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sabato 26 maggio 2012

Alex Fedele: Guerra al Clan(3°parte)#39 (seconda stagione)


GUERRA AL CLAN(3°parte)

Cos’è successo nelle prime due parti?: All’ufficio di Flavio arriva un uomo insicuro, goffo e distratto che vuole riprendere i rapporti con sua moglie. Il problema però è che non parla con lei da quindici anni e nel frattempo la donna si è trasferita ad Udine, così ci incarica di trovarla, visto che lui non ha la più pallida idea di dove sia. Andati ad Udine però, all’indirizzo del suo posto di lavoro, scopriamo che non che la signora Draschi non lavora lì. Cerchiamo allora su elenchi telefonici e svolgiamo alcune ricerche, ma niente. La donna sembra sparita. Intanto Baselli ci dice di avere l’indirizzo di sua moglie e di essersene precedentemente dimenticato. Mentre ci rechiamo al posto, la macchina sembra avere qualche problema e così ci fermiamo. Meno male che siamo abbastanza lontani, perché la macchina di Flavio si avvolge nelle fiamme. Dov’è la signora Draschi? E cosa significa tutto questo?



CAPITOLO IV – Fuoco, fiamme e paura

Mentre le fiamme avvolgevano la Croma, Flavio urlava e il fuoco ci bazzicava negli occhi, cominciai a pensare a Baselli e al suo strano modo di comportarsi. Sembrava atipico, strano, quasi poco incline alla normale relazione sociale con terzi. Si era esposto relativamente poco da quando era con noi e non mi era poi così simpatico. La sua goffaggine lo rendeva discretamente buffo, ma di solito le persone goffe non sono sempre simpatiche.
«Adesso siamo fottuti» disse Flavio a bassa voce.
«Già. La macchina è andata. Dille definitivamente addio».
«Sei di consolazione».
Grazie ad alcune sterpaglie e alla pioggia che decorava il pantano, l’incendio fu domato. Baselli si era tolto la giacca a vento e aveva cominciato a far vento sulle fiamme, quasi per cercare di accentuare ancor di più l’incendio. Si era subito scusato poi, quando era stato ripreso in modo veemente da un Flavio decisamente su di giri.
«Non ci resta che chiedere aiuto» commentò Flavio. «Torniamo indietro. Seguitemi».
«Sarebbe inutile tornare indietro» affermai tenendo lo sguardo sui rottami dell’auto incenerita. «Non vedresti bene, ormai è buio».
«Genio, guarda che anche se vai avanti c’è poca luce».
«Lo so» asserii «ma noi indietro ci siamo già stati e non c’è nulla a parte alberi, case abbandonate e vecchi fossati».
«Quindi tu andando avanti …».
«Spero di trovare aiuto».
«E se non lo trovassimo?».
«Allora aspetteremo il giorno. Che ore sono?».
«E’ ancora notte fonda. Saranno le due».
Ci incamminammo quindi in quella lugubre e triste strada. Ogni nostro passo affondava nella fanghiglia umida e ci rendeva stanchi ed esausti anche solo di respirare.
«Ma quando arriviamo?» domandò Baselli.
«Lei si tappi la bocca e non parli proprio. E’ soprattutto non rompa le scatole con il suo …».
«Flavio» lo ripresi. Gli feci cenno con lo sguardo di calmarsi. La sua vena negativa condizionava ancora di più la situazione.
«Cosa vuoi? Devo sfogarmi. Nella macchina c’erano anche i cellulari,effetti personali … tutto è andato perso per colpa di questo idiota! Se lei avesse saputo spiegarci il caso con maggior attenzione» disse rivolgendosi a Baselli «adesso non saremmo in questa situazione. Si è presentato con un problema, ci ha dato un indirizzo che non corrisponde a verità ed ora ne ricaccia fuori un altro perché afferma di essersene dimenticato! A cosa le servivano due detective se sapeva già dove abitava sua moglie?».
«Il fatto è che non sapevo in che stato l’avrei trovata …».
«Si spieghi» incitai.
«Il fatto è che tutti i familiari di mia moglie erano preoccupati per lei e adesso hanno incaricato me di andarla a prendere e riportarla in città … ma nessuno ha sue notizie da ormai mesi e mesi e non riescono a rintracciarla in nessuna ragione. E’ per questo che mi sono rivolto a voi».
Poi Baselli rallentò il passo. Inizialmente camminai, poi provai a voltarmi e con la coda dell’occhio vidi che quasi sorrideva.
Non feci in tempo nemmeno ad annuire che fummo attaccati nell’oscurità. Non saprei descrivervi bene i nostri aggressori, l’oscurità non mi ha consentito di vederli bene, ma posso sicuramente affermare che colui che era incaricato di marcarmi stretto, ci riuscì benissimo. Fui sovrastato fisicamente da un uomo alto almeno due metri. Aveva mani pesanti che mi spingevano la testa nella fanghiglia e un dialetto molto strano che gli fungeva da lingua principale. Nessuno dei tre aggressori spiccicò una sola parola in italiano, parlarono solo in dialetto, ma si fecero dare i miei documenti, di Flavio e di Baselli. Presero anche la pistola che Flavio aveva messo sotto la camicia, da dietro.
Se ne andarono subito, si dileguarono nell’oscurità come fossero polvere.
«Ma si può sapere cosa diamine sta succedendo? Ce l’hanno con noi? Venite fuori!» gridò Flavio sull’orlo di un esaurimento nervoso.
Baselli sembrava ancora rimbambito e frastornato dalla circostanza e si reggeva il braccio destro con veemenza.
«Comincio a pensare che sua moglie sia entrata in qualche affare losco» commentai alzandomi dolorante senza neppure fare una piega. Mi girava la testa e avevo la parte destra del volto tutta sporca. Logico, avevo avuto un contatto ravvicinato con il fango.
«Come si permette?» mi riprese.
«Come mi permetto? Da quando siamo arrivati a Udine abbiamo girato mezza città alla ricerca di una donna che finora non ha mostrato nemmeno l’ombra di sé stessa, poi la nostra auto ha preso fuoco ed ora veniamo assaliti da tre delinquenti di strada a pochi chilometri da quella che dovrebbe essere la casa di sua moglie. Mi perdoni, ma ho tutto il diritto di pensare che ci sia qualcosa di più grosso sotto».
Baselli mi guardò in modo rabbioso. Per un attimo ebbi l’impressione che i suoi occhi fossero delle frecce e che io fossi l’idiota con la mela in testa e che suda freddo ogni secondo della sua vita.
Poi si ricompose, ed in un attimo di estrema calma mi rispose.
«Lei è un detective. Il suo mestiere è fare teorie».
«Il mio lavoro è quello di risolvere casi legati a delitti, ritrovare persone, non stare appresso ai fantasmi» lo stoppai freddo.
Mi guardò stranito, poi un sorriso sadico si dipinse sul suo viso. Ricordo che non mi piacque affatto. Ero decisamente preoccupato, anche se cercavo di non darlo a vedere.
Alzammo gli occhi e vedemmo alla nostra destra che eravamo praticamente arrivati. Davanti a noi si ergeva una sperduta casetta di legno, una baracca praticamente sfasciata.
«Credevo mancassero ancora chilometri» ripresi a parlare «è questo l’indirizzo?».
«Corrisponde» disse Baselli indicandomi uno sbiadito cartello.
 Rialzandosi a fatica, Flavio provò a destabilizzarsi. La sua testa girava ancora, il suo stomaco era ancora tutt’uno con il conato di vomito che gli si era piazzato praticamente in gola e la visione ancora sbiadita.
La cravatta gli svolazzava seguendo la direzione del vento e i capelli gli si erano scompigliati talmente tanto che sembrava un reduce da una terapia intensiva guidata da quel medico pazzoide che fanno vedere in tv.
 Ci avvicinammo a piccoli passi a quella che sembrava davvero tutto, tranne una casa nella quale potesse abitare qualche forma di vita sana di mente. Il recinto che fingeva di delimitare la zona della casa dall’aspra ed umida campagna, era praticamente rotto e sfasciato in ogni punto. Il tetto della casa era aperto da un buco di almeno trenta centimetri per dieci e quello che ciò vent’anni prima sarebbe potuto sembrare un giardinetto, adesso era un tutt’uno con lo schifo di terreno che ci ritrovavamo sulla faccia.
«Credo che sia palese che sia disabitato» commentò Flavio tenendo la testa bassa e guardando bene i vari elementi caratteristici del giardino.
«Tu dici?» domandai con ironia tagliente.
Mi guardò con una smorfia di disgusto, poi aprì quel che rimaneva della porta della baracca ed entrammo dentro. Baselli rimase fuori, quasi impaurito.
L’interno era anche peggio. Praticamente la “casa” era divisa in due bassissimi piani. Al primo piano c’era quello che qualcuno avrebbe potuto definire un sofà, una scrivania in legno talmente bucata che se i tarli l’avessero vista avrebbero dato di sicuro le dimissioni e una sedia mezza rotta. Ah sì, c’era anche un’uscita posteriore, ma era chiusa a chiave. Al piano superiore c’era un lettino ad una piazza ed il bagno. Più che una casa sembrava un covo.
«Bene, sua moglie non è neanche qui» disse Flavio mentre era girato di spalle.
«Siete sicuri? Cercate meglio» incitò Baselli con insolita voce tremante.
Ero di spalle anch’io, ma sono tutt’oggi convinto che fu il più grande errore della mia vita. L’uomo goffo, imbranato, insicuro e stralunato che avevamo conosciuto fino ad un secondo prima,non era più tale. Baselli scattò rapidamente all’indietro e chiuse la porta dall’esterno. Lì per lì rimasi di sasso e Flavio fece lo stesso, ma poi cominciammo a battere i pugni sulla porta e a chiedere di aprire.
«Si può sapere cosa le prende? Apra signor Baselli!» gli urlava Flavio.
«I detective credono a tutto ciò che gli dicono gli altri, non è vero ragazzi?».

CAPITOLO V – Fatti e parole

«Poche storie, apra subito, perché ci ha chiusi dentro?» domandai già irritato.
«Te la ricordi la tua dichiarazione di guerra, ragazzino? O l’hai già dimenticata?».
«Ma quale dichiarazione di guerra? Contro di lei poi? Ma figuriamoci!».
«Non capisci un cazzo! Non sei molto sveglio per essere definito una promessa del settore investigativo».
«Di cosa parla?» domandò Flavio. Era rosso in viso e cercava in tutti i modi di abbattere la porta, senza riuscirci.
«E’ inutile che tentiate di buttarla giù. C’è un auto parcheggiata vicino alla porta e credo sia difficile per voi riuscire a spodestarla».
Riuscii a vedere attraverso le rotture della porta. Era una Ford Fiesta verde militare e troneggiava vicino alla porta con una parte della fiancata destra appoggiata.
«Insomma, vuole spiegarci, sì o no?» domandò Flavio asciugandosi il sudore.
«Prima di dichiarare guerra al Fuoco Re, dovevate pensarci due volte, idioti!».
D’ un tratto impallidimmo. Io e Flavio avevamo avuto, come già sapete, esperienze a dir poco traumatiche col clan. Il Fuoco Re aveva ucciso barbaramente la moglie di Flavio e segregato per giorni e poi giustiziato mio padre in una lenta agonia. Con Flavio se l’erano presa perché si era infiltrato tra di loro per carpirne i segreti quando aveva ancora la divisa, mentre con mio padre semplicemente perché era diventato praticamente un informatore della polizia della mia città. E siccome il clan ha espansione e giri ovunque, era stato meglio tappare due bocche pesanti, troppo pesanti che mano a mano avevano raggiunto quasi il culmine dell’informazione La prima per via indiretta, la seconda invece direttamente. Il fatto che non riuscivamo a spiegarci era come facessero a sapere che in realtà volevamo dare il nostro contributo alla causa contro di loro. Dovevamo farlo. Per il nostro lavoro, per i nostri familiari, per la gente che perso tutto con un colpo di arma da fuoco, per l’onore, per la rabbia, per le lacrime versate e per quelle da versare. Era il nostro dovere. Ma non riuscimmo a pensare quella notte. Colpi di mitra si abbatterono contro la porta danneggiandola parzialmente. Poteva non sembrare affatto, ma quella porta era così robusta e resistente che i proiettili del mitra riuscivano a malapena ad entrare e a creare panico.
Sia io che Flavio crollammo a terra nella nostra miglior imitazione di Al Pacino nella seconda parte del “Padrino” Sì, avete capito. La scena dove gli sparano in camera da letto e lui si raggomitola a terra. Eravamo anche meglio di lui adesso, ma la differenza è che la nostra situazione fosse reale e non inventata.
I colpi dell’arma da fuoco continuavano ad arrivare imperterriti, senza alcuno scampo. Se ci fossimo alzati anche solo di un centimetro da terra, probabilmente saremmo stati colpiti in pieno al cervello e l’idea non allettava nessuno dei due. Flavio si riparò capovolgendo la scrivania e ponendosela come scudo, mentre io riuscii ad arrivare nella zona dove i colpi non potevano arrivarmi, nella zona delle scale che portavano al piano di sopra.
«Ok, mettiamola così» iniziai affaticato «dobbiamo uscire da questa situazione. Vediamola come un gioco, ok?» affermai mentre i proiettili zampillavano ovunque.
«Ma quale gioco? Questi vogliono ucciderci e fare un budino con il nostro sangue!».
«Come sei poetico … ».
Seguì un attimo di silenzio intenso. Ora la faceva ancora da padrone il rumore assordante del mitra che si scagliava contro di noi. Le munizioni parevano non finire mai.
«Hai un piano?» mi domandò Flavio mentre si teneva sempre più basso. Ancora un po’ e sarebbe scomparso nel sottosuolo.
«Forse sì» affermai conscio del pericolo. Deglutii per un attimo, poi ripresi a parlare «esci fuori».
«Cosa?».
«Ma sì, hai capito. Esci fuori e fai da esca!».
«Ma che diamine dici?! Sei impazzito? Vuoi farmi ammazzare?» urlò talmente forte che per poco non fu sentito anche in Tibet.
«No … ma vuoi morire in questa baracca oppure tra trent’anni vuoi raccontare ai tuoi nipoti di essere sopravvissuto ad un agguato?» gli domandai sorridendo.
Mi fissò per un attimo, poi prese fiato e disse:
«Tu sei tutto cretino. Come diamine fai a scherzare su queste cose?».

Flavio non aveva mai visto una simile determinazione. Negli occhi di quel ragazzo da lui conosciuto poco, vedeva le stesse fiamme ardenti di chi non aveva paura di morire. La paura più grande di quel ragazzo era quella di non vivere come avrebbe voluto. Pensava ad Alex e al suo sguardo cattivo, ma non spregevole, feroce, ma non aggressivo. La sua cattiveria era solo una forma accentuata di grinta. Il ragazzo riprese a parlare.

«Piantala. Deciso. Tu vai fuori, li adeschi e io corro come il vento a cercare qualcosa».
«Ma cosa vuoi cercare?».
«Aiuto no? In mancanza di altro, verrò subito e ci prenderemo quella sfilza di dannati proiettili sul petto». Sorrisi come non avevo mai fatto prima e lo raggiunsi dietro la scrivania.
«E’ un rischio, lo sai?» mi chiese insicuro sul da farsi. Il sudore gli crogiolava sulle guance sporche di fanghiglia.
«Lo so, ma non abbiamo scelta. Davanti ci braccano e non possiamo uscire. Non abbiamo cellulari, macchina o altro per comunicare o scappare. Quel finto stupido ha pensato davvero a tutto».
Intanto il rumore della voce di Baselli si faceva sempre più assordante. Sembrava un po’ frustrato.
«Una cosa però devi concedermela» mi disse con gli occhi lucidi.
«Dimmi».
«Salutami Bianca e prenditi cura di lei. Fa lo stesso con Fabio e ti prego … dì a mia moglie che ci vediamo tra poco».
Quelle frasi mi colpirono profondamente e per un attimo desiderai piangere. Con la fronte impregnata di sudore e i capelli fradici, guardavo fisso negli occhi Flavio. Non l’avevo mai visto così. Nei mesi a casa Moggelli avevo imparato una cosa. La famiglia era davvero una cosa fondamentale della quale inconsciamente per anni avevo pensato di poter fare a meno. Oddio, non proprio farne a meno, ma quantomeno avevo pensato di potermi allontanarmi un po’ da essa.
Guardavo il suo viso e rivedevo il mio. Eravamo sudati, bagnati, sporchi, sudici, adrenalinici, cattivi all’inverosimile e con una paura talmente grande di non poterci più nemmeno punzecchiare, da impressionare.
Volevo davvero che le mie ultime parole per Flavio fossero colme di sentimento e di ringraziamento, ma tutto ciò che mi uscii dalla bocca fu:
«E dai …» e gli diedi una pacca sulla spalla. I nostri vestiti erano strappati. Ormai il mio jeans era inesistente, in quanto strappato in molti punti. La maglietta lasciava intravedere una parte dell’addome, mentre Flavio si era tolto la cravatta e la camicia era fuori dai pantaloni, quasi completamente sbottonata e con i peli del torace a carezzarla.
Non mi disse nulla, né diede più nulla, solo un ultimo sguardo. Sfondammo la porta sul retro  insieme, utilizzando pugni, calci, testate ed ogni parte del corpo potesse scalfirne la resistenza. Alla fine si aprì ed entrambi scattammo come la luce. Io corsi verso sinistra, lontano dalla casa, mentre lui strisciava a terra e urlava sfida contro il ragazzo con la mitragliatrice.
«Sono qui idioti! Venite a prendermi, brutti criminali!». Non ne fui sicuro, ma non tardarono ad arrivare. Dal canto mio, mi dileguai. Avevo due diverse possibilità. Numero uno, tornare e salvare tutto come nei film. Numero due, tornare senza nulla di interessante ed utile e trovarmi un cadavere sulla coscienza.

CAPITOLO VI – Violenza carnale

Intanto Flavio era stato raggiunto in modo repentino e decisamente sorprendente. Baselli, il cliente che gli si era dimostrato tutt’altra persona, incitava al sicario di far fuoco a vista. Dal canto proprio, l’uomo saltava e zampettava ad una velocità che mai avrebbe creduto di poter raggiungere nella sua esistenza. Anche la barba incolta adesso, sprizzava sudore e ne lasciava crogiolare un po’ al suolo. Il sudore cadeva sullo stesso suolo  che il detective poco prima aveva assaggiato con il viso.
Scappò, zampettò, distolse, fece finte degne di un campione del mondo di calcio, ma alla fine un proiettile lo abbatté, seppur solo di striscio, come il più violento dei difensori centrali.
«Ah!» urlò Flavio mentre il suo corpo provocava il rumore di un tonfo immane. Non lo ammetterebbe mai, ma in quel momento pensò anche ad Alex e implorava il cielo che potesse arrivare il più presto possibile. Il dolore pervadeva ogni singolo millimetro del suo corpo, ma aveva negli occhi l’espressione di chi non voleva arrendersi e quando vide l’uomo con il mitra in mano avvicinarsi a lui in compagnia di Baselli, sputò sulle scarpe di quest’ultimo in segno di disgusto.
«Deficiente. E’ la tua fine. Dì addio al mondo» disse stizzito Baselli.

Ritornai e vidi la scena da un punto di vista totalmente esterno. Mi sentivo come il protagonista dei giochi di ruolo. Ma una differenza che mi piacque molto fu il rapido crollo a terra di Mr. Mitra.
Lo colpii fortissimo sulla testa, ok. La sbarra di ferro che avevo trovato in un cantiere edile lì vicino era probabilmente piegata a causa dell’urto e ora non era più grigia ma rossa a causa del sangue che la avvolgeva Ok, la testa del nostro amichetto era talmente mal messa che un vespaio sarebbe stato più gradito e probabilmente non avrebbe riacquistato appieno le capacità neurologiche per almeno trenta giorni. Fatto sta che Mr. Mitra crollò a terra come un sacco di patate e che Baselli riprese a tremare come una foglia in autunno.
«C’è qualche problema?» domandai ironico mentre guardavo Flavio a terra che si teneva la gamba sinistra.
«Quale problema? No, nessun problema» mi rispose a tono Baselli. Ora che non aveva più un mitra davanti non era più così sfacciato. Osservava con le pupille che ballavano incontrollate ogni singolo centimetro del tubo di metallo che avevo usato per sfasciare la testa al suo amico.
«Stammi bene a sentire, lurido topo di fogna» gli dissi appoggiandogli il tubo metallico sulla spalla «se entro dieci secondi non mi dici il modo più rapido per andarmene da qui, avrai una conoscenza talmente ravvicinata con questo» continuai indicandogli l’arma «che ogni altra persona o cosa al mondo ti parrà sconosciuta per almeno un bel pezzo».
«O-ok … allora … Prendi la Ford Fiesta Titanium vicino alla porta e … e vattene»
«Sia chiaro» ripresi a parlare «un’altra volta che ti vedo e fai la stessa fine del tuo amichetto a terra, hai capito? E dì al tuo capo o a quell’idiota che ti ha mandato qui che la missione è fallita».
Poi colpii forte allo stomaco anche lui e cadde a terra esattamente come il mitragliatore.
Trascinai Flavio alla macchina. Era più pesante di quanto sembrava. Andava avanti con gemiti e lamenti e non ne poteva più di quella ferita alla gamba. L’avevano colpito appena sopra la caviglia, diciamo sullo stinco sinistro.
«Resisti, ti porto in ospedale».
«Macchè ospedale! Non abbiamo documenti e qui a Udine è improbabile che ci riconoscano. Inoltre è meglio che ce ne andiamo da questa città del cavolo. Metti in moto!» mi disse già quando eravamo in macchina. Lo sdraiai sul sedile del passeggero e gli arrestai l’emorragia con la cinta dei pantaloni.
«Sei sicuro che posso guidare?».
«Certo che puoi!» mi rispose a denti stretti per cercare di attenuare il dolore della ferita «non ricordi? Anche a casa Pelviani hai fatto lo stesso».
«Ma le mie facoltà di maggiorenne, una volta in PSD, non dovevano essere azzerate?».
«Quasi tutte. Sulla questione di guidare un auto o un veicolo sei considerato tale. Le obbligazioni di trattarti come un minorenne riguardano soprattutto la dichiarazione dei diritti e delle responsabilità che mi sono assunto. Nel caso in cui … ti accadesse qualcosa, seppur tu sia maggiorenne, sono io il responsabile e in quel caso non vale la tua età, chiaro? E la stessa cosa vale a dire per tutte le altre cose che implicano la presenza di un adulto, come il commettere reati, eccetera, eccetera …».
«Limpido».
Seguì un attimo di intenso silenzio, poi Flavio, digrignando i denti, iniziò di nuovo a parlare.
«Hai controllato che non … che non ci siano microspie? Da quelli mi aspetto di tutto» domandò con smorfie di dolore abnormi.
«E’ stata la prima cosa che ho fatto quando mi sono messo in auto. Stai tranquillo».
Era andata così, viaggiavamo ad una velocità probabilmente non consentita su scassate strade di campagna e aspettavamo che cosa ci fosse ancora in serbo per noi. Ma una cosa era sicura. Il Fuoco Re sapeva qualcosa di noi che pensavamo non sapesse nessuno. Come era riuscito a scoprirlo?

ANTICIPAZIONE EPISODIO 40: Flavio è ferito e Alex lo porta in ospedale. Anche un luogo però tranquillo può rivelarsi trappola per topi. E se quella trappola scatta ... ALEX FEDELE EPISODIO 40 - IL PAZIENTE UCCISO! Solo qui a partire dal 2/06/2012! NON PERDETELO PER NESSUNA RAGIONE!!!!


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