fatto»
«Già. Di cosa si
tratta?»
«Non mi ha
spiegato chiaramente. C’era una voce da donna dall’altro capo del telefono che
dicevano di volere la nostra protezione per una maledizione»
«Una maledizione?»
chiese Bianca impaurita.
«Proprio così. La
donna ha detto che i membri della sua famiglia credono che una maledizione li
perseguitino. Lei ha detto di voler dimostrare che non è vero. Ed ha scelto noi
per farlo»
«Quindi» presi a
parlare. «Ci ha chiamati una donna per dirci di dover vigilare sulla sua
famiglia perché incombe una maledizione?»
«Esatto. Che ne
pensi ragazzo?»
«Penso che se
hanno chiamato un motivo ci sarà»
«Non andate!» la
voce di Bianca risultò essere piuttosto agitata.
Sia io che Flavio
che Fabio, ci girammo verso di lei e la guardammo con gli occhi strabuzzati.
«Perché mi
guardate così?»
«Figliola, perché
non dovremmo andare?»
«E … se la
maledizione incombesse poi anche su di noi?»
«Ma non dire
sciocchezze! Le maledizioni non esistono. Sono solo raccontini che fanno per
spaventare creduloni come te!»
«Non è vero! La
magia nera esiste. Le maledizioni pure. Tu cosa ne pensi Alex?»
«Stento a crederlo
ma sono d’accordo con Flavio. Le maledizioni non esistono a questo mondo. Tutto
ciò che accade è spiegabile con razionalità»
«Ed ecco una delle
tue frasi ad effetto. Pensi di essere in un film?» Flavio e i suoi sorrisini
stentati.
CAPITOLO
II – I Pelviani
La famiglia
Pelviani viveva fuori città. In una villetta di campagna insediata in mezzo a
tanti alberi secchi e colmi di sterpaglie. Non era esattamente la casa dei miei
sogni all’apparenza. Per arrivare all’abitazione bisognava percorrere una lunga
strada stretta e attraversare le insenature della campagna. Successivamente
bisognava attraversare un ponte, uno di quei ponti vecchio stili, fatti di
corde rattoppate centinaia di volte. E’ un miracolo come quel giorno la
macchina non cadde nel vuoto mentre la percorrevamo. Successivamente, dovevi
attraversare un’altra decina di chilometri nei quali si avvicendavano alberi
storpi,erbacce, fiori appassiti e verde poco curato, per arrivare in una sorta
di piccolo boschetto. Dopo il boschetto c’era questa villetta color salmone che
spadroneggiava con tutta la sua imponenza in quel luogo lugubre e decisamente
poco raccomandabile. In macchina
c’eravamo io, Flavio, Bianca, Andrea e
Fabio. Sergio non venne. Rimase in ufficio a svolgere il suo lavoro di
riordinare le pratiche.
Non appena
arrivammo alla fine del boschetto, trovammo davanti alla soglia della porta,
schierata come una squadra di calcio, la famiglia dei Pelviani. Erano
tantissimi e ci avevano dato appuntamento verso le sei della sera. Avevano
detto di stare attenti perché in quella zona a quell’ora c’era poca visibilità.
Non per offendere, ma credo che la poca
visibilità ci sarebbe stata anche se fossimo andati alle sei del mattino.
Parcheggiammo in
una piazzola dove erano riposte anche altre macchine. Una Chevrolet, un
Maggiolino e vidi anche una Mercèdes. Dovevano passarsela piuttosto bene quei
tizi. Scendemmo dalla macchina. Ci stiracchiammo per il viaggio e una donna
sulla sessantina, con capelli bianchi e vestiti a dir poco funerari ci venne
subito incontro.
«Sono contenta
abbiate accettato il mio invito signor Moggelli» esordì. Aveva la voce roca e
spezzata dalle fatiche degli anni.
«Di nulla signora,
si figuri. Allora … »
«Cominciamo le
presentazioni» lo interruppe la signora.
«Mi chiamo Celine
Maiori, in Pelviani». Poi continuò a parlare.«Quei due ragazzoni lì di fronte
la casa sono i miei figli. Roberto e Franco. Sono arrivati quasi insieme.
Roberto qualche ora prima a dir la verità, ma Franco ha portato i biscotti
della pasticciera. Sono due cari ragazzi!» disse indicando due uomini. Il primo
aveva all’incirca quarant’anni. Me l’accorsi dalle rughe che gli solcavano il
viso. Il secondo era nettamente più giovane. Non doveva avere nemmeno
trent’anni. Per essere fratelli erano completamente diversi. Roberto, il
quarantenne, aveva i capelli castano scuro, abilmente pettinati. Era rasato e
sembrava appena uscito da una festa. Franco invece, il secondogenito possedeva
un aspetto ben più che trasandato. Aveva lunghi capelli ricci biondi, la barba
lunga che definire incolta sarebbe stato usare un gentile eufemismo.
La vecchietta
continuò «Poi c’è mio nipote con sua moglie. Si chiamano Nestore e Lucia» disse
indicando un uomo della stessa età di Roberto con dei capelli brizzolati ed una
donna più giovane con dei capelli rossicci.
«Poi quell’uomo
laggiù che vedete vicino alla porta» disse indicando un robusto figuro
appoggiato con la spalla contro il cornicione «è mio genero Enrico, il fratello
del mio ormai defunto marito. Mentre quei ragazzi dietro Nestore sono la
ragazza del mio Franco, Eva, e il migliore amico dei miei figli, Salvo»
concluse indicando una ragazza con dei folti capelli neri ed un ragazzo calvo
con gli occhiali. Erano molto giovani.
Dopo le dovute
presentazioni, ebbe la dignità di chiedere a Flavio: «Chi sono questi ragazzini?»
«Due di loro sono
miei figli, mentre quegli altri due sono due nostri amici. Uno di loro è un
detective mandato alla mia agenzia per un progetto ministeriale. Ma è una
storia lunga signora, non voglio annoiarla» Bella presentazione eh? Ricca di
particolari. Devo annotarmi di complimentarmi con lui.
Entrati in casa,
la signora Celine ebbe la straordinaria idea di farci cenare.
«Ma signora, sono
solo le sei e trenta del pomeriggio»
«Signor Moggelli»
fece lei girando il capo verso destra «L’ho ingaggiata per la sua esperienza.
Ma questa è casa mia e si fa come dico io. Si cena tra cinque minuti. E’
chiaro?»
«Chiaro» Flavio
ingoiò la pillola.
Ci sapeva fare la
nonnetta. Niente male. Forse avrebbe avuto successo in politica. Chissà.
Cinque minuti dopo
tutta la famiglia Pelviani, noi compresi eravamo accomodati in sala da pranzo,
una larga e grossa stanza dipinta di un rosaceo acre e molto pallido. La
signora Celine aveva cucinato per tutti. Non so dire bene cosa fosse. Avevo una
fame da lupi. Ma probabilmente era stufato di verdure con dei pezzi di pane
all’interno. Qualcosa del genere insomma.
«Veniamo al motivo
del mio ingaggio signora» chiese Flavio.
«Certo signor
Moggelli, certo» fece lei sedendosi. «Prima di cominciare, vorrei dire che io
l’ho convocata qui senza il consenso dei miei familiari. Loro erano
assolutamente contrari al suo ingaggio»
«Ah davvero? E
perché mai?» chiese Flavio guardando la folla.
«Perché non
volevano che un estraneo mettesse becco nelle cose di famiglia» rispose
l’arzilla signora. «Mi ascolti. Il motivo per il quale ho riunito tutti qui è
dovuto alla mia voglia di andare in pensione. Come le ho accennato a telefono,
sono la CEO di una grande azienda a livello nazionale che si occupa di catene
alimentari. Ho sessant’anni e non ho più il fisico per occuparmi di queste
questioni delle quali ormai mi occupo da più di trentacinque anni. Perciò ho
convocato tutta la mia famiglia qui per eleggere un nuovo CEO che guidi
l’azienda come ho fatto io in tutti questi anni»
«Capisco signora.
Ma ignoro ancora il motivo del mio incarico»
«Vede, detective.
Sulla nostra famiglia sembra aleggiare una stupida maledizione»
«Non è stupida»
Franco, il secondogenito aveva parlato.
«Stai zitto
figliolo. Come le stavo dicendo detective, c’è questa leggenda di questa
maledizione che dice che ogni dieci anni in una precisa data uno dei componenti
della nostra famiglia debba essere ucciso da un gabbiano nero»
«Mi perdoni» dissi
«Da un gabbiano nero?»
«Sì figliolo, da
un gabbiano nero»
«Mi scusi, ma
com’è possibile?»
«E’ una vecchia
storia. Dovete sapere che mio marito, quando era in vita era un inguaribile
donnaiolo. Un giorno mi tradì con una donna più giovane di me. Stiamo parlando
di circa vent’anni fa, quindi è passato molto tempo.»
«E cosa c’entra il
gabbiano signora?» chiese Flavio.
«Mi lasci finire
detective»
«Oh, certo. Chiedo
scusa»
«Mio marito ebbe
un rifiuto da quella giovane e abusò di lei in modo piuttosto violento. Alcuni
giorni mio marito fu aggredito in un hotel nel quale si trovava per lavoro da
un gabbiano nero. Non resistette e morì per tagli alla gola, recisioni di
arterie e cose varie nelle quali voi investigatori privati sguazzate»
«Ok, ma perché
proprio un gabbiano?»
«La stampa
cominciò a dire che mio marito aveva sulla gola dei segni simili a dei piccoli
artigli. Così si formò la leggenda del gabbiano nero. Si dice che quella donna
si sia reincarnato in quel volatile»
Gli sguardi di
tutti i presenti si abbassarono. Bianca rabbrividì. Me lo accorsi perché
eravamo seduti vicino e la sentì deglutire in modo nervoso.
«Poi dieci anni fa
fu ucciso anche mio figlio. Il mio primogenito» disse la signora. «Si chiamava
Maurizio ed era davvero un bravissimo ragazzo. Anche lui morì in circostanze
simili a quelle del padre. Inutile dirvi che la stampa farneticò anche su
quello»
«Mi dispiace molto
signora» aggiunse Flavio.
«Non deve
detective. Le persone sono un po’ come i film. Iniziano, hanno i loro momenti
al vertice e poi si concludono»
«Mi scusi, ma
perché ha scelto questa data per chiamare il detective?» chiesi candidamente.
«E’ ovvio ragazzo.
Voglio dimostrare alla mia famiglia che, pur essendo tutti riuniti, la
maledizione è solo una gigantesca panzana fatta per attirare i creduloni».
«Chiaro» Hai
capito la nonnetta.
Passammo il resto
della serata in modo abbastanza tranquillo. La famiglia Pelviani godeva di
un’ottima reputazione alle orecchie altrui, ma era la classica famiglia che si
vede nei telefilm. Sincera, piena zeppa di problemi e con dei componenti a dir
poco bizzarri. La tensione salì verso la fine della cena. Franco Pelviani,
terzogenito di Celine e Enrico, fratello di Rocco Pelviani, capofamiglia ucciso
dalla leggenda, ebbero una discussione piuttosto colorita. Tutto nacque quando
Enrico sentì dire sottovoce queste parole da suo nipote: “l’azienda sarà mia”.
L’uomo cominciò a sbraitare ed ebbe,secondo me, una reazione decisamente
eccessiva. Le urla si sentirono anche nel paese affianco, gli sguardi dei due
si fecero di fuoco con Enrico che accusava suo nipote di essere interessato
solo al lavoro di CEO della famiglia e a null’altro. Dal canto suo, Franco,
sosteneva che lo zio era venuto di nuovo in Italia dopo ben cinque anni in
America, solo per questioni di interesse. Insomma, se le cantarono per bene.
Tutto questo fino a quando Franco decise di smettere di parlare con quello che
fino a poco prima considerava un alleato. Si alzò di scatto dalla tavola e urlò
fortissimo la frase “vado nella mia stanza”. A ruota lo seguì anche la sua
ragazza, Eva, che cercava quantomeno di farlo ragionare.
«Tutti così questi
ragazzini. Credono sia tutto pronto per loro». Enrico si diresse a Flavio che
rispose con un imbarazzato “sì”. In realtà non era l’unico in quella
condizione. Voglio dire … non era l’unico ad essere imbarazzato. Ci si
imbarazzava sempre quando si litigava in famiglia, in modo particolare se non
era la tua famiglia.
Finita la cena, la
signora Celine aveva proposto di discutere del caso del quale dovevamo
occuparci, in salotto. Forse pensava di poterci spiegare meglio cosa fare,
forse voleva costituirsi una sorta di base per potersi comportare mentre
eravamo lì. Chi lo sa. L’unica cosa che so è che quella sera, alle sette
spaccate, non avvenne nulla di tutto questo. Un urlo femminile lacerò il cielo
e si digrigno tra le nostre sensazioni. Non era un urlo di gioia o meglio, di
euforia. Era un urlo di terrore e proveniva dal piano di sopra, dov’erano
situate le camere da letto. Tutta la famiglia, compresi noi, accorse subito.
Trovammo la porta della camera che era stata assegnata a Franco completamente
spalancata e, la bella Eva, sdraiata con le mani insanguinate accanto al suo
corpo.
«Chiamate subito
la polizia!» urlò Flavio.
Mi avvicinai al
corpo per vedere se respirasse ancora. Purtroppo non ci fu nulla da fare. Eva
teneva la testa del suo amato tra le mani e piangeva su di essa come se questo
potesse aiutare Franco. In realtà avrebbe sicuramente aiutato sé stessa.
Piangere in queste circostanze fa bene. Davvero.
La cosa che mi
stupì di quella famiglia è che tutti si commossero. Chi scoppiò in lacrime, chi
si lasciò andare ad imprecazioni al cielo, chi si allontanò dalla stanza. Solo,
Celine, la madre di Franco era riuscita a rimanere impassibile, quasi come
fosse di ghiaccio. Non una lacrima, non una imprecazione, non un sussulto.
Sembrava che per lei fosse tutto normale. Strano. Guardava fisso il cadavere di
suo figlio.
Flavio si avvicinò
al corpo. Io pensai a trascinare Eva. Non poteva stare lì, ci sarebbe stata
solo d’intralcio. Franco era morto per una recisione delle arterie del collo.
Vicino la gola, quasi all’altezza dell’inizio del busto, c’era un profondo
taglio adunco. Non ci spiegammo subito cosa fosse. Poi si avvicinò Nestore, il
cugino della famiglia Pelviani e urlò a squarciagola: «Ha la forma di un
becco!».
ANTICIPAZIONE EPISODIO 8: Maledizioni e paure, angosce e tormenti, facoltosi nella seconda parte di questo intricatissimo caso. E' davvero il gabbiano nero, l'autore dei delitti nella famiglia dei Pelviani? Venite a scoprirlo con Alex! ALEX FEDELE-EPISODIO 8: LA LEGGENDA DEL GABBIANO NERO(2°parte).
Solo su questo blog, a partire dall' 8 Ottobre. NON MANCATE!
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