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sabato 28 aprile 2012

Alex Fedele: Un suicidio poco realistico #35(seconda stagione)


UN SUICIDIO POCO REALISTICO

PROLOGO: Sul suicidio c'è poco da dire. Una persona si toglie la vita, lo fa di propria volontà. Ma è davvero così? 



CAPITOLO I – Il suicida

Di sera Torino assume un’aria quasi macabra. Gli alberi si dipingono tramite le proprie ombre sui marciapiedi e i lampioni conferiscono una sorta di atmosfera mistica. Le persone che di giorno ti sembrano rispettabili diventano, come ad un tratto, all’apparenza meno tranquille del solito e se per caso un tipo sospettoso come me dovesse incontrare un uomo con il bavero della giacca rialzato, penserebbe subito ad un tipo losco.
Quella sera io e Flavio avevamo deciso di accompagnare Bianca a dormire da Barbara, la sua migliore amica. Le due ragazze avevano intenzione di fare un pigiama party d’eccezione, con tutte le ragazze della scuola. Erano ormai le sette e trenta della sera quando lasciammo Bianca di fronte ad una palazzina color verde acqua che troneggiava come un punto di riferimento all’interno del quartiere.
«Figlie … mi raccomando, quando avrai delle femmine, non permetter loro mai di imporsi con te» mi disse Flavio mentre era alla guida della sua Fiat Croma.
«Davvero? Perché dici questo?».
«Credimi ragazzo, fa come dico io. Da bambine sembrano innocenti, sono tranquille, molto svagate, tu ci giochi e loro fanno degli enormi sorrisi per assecondarti. Ma è solo una trappola! Una volta diventate grandi cominciano a rompere sul fatto che tu non sia abbastanza moderno, che vogliono ritirarsi a casa quando vogliono, che invece di bambole e giochini vogliono che tu le faccia fare fotografie a grandezze naturali in alta definizione e tutte quelle cose che fanno vedere nei film demenziali al cinema, hai presente?».
La foto alla quale alludeva Flavio era posizionata nella camera di Bianca. Era una bellissima fotografia incorniciata. Nella foto era ritratta Bianca, qualche anno prima, mentre sorrideva con fare angelico e mentre si teneva forte a sua madre, una bellissima donna dai capelli castani scuri e dagli occhi azzurri. Occhi speciali quelli della madre di Bianca, che parlavano da soli e che gridavano gioia di vivere. Il ritratto in bianco e nero suscitava sempre qualche emozione a Bianca, che riteneva si trattasse dell’ultima cosa che sua madre avesse fatto per lei prima di morire. Era stupendo. Cercai di raccapezzarmi e continuai a cercare di sostenere uno dei pochi dialoghi seri che avessi avuto fin dalla mia comparsa a Torino.
«Poi credo che per un padre sia anche … diciamo … più imbarazzante parlare con una figlia di certi argomenti o sbaglio?».
«E infatti non sbagli. Sai, la mancanza di mia moglie è stata una tragedia sotto tutti i punti di vista. Nella vita una persona ha bisogno sia di un padre che di una madre e quando uno di questi due viene a mancare, il genitore che rimane è soggetto ad una responsabilità pressoché enorme. Il fatto è che non credo che Bianca voglia parlare con me di certi argomenti … e per certi argomenti sai benissimo cosa intendo, non è vero furbacchione?» mi domandò con una espressione quasi comica.
«Be …» iniziai piuttosto imbarazzato. «Ehm … certo che lo so. Tanto tu … puoi stare tranquillo con Bianca, no?».
«E come mai dici questo?».
«E’ una ragazza con la testa sulla spalle, non una … insomma, non è una …».
«Di facili costumi. Giusto?».
«Esattamente. Si fa rispettare, voglio dire» continuai arrossendo leggermente.
«Questo è assodato».
Seguì un momento di silenzio.
«E tua madre come se la cavava?».
«Cioè?».
«Voglio dire … hai perso tuo padre che avevi …».
«Tredici anni».
«Già. Non deve essere stato facile per lei … rimanere con dei bambini in casa, no?».
«Sì, in effetti è così. Io avevo tredici anni, Andrea era di pochi mesi e Stefano, mio fratello più grande,ne aveva appena compiuti sedici. Il resto della storia lo sai. Mamma accettò gli incarichi in Giappone solo quando Stefano raggiunse la maggior età. Io e Andrea vivemmo per alcuni mesi con Stefano, almeno fino a quando quest’ultimo non decise di studiare architettura in America. Poi ci fu il periodo del tribunale, con me che costrinsi mia madre a lasciarmi vivere da solo nonostante avessi soltanto quindici anni all’epoca».
«E come finì?».
«Come già ti avevo accennato. Finì che … dopo lunghe procedure durate alcuni mesi, nei quali vissi dai miei zii a circa due isolati di distanza da casa mia, il giudice incaricato del caso decise di affidare la problematica a degli ispettori speciali che avrebbero dovuto controllare la mia quotidianità giorno dopo giorno per un periodo di tempo indeterminato. In sintesi dovevano controllare che sapessi cosa fare in caso di emergenza, che andassi a scuola tutti i giorni, che sapessi mettere qualcosa in tavola, eccetera, eccetera …».
«E alla fine vincesti tu, non è vero?».
«In un certo senso sì. Fui lasciato a vivere da solo a patto che un ispettore venisse una volta alla settimana a controllare la casa e le mie attività e che i miei parenti di Fondi mi avrebbero controllato e monitorato a vista. Fu una sorta di emancipazione speciale».
«Hai vissuto da solo per tre anni, non è vero?».
«Sì … fino al PSD. Poi sono andato lì a lezione per un mese e quindi avevamo dormitori, mense … hai chiaro il concetto, no?».
«E’ chiaro. Chissà tua madre come si sarà battuta per farti vivere da solo. Insomma … avevi solo quindici anni».
«Mia madre inizialmente era contraria. Voleva che scegliessi di vivere o in Giappone o in America con Stefano, ma io non avevo alcuna voglia di cambiare paese e così concordammo di stipulare un accordo legale. Offrì al giudice la sua garanzia nei miei confronti e così si avviarono le procedure. Devo dire che fui avvantaggiato anche dal fatto di non aver avuto zii troppo lontani … ».
«Altro che figlie femmine … tu sei stato molto peggio …».
«Ma che dici!?».
«Tua madre ha fatto da garante, ma io non l’avrei mai fatto con uno dei miei figli. E’ troppo pericoloso».
«Anche andare a scuola da solo è pericoloso … in strada puoi incontrare qualche delinquente che può picchiarti. La vita è tutta pericolosa, alla fine …».
«Che razza di discorsi … sembri un filosofo e …».
«Attento! Dannazione!» urlai a perdifiato impugnando il volante e facendo una manovra che ci fece andare in un’ aiuola. Flavio riuscì a frenare e una volta ripresosi dallo shock mi guardò fisso e mi disse:
«Ma sei andato fuori di testa?! Rischiavamo di morire!».
«Guarda là …» gli dissi indicando alla destra della zona nella quale eravamo posizionati noi.
Flavio si voltò e i suoi occhi si congelarono in un fondersi di paura e di estrema preoccupazione. Il corpo di un uomo era rivolto faccia a terra, rigido e inevitabilmente spaventoso. Flavio era distratto mentre parlava con me, ma per quanto mi riguardava lo avevo visto precipitare dall’alto all’ultimo momento.
Subito scendemmo dalla macchina cercando di trovare qualcuno in aiuto che cercasse di spiegarci la situazione, ma i passanti e i venditori situati vicino alla scena del crimine erano già abbastanza scossi per conto loro ed un ulteriore spiegazione sarebbe stata devastante.
«Chiamate subito un’ambulanza!» urlò un uomo posizionato allo stesso piano del palazzo dal quale era precipitata la vittima dell’incidente.
«Non è necessario … è morto. Chiamate la polizia» annunciò un intristito Flavio.

CAPITOLO II – Non è realistico

L’ispettore Ducato, seguito come al solito dal fido Giuseppe Novato, si precipitò in pochi minuti senza il bisogno di alcuna chiamata supplementare.
«Che succede Flavio?» domandò in aria stressata. Ducato era un lavoratore davvero instancabile, un cavallo da corsa senza freni, un grande uomo dedito al proprio lavoro. Un giorno, parlando con Novato, quest’ultimo mi aveva confessato che ormai l’ispettore era completamente assorto dal suo lavoro e che aveva addirittura litigato con sua moglie per questa problematica. Non prendeva ferie da almeno un decennio e rimaneva imperterrito nella sua posizione proponendosi per faticosi ed infiniti turni di notte, straordinari, facendo appostamenti pericolosi e quant’altro.
«Un incidente signore. Quest’uomo è caduto dal terzo piano di questa palazzina giallo ocra. L’impatto è stato fatale».
«Capisco … Novato, metti a verbale. Alex, ci sei anche tu? Non ti avevo visto … come va?».
«Tutto a posto ispettore. E a lei?».
«Tralasciamo ragazzo … tralasciamo …» mi sussurrò con aria stanca. Poi si lisciò la barba incolta e toccandosi i leggeri baffetti disse: «Forse sarebbe meglio dare un’occhiata all’appartamento, non pensi anche tu Flavio?».
«Be’ … se lo ritiene necessario …».
Detto questo, ci avvicendammo nel salire al terzo piano di quella palazzina giallo ocra. Era vecchia, probabilmente costruita immediatamente nel dopoguerra e se ne stava ferma ad osservare tutte le crudeltà del mondo.
Alla porta ci aprì un ragazzo da fattezze rotonde e da un’indubbia emotività. Continuava ad avere le lacrime agli occhi e nonostante i tentativi di Novato di calmarlo, il suo tremolio di braccia e di gambe non accennava a diminuire. L’appartamento era davvero carino e ben in ordine. L’uomo era precipitato da una vetrata senza balconi, con un cornicione davvero sottile. L’aveva completamente sfondata ed è per questo che si era pensato subito ad un suicidio.
«Allora … lei in che rapporti era con la vittima?» domandò Ducato al ragazzo.
«Ero il suo coinquilino …».
«Vuole darci le sue generalità per favore?».
«Non sospetterà di me non è vero? Non ho fatto niente! Lo giuro! Non può …».
«Stia calmo» lo placò Flavio. «L’ispettore ha il dovere di mettere tutto per iscritto, quindi cortesemente annunci le sue generalità».
«Ok … sono Patrizio Berruti, sono nato a Torino il 4 Marzo 1986 e sono studente universitario presso la facoltà di legge … però lavoro anche come assistente per un fotografo …».
«Ok. E il suo coinquilino era …».
«Marco Carlotis, era di Cagliari. Nato il 14 Aprile1967.  Lui era invece docente in una scuola media …» sussurrò ancora abbastanza scosso.
Intanto mi guardavo intorno. Cercavo di trovare indizi circa l’incidente, quando l’ispettore continuò nel suo interrogatorio con domande del tutto interessanti, attirando così la mia attenzione.
«E mi dica signor Berruti, in che rapporto era con la vittima?».
«Era il mio coinquilino, ve l’ho detto poco fa …».
«Già, ma intendevo dire … da quando lo conosceva?».
«Oh,era relativamente poco, nemmeno due settimane».
«Nemmeno due settimane?».
«Già. Si era trasferito a Torino da circa tre settimane e avevamo deciso di condividere l’appartamento …».
«Mi scusi signor Berruti» interruppi.
«Dimmi»
«Prima ha perso questo dai jeans … è una ricevuta del pedaggio in autostrada … ma la macchina risulta essere intestata al suo amico e …».
«Oh già … be’ forse ci siamo scambiati i jeans …».
«Già … forse» sussurrai dando la ricevuta a Novato.
Più andavo avanti e più mi rendevo conto che la tesi dell’incidente era terribilmente fuori luogo. Ragioniamo. Personalmente non conosco molte persone che affiderebbero un’auto ad una persona che conoscono soltanto da due settimane. C’era qualcosa che ancora mi sfuggiva, qualcosa che ancora non riuscivo a connettere, ma senza dubbio la tesi dell’incidente non aveva un filo rosso che la collegava.

«Può descriverci adesso la dinamica dell’incidente signor Berruti?» chiese elegantemente Novato. Giuseppe Novato apparteneva a quella categoria di persone che avevano una visione completamente diversa del lavoro e della posizione che assumevano. Col tempo mi ero accorto che era impeccabile in tutto ciò che faceva, ma che nella vita di tutti i giorni sapeva reinventarsi. Avevo anche notato che non aveva per niente l’aspetto del poliziotto. I capelli sparati in alto, a destra e a manca, modellati con litri di gel davano già un’impressione diversa da quella di tutore della legge incorruttibile. Ma erano altre le cose che lo contraddistinguevano.
La sua ironia dissacrante, il suo volto giovane, fresco, simpatico, gli permettevano tranquillamente di evadere dagli status quo imposti da questa professione secondo in quali sembra quasi che la polizia debba annoverare tra le proprie fila solo musoni inguardabili e uomini super impegnati.
«Certo. Be’ vede, non l’ho visto proprio bene e non saprei descrivervelo accuratamente perché ero fuori fino a pochi secondi prima …».
«Vuole dirci in che senso?» domandò Flavio curioso.
«Vede, mi occupo delle piante del condominio. Devo potarle, innaffiarle, è una mia grande passione e così ero fuori con i guanti e quant’altro».
«Capisco, quindi appena entrato …».
«Ho visto Marco in bilico e pochi attimi dopo è caduto!».
«Interessante … decisamente interessante» osservò Novato.
«Che lei sappia» continuò sempre Novato «la vittima aveva manifestato qualche segno di squilibrio evidente? Qualche disturbo sociale, emotivo?».
«No … non mi pare proprio».

Aveva mentito per la seconda volta. Ora ne ero sicuro, non si era trattato di omicidio e il colpevole era lui. Si era tradito ben due volte ed era davvero assurdo non pensare il contrario. Oltre alla tessera dell’autostrada, c’erano altre due cose che non quadravano, ma non riuscivo a mettere bene a fuoco la vicenda. Mancava un tassello, una piccola parte che avrebbe sicuramente potuto inchiodare l’omicida.
«Ma che lei sappia, ha avuto qualche shock in passato?».
«Be’ …».
«Signor Berruti» ammonì repentinamente Ducato «se conosce qualcosa del passato della vittima, è pregato di dircelo. Dobbiamo redigere un verbale».
«Mi aveva raccontato di aver perso sua figlia, circa tre anni fa in un incidente stradale a Cagliari».
Ora che me lo faceva notare, sul tavolino vicino al divano c’era una fotografia interessante. Era ritratta una ragazza di circa quindici anni, con lunghi capelli neri e cuffiette da Ipad. Indossava un berrettino verde ed una felpa violacea. Sorrideva teneramente tenendo in braccio un gattino dalle piccole dimensioni.
«E’ questa la figlia del signor Carlotis?» domandai innocentemente.
«Esattamente … si chiamava Maya».
«Uh? Che nome strano …».
«Lo so, ma gliel’aveva scelto la sua povera mamma …».
«Vuole dire che anche la moglie della vittima …» iniziò quasi avvilito Flavio.
«Sì. Morì nello stesso incidente che coinvolse anche la figlioletta adolescente».
«Da qui il trasferimento, non è vero?» chiesi con gli occhi bassi.
«S-sì … ma come fai a saperlo ragazzo?» mi domandò Berruti con aria incredula.
«Oh, so tante cose. Quando le persone hanno bisogno di distrarsi vanno via per un po’ … succede …».
«Diamo un’occhiata alla vetrata» incitò Ducato. Con i suoi guanti bianchi e le sue mani marcate, cominciò a toccare i lunghi e pesanti vetri che facevano da riempitivo alla porta di legno.
«Sembra quasi sia stata presa a spallate … un pezzo del legno che unisce il cardine è scheggiato …».
«Ispettore!» urlò un uomo della scientifica. Si era fatto tre piani a piedi correndo, ed ora non riusciva nemmeno a fabbricare ossigeno necessario per far funzionare il cervello.
«Agella, dimmi pure».
«Sul corpo della vittima, sulla spalla destra, abbiamo trovato delle schegge di legno conficcate».
«Ecco qui svelato il mistero della porta» ultimò Novato.
«Ma non è finita. Alcuni testimoni oculari hanno affermato di averlo sentito gridare a perdifiato mentre si buttava. Inoltre, mentre stava quasi per schiantarsi invocava una certa Maya … Infine, la vittima si era appena svegliata quando ha compiuto il tragico gesto. Lo possiamo intuire dal pigiama che ha indossato per buttarsi».
«Ma Maya è sua figlia!» esclamò Flavio.
«Be’, di che ti sorprendi? Non è tanto strano. Ha voluto salutare il mondo per raggiungere sua figlia e sua moglie e per farlo invocava il nome della prima. Può accadere … » affermò distrattamente Ducato.
«C’è un’altra cosa strana però …» commentai.
«E cioè Alex?» mi chiese Novato.
«Be’, non è normale che una persona che stia per suicidarsi gridi a perdifiato … certo, è normale il fatto del riferimento a sua figlia, ma un suicida cade in silenzio …».
«Be’, ha ragione il ragazzo …» osservò Ducato.
«Inoltre c’è anche un’altra cosa molto strana …» dissi toccando i vetri della finestra. «Guardate. C’è del nastro adesivo a quattro angoli di una delle due porte, sui vetri, avete visto?».
«Hai ragione … e sono posizionati ad un’altezza piuttosto alta e ad una distanza piuttosto elevata l’uno dall’altro».
«Che strano!» esclamò Novato. Poi squillò il telefono di Flavio.
«Oh, scusate. E’ un messaggio di Bianca».
«Uh? Non sapevo che avessi un’immagine di un campo da golf come sfondo».
«Be’, è vietato dalla legge?» mi chiese ironicamente.
«No, no … ci mancherebbe … ma sarebbe più normale un giocatore …».
«Ma che t’importa? Insomma, se potessi … altro che gigantografia in camera di Bianca … me ne farei fare una del campo da golf, così potrei sentirmi sul campo anche in ufficio!».
Rimasi un attimo a fissare il vuoto come un perfetto idiota, poi cominciai a carburare e urlai.
«Ecco il filo!».

CAPITOLO III – Il filo rosso
L’intera stanza si voltò a guardarmi.
«Ma quale filo? Di che parli? Sei andato fuori di testa?» mi domandò quasi stranito Flavio.
«Signori, ho capito tutto finalmente. So benissimo come sono andate le cose e sono pronto a spiegarvele».
«Ma è stato un incidente, questo è assodato!» esclamò Ducato.
«Per niente ispettore. Ci sono molti elementi che fanno pensare ad un omicidio e non ad un suicidio!».
«Che cosa? Spiegati ragazzo!». Ducato sudava freddo e ormai si lisciava la barba continuamente. Era tutto un fremito e pareva in procinto di partorire.
«Innanzitutto, c’è la questione dell’urlo. Un suicida non griderebbe mai mentre spicca l’ultimo volo. Ok, vada per l’invocazione a sua figlia, ma non è assolutamente possibile che una persona che stia per suicidarsi urli così tanto».
«Continua, questo l’hai già detto …» comunicò Novato.
«Successivamente c’è la questione della vetrata. Mi dite perché avrebbe dovuto spaccarla? Insomma, poteva tranquillamente aprirla e di conseguenza buttarsi giù senza fare il minimo danno, ma la vittima no, la vittima ha preferito infrangerla. Mi sa dire il perché?».
«Ehm … no Alex, ma …».
«E poi il nastro adesivo agli angoli della vetrata … tutto ciò puzza. Forse c’era qualcosa di irrinunciabile alla finestra, forse un qualcosa che il nostro uomo non vedeva da tempo, qualcuno che desiderava vedere da tempo …».
«Be’ … l’unica persona che avrebbe potuto desiderare di vedere è …».
«Maya!» esclamò Flavio.
«Esattamente».
«Ma … stai sostenendo che Maya ha fatto suicidare suo padre?».
«Oh no …» dissi allontanandomi e sedendomi sul divano. «Vede ispettore. La vittima stava dormendo quando è successo il fattaccio e a Torino ci sono molti studi fotografici professionali. Riescono a fare delle foto ad altissima definizione e a grandezza naturale di qualunque soggetto tu voglia».
«Ma cosa c’entra adesso?».
«Ma come, non ha capito ispettore Ducato? Il colpevole ha architettato un trucco semplice ed efficace basandosi sul subconscio della sua vittima. Innanzitutto si è procurata una foto di Maya, poi l’ha fatta riprodurre a grandezza naturale ed infine l’ha appesa alla vetrata. Una persona appena sveglia che vede di fronte a sé  la faccia della figlioletta morta, a grandezza naturale, schizza subito via per abbracciarla, non crede?».
Ducato si scurì in volto, mentre Berruti cominciava ad abbassare gradualmente lo sguardo. Il topo era in trappola.
«Ho capito! Il colpevole voleva inscenare un suicidio con l’ausilio della tecnologia in ambito fotografico!».
«Esatto ispettore. E mi perdoni se l’anticipo, ma il colpevole può essere solo uno. Signor Berruti, confessi, non ci faccia perdere tempo. E’ stato lei!».
«Ma … è matto? Figuriamoci se commetto un omicidio!».
«Sa signor Berruti, il suo piano era davvero ben congeniato. Sfortunatamente per lei,  ha lasciato vari indizi in alcuni punti. Innanzitutto, ha affermato di conoscere la vittima solo da due settimane, ma non è assolutamente vero. Ha detto questo per evitare di essere coinvolto il meno possibile nel caso, non è vero?».
«Aspetta, che prove hai che lo conoscesse da più tempo?» mi domandò Flavio.
«Il biglietto del pedaggio dell’autostrada, ricordate? Vi pare che una persona possa affidare la sua auto ad una persona che conosce solo da due settimane? E inoltre anche più giovane?».
«In effetti è vero … ma non è sufficiente Alex. Ha detto di aver indossato per sbaglio i jeans dell’amico, non ricordi?» commentò Novato.
 «Già, ma qualcuno ha notato la differenza di stazza che c’è tra i due? Mi perdoni signor Berruti, ma lei è grosso almeno due volte la vittima, fisicamente parlando».
«Non ci avevo fatto caso, è vero!» commentò Ducato.
«E’ impossibile quindi che lei possa aver indossato i jeans del suo amico. Gli sarebbero andati stretti, è evidente no? Ma ci sono altre parti del suo discorso che hanno permesso di smascherarla. Ricorda quando ha detto di essere entrato poco prima che il suo amico si buttasse? Be’ non è possibile».
«E perché no? Potavo le piante fuori!».
«E mi dica, dov’è l’attrezzatura necessaria?».
«Co-cosa?».
«Ma sì, l’attrezzatura. Dov’è finita? Grembiule, pinzette, acqua … Non mi dirà che lei, nonostante stesse per assistere ad un suicidio bello e buono, abbia avuto la freddezza di mettere tutto a posto? Perché se è così, complimenti per la calma …».
«No … il fatto è che io …».
«Il fatto è che lei sta crollando signor Berruti. L’unico che poteva procurarsi una foto ad alta definizione della figlia della vittima era lei, vivendo qui e lavorando contemporaneamente in uno studio fotografico. E le dirò di più. Non ha avuto nemmeno il tempo di disfarsi della foto completamente. Scommetto che se rovisteremo nella spazzatura, troveremo quello che cerchiamo e …».
«Basta così» mi interruppe. Si lasciò andare sul divano e inarcò il sopracciglio destro «è  vero. L’ho ucciso io».
«Ma perché l’ha fatto?» chiese Flavio.
«Era diventato scontroso e irascibile con tutti e minacciava di svelare il mio segreto».
«Quale segreto?» domandò sospettoso Ducato.
«In realtà evadevo fiscalmente da più di quattro anni. Facevo una bella vita … una sera avevamo alzato troppo il gomito e così inconsciamente, glielo rivelai. Fu l’errore più grande della mia vita».
«L’errore più grande della sua vita è stato commettere un omicidio signor Berruti. Che Dio abbia pietà di lei …» commentò Novato affranto.

«Ho cambiato idea sulle gigantografie, sai Alex?» mi disse energicamente Flavio in auto.
«Davvero? Perché?».
«Be, se hanno permesso di smascherare un omicidio, non possono essere tanto malvagie … sai che farò? Un galleria con alcuni dei miei scatti migliori! L’appenderò nel mio ufficio, in casa, dappertutto!».
«Domani cambio residenza …».
«Cosa?».
«Niente, ragionavo ad alta voce».

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