UN
SUICIDIO POCO REALISTICO
PROLOGO: Sul suicidio c'è poco da dire. Una persona si toglie la vita, lo fa di propria volontà. Ma è davvero così?
Sigla di oggi: "Monumental" by The Flatliners
CAPITOLO
I – Il suicida
Di sera Torino assume un’aria
quasi macabra. Gli alberi si dipingono tramite le proprie ombre sui marciapiedi
e i lampioni conferiscono una sorta di atmosfera mistica. Le persone che di
giorno ti sembrano rispettabili diventano, come ad un tratto, all’apparenza
meno tranquille del solito e se per caso un tipo sospettoso come me dovesse
incontrare un uomo con il bavero della giacca rialzato, penserebbe subito ad un
tipo losco.
Quella sera io e Flavio avevamo
deciso di accompagnare Bianca a dormire da Barbara, la sua migliore amica. Le
due ragazze avevano intenzione di fare un pigiama party d’eccezione, con tutte
le ragazze della scuola. Erano ormai le sette e trenta della sera quando
lasciammo Bianca di fronte ad una palazzina color verde acqua che troneggiava
come un punto di riferimento all’interno del quartiere.
«Figlie … mi raccomando, quando
avrai delle femmine, non permetter loro mai di imporsi con te» mi disse Flavio
mentre era alla guida della sua Fiat Croma.
«Davvero? Perché dici questo?».
«Credimi ragazzo, fa come dico
io. Da bambine sembrano innocenti, sono tranquille, molto svagate, tu ci giochi
e loro fanno degli enormi sorrisi per assecondarti. Ma è solo una trappola! Una
volta diventate grandi cominciano a rompere sul fatto che tu non sia abbastanza
moderno, che vogliono ritirarsi a casa quando vogliono, che invece di bambole e
giochini vogliono che tu le faccia fare fotografie a grandezze naturali in alta
definizione e tutte quelle cose che fanno vedere nei film demenziali al cinema,
hai presente?».
La foto alla quale alludeva
Flavio era posizionata nella camera di Bianca. Era una bellissima fotografia
incorniciata. Nella foto era ritratta Bianca, qualche anno prima, mentre
sorrideva con fare angelico e mentre si teneva forte a sua madre, una bellissima
donna dai capelli castani scuri e dagli occhi azzurri. Occhi speciali quelli
della madre di Bianca, che parlavano da soli e che gridavano gioia di vivere.
Il ritratto in bianco e nero suscitava sempre qualche emozione a Bianca, che
riteneva si trattasse dell’ultima cosa che sua madre avesse fatto per lei prima
di morire. Era stupendo. Cercai di raccapezzarmi e continuai a cercare di
sostenere uno dei pochi dialoghi seri che avessi avuto fin dalla mia comparsa a
Torino.
«Poi credo che per un padre sia
anche … diciamo … più imbarazzante parlare con una figlia di certi argomenti o
sbaglio?».
«E infatti non sbagli. Sai, la
mancanza di mia moglie è stata una tragedia sotto tutti i punti di vista. Nella
vita una persona ha bisogno sia di un padre che di una madre e quando uno di
questi due viene a mancare, il genitore che rimane è soggetto ad una
responsabilità pressoché enorme. Il fatto è che non credo che Bianca voglia
parlare con me di certi argomenti … e per certi argomenti sai benissimo cosa
intendo, non è vero furbacchione?» mi domandò con una espressione quasi comica.
«Be …» iniziai piuttosto
imbarazzato. «Ehm … certo che lo so. Tanto tu … puoi stare tranquillo con
Bianca, no?».
«E come mai dici questo?».
«E’ una ragazza con la testa
sulla spalle, non una … insomma, non è una …».
«Di facili costumi. Giusto?».
«Esattamente. Si fa rispettare, voglio
dire» continuai arrossendo leggermente.
«Questo è assodato».
Seguì un momento di silenzio.
«E tua madre come se la cavava?».
«Cioè?».
«Voglio dire … hai perso tuo
padre che avevi …».
«Tredici anni».
«Già. Non deve essere stato
facile per lei … rimanere con dei bambini in casa, no?».
«Sì, in effetti è così. Io avevo tredici
anni, Andrea era di pochi mesi e Stefano, mio fratello più grande,ne aveva
appena compiuti sedici. Il resto della storia lo sai. Mamma accettò gli
incarichi in Giappone solo quando Stefano raggiunse la maggior età. Io e Andrea
vivemmo per alcuni mesi con Stefano, almeno fino a quando quest’ultimo non
decise di studiare architettura in America. Poi ci fu il periodo del tribunale,
con me che costrinsi mia madre a lasciarmi vivere da solo nonostante avessi
soltanto quindici anni all’epoca».
«E come finì?».
«Come già ti avevo accennato. Finì
che … dopo lunghe procedure durate alcuni mesi, nei quali vissi dai miei zii a
circa due isolati di distanza da casa mia, il giudice incaricato del caso
decise di affidare la problematica a degli ispettori speciali che avrebbero
dovuto controllare la mia quotidianità giorno dopo giorno per un periodo di
tempo indeterminato. In sintesi dovevano controllare che sapessi cosa fare in
caso di emergenza, che andassi a scuola tutti i giorni, che sapessi mettere
qualcosa in tavola, eccetera, eccetera …».
«E alla fine vincesti tu, non è
vero?».
«In un certo senso sì. Fui
lasciato a vivere da solo a patto che un ispettore venisse una volta alla
settimana a controllare la casa e le mie attività e che i miei parenti di Fondi
mi avrebbero controllato e monitorato a vista. Fu una sorta di emancipazione
speciale».
«Hai vissuto da solo per tre
anni, non è vero?».
«Sì … fino al PSD. Poi sono
andato lì a lezione per un mese e quindi avevamo dormitori, mense … hai chiaro
il concetto, no?».
«E’ chiaro. Chissà tua madre come
si sarà battuta per farti vivere da solo. Insomma … avevi solo quindici anni».
«Mia madre inizialmente era
contraria. Voleva che scegliessi di vivere o in Giappone o in America con
Stefano, ma io non avevo alcuna voglia di cambiare paese e così concordammo di
stipulare un accordo legale. Offrì al giudice la sua garanzia nei miei
confronti e così si avviarono le procedure. Devo dire che fui avvantaggiato
anche dal fatto di non aver avuto zii troppo lontani … ».
«Altro che figlie femmine … tu
sei stato molto peggio …».
«Ma che dici!?».
«Tua madre ha fatto da garante,
ma io non l’avrei mai fatto con uno dei miei figli. E’ troppo pericoloso».
«Anche andare a scuola da solo è
pericoloso … in strada puoi incontrare qualche delinquente che può picchiarti.
La vita è tutta pericolosa, alla fine …».
«Che razza di discorsi … sembri
un filosofo e …».
«Attento! Dannazione!» urlai a
perdifiato impugnando il volante e facendo una manovra che ci fece andare in
un’ aiuola. Flavio riuscì a frenare e una volta ripresosi dallo shock mi guardò
fisso e mi disse:
«Ma sei andato fuori di testa?!
Rischiavamo di morire!».
«Guarda là …» gli dissi indicando
alla destra della zona nella quale eravamo posizionati noi.
Flavio si voltò e i suoi occhi si
congelarono in un fondersi di paura e di estrema preoccupazione. Il corpo di un
uomo era rivolto faccia a terra, rigido e inevitabilmente spaventoso. Flavio
era distratto mentre parlava con me, ma per quanto mi riguardava lo avevo visto
precipitare dall’alto all’ultimo momento.
Subito scendemmo dalla macchina
cercando di trovare qualcuno in aiuto che cercasse di spiegarci la situazione,
ma i passanti e i venditori situati vicino alla scena del crimine erano già
abbastanza scossi per conto loro ed un ulteriore spiegazione sarebbe stata
devastante.
«Chiamate subito un’ambulanza!» urlò
un uomo posizionato allo stesso piano del palazzo dal quale era precipitata la
vittima dell’incidente.
«Non è necessario … è morto.
Chiamate la polizia» annunciò un intristito Flavio.
CAPITOLO
II – Non è realistico
L’ispettore Ducato, seguito come
al solito dal fido Giuseppe Novato, si precipitò in pochi minuti senza il
bisogno di alcuna chiamata supplementare.
«Che succede Flavio?» domandò in
aria stressata. Ducato era un lavoratore davvero instancabile, un cavallo da
corsa senza freni, un grande uomo dedito al proprio lavoro. Un giorno, parlando
con Novato, quest’ultimo mi aveva confessato che ormai l’ispettore era
completamente assorto dal suo lavoro e che aveva addirittura litigato con sua
moglie per questa problematica. Non prendeva ferie da almeno un decennio e
rimaneva imperterrito nella sua posizione proponendosi per faticosi ed infiniti
turni di notte, straordinari, facendo appostamenti pericolosi e quant’altro.
«Un incidente signore. Quest’uomo
è caduto dal terzo piano di questa palazzina giallo ocra. L’impatto è stato
fatale».
«Capisco … Novato, metti a
verbale. Alex, ci sei anche tu? Non ti avevo visto … come va?».
«Tutto a posto ispettore. E a
lei?».
«Tralasciamo ragazzo …
tralasciamo …» mi sussurrò con aria stanca. Poi si lisciò la barba incolta e
toccandosi i leggeri baffetti disse: «Forse sarebbe meglio dare un’occhiata
all’appartamento, non pensi anche tu Flavio?».
«Be’ … se lo ritiene necessario
…».
Detto questo, ci avvicendammo nel
salire al terzo piano di quella palazzina giallo ocra. Era vecchia,
probabilmente costruita immediatamente nel dopoguerra e se ne stava ferma ad
osservare tutte le crudeltà del mondo.
Alla porta ci aprì un ragazzo da
fattezze rotonde e da un’indubbia emotività. Continuava ad avere le lacrime
agli occhi e nonostante i tentativi di Novato di calmarlo, il suo tremolio di
braccia e di gambe non accennava a diminuire. L’appartamento era davvero carino
e ben in ordine. L’uomo era precipitato da una vetrata senza balconi, con un
cornicione davvero sottile. L’aveva completamente sfondata ed è per questo che
si era pensato subito ad un suicidio.
«Allora … lei in che rapporti era
con la vittima?» domandò Ducato al ragazzo.
«Ero il suo coinquilino …».
«Vuole darci le sue generalità
per favore?».
«Non sospetterà di me non è vero?
Non ho fatto niente! Lo giuro! Non può …».
«Stia calmo» lo placò Flavio.
«L’ispettore ha il dovere di mettere tutto per iscritto, quindi cortesemente
annunci le sue generalità».
«Ok … sono Patrizio Berruti, sono
nato a Torino il 4 Marzo 1986 e sono studente universitario presso la facoltà
di legge … però lavoro anche come assistente per un fotografo …».
«Ok. E il suo coinquilino era …».
«Marco Carlotis, era di Cagliari.
Nato il 14 Aprile1967. Lui era invece
docente in una scuola media …» sussurrò ancora abbastanza scosso.
Intanto mi guardavo intorno.
Cercavo di trovare indizi circa l’incidente, quando l’ispettore continuò nel
suo interrogatorio con domande del tutto interessanti, attirando così la mia
attenzione.
«E mi dica signor Berruti, in che
rapporto era con la vittima?».
«Era il mio coinquilino, ve l’ho
detto poco fa …».
«Già, ma intendevo dire … da quando
lo conosceva?».
«Oh,era relativamente poco,
nemmeno due settimane».
«Nemmeno due settimane?».
«Già. Si era trasferito a Torino
da circa tre settimane e avevamo deciso di condividere l’appartamento …».
«Mi scusi signor Berruti»
interruppi.
«Dimmi»
«Prima ha perso questo dai jeans
… è una ricevuta del pedaggio in autostrada … ma la macchina risulta essere
intestata al suo amico e …».
«Oh già … be’ forse ci siamo
scambiati i jeans …».
«Già … forse» sussurrai dando la
ricevuta a Novato.
Più andavo avanti e più mi
rendevo conto che la tesi dell’incidente era terribilmente fuori luogo.
Ragioniamo. Personalmente non conosco molte persone che affiderebbero un’auto
ad una persona che conoscono soltanto da due settimane. C’era qualcosa che
ancora mi sfuggiva, qualcosa che ancora non riuscivo a connettere, ma senza
dubbio la tesi dell’incidente non aveva un filo rosso che la collegava.
«Può descriverci adesso la
dinamica dell’incidente signor Berruti?» chiese elegantemente Novato. Giuseppe Novato
apparteneva a quella categoria di persone che avevano una visione completamente
diversa del lavoro e della posizione che assumevano. Col tempo mi ero accorto
che era impeccabile in tutto ciò che faceva, ma che nella vita di tutti i
giorni sapeva reinventarsi. Avevo anche notato che non aveva per niente l’aspetto
del poliziotto. I capelli sparati in alto, a destra e a manca, modellati con
litri di gel davano già un’impressione diversa da quella di tutore della legge
incorruttibile. Ma erano altre le cose che lo contraddistinguevano.
La sua ironia dissacrante, il suo
volto giovane, fresco, simpatico, gli permettevano tranquillamente di evadere
dagli status quo imposti da questa professione secondo in quali sembra quasi
che la polizia debba annoverare tra le proprie fila solo musoni inguardabili e
uomini super impegnati.
«Certo. Be’ vede, non l’ho visto
proprio bene e non saprei descrivervelo accuratamente perché ero fuori fino a
pochi secondi prima …».
«Vuole dirci in che senso?»
domandò Flavio curioso.
«Vede, mi occupo delle piante del
condominio. Devo potarle, innaffiarle, è una mia grande passione e così ero
fuori con i guanti e quant’altro».
«Capisco, quindi appena entrato
…».
«Ho visto Marco in bilico e pochi
attimi dopo è caduto!».
«Interessante … decisamente
interessante» osservò Novato.
«Che lei sappia» continuò sempre
Novato «la vittima aveva manifestato qualche segno di squilibrio evidente?
Qualche disturbo sociale, emotivo?».
«No … non mi pare proprio».
Aveva mentito per la seconda
volta. Ora ne ero sicuro, non si era trattato di omicidio e il colpevole era
lui. Si era tradito ben due volte ed era davvero assurdo non pensare il
contrario. Oltre alla tessera dell’autostrada, c’erano altre due cose che non
quadravano, ma non riuscivo a mettere bene a fuoco la vicenda. Mancava un
tassello, una piccola parte che avrebbe sicuramente potuto inchiodare
l’omicida.
«Ma che lei sappia, ha avuto
qualche shock in passato?».
«Be’ …».
«Signor Berruti» ammonì
repentinamente Ducato «se conosce qualcosa del passato della vittima, è pregato
di dircelo. Dobbiamo redigere un verbale».
«Mi aveva raccontato di aver
perso sua figlia, circa tre anni fa in un incidente stradale a Cagliari».
Ora che me lo faceva notare, sul
tavolino vicino al divano c’era una fotografia interessante. Era ritratta una
ragazza di circa quindici anni, con lunghi capelli neri e cuffiette da Ipad.
Indossava un berrettino verde ed una felpa violacea. Sorrideva teneramente
tenendo in braccio un gattino dalle piccole dimensioni.
«E’ questa la figlia del signor
Carlotis?» domandai innocentemente.
«Esattamente … si chiamava Maya».
«Uh? Che nome strano …».
«Lo so, ma gliel’aveva scelto la
sua povera mamma …».
«Vuole dire che anche la moglie
della vittima …» iniziò quasi avvilito Flavio.
«Sì. Morì nello stesso incidente
che coinvolse anche la figlioletta adolescente».
«Da qui il trasferimento, non è
vero?» chiesi con gli occhi bassi.
«S-sì … ma come fai a saperlo
ragazzo?» mi domandò Berruti con aria incredula.
«Oh, so tante cose. Quando le
persone hanno bisogno di distrarsi vanno via per un po’ … succede …».
«Diamo un’occhiata alla vetrata»
incitò Ducato. Con i suoi guanti bianchi e le sue mani marcate, cominciò a
toccare i lunghi e pesanti vetri che facevano da riempitivo alla porta di
legno.
«Sembra quasi sia stata presa a
spallate … un pezzo del legno che unisce il cardine è scheggiato …».
«Ispettore!» urlò un uomo della
scientifica. Si era fatto tre piani a piedi correndo, ed ora non riusciva
nemmeno a fabbricare ossigeno necessario per far funzionare il cervello.
«Agella, dimmi pure».
«Sul corpo della vittima, sulla
spalla destra, abbiamo trovato delle schegge di legno conficcate».
«Ecco qui svelato il mistero
della porta» ultimò Novato.
«Ma non è finita. Alcuni
testimoni oculari hanno affermato di averlo sentito gridare a perdifiato mentre
si buttava. Inoltre, mentre stava quasi per schiantarsi invocava una certa Maya
… Infine, la vittima si era appena svegliata quando ha compiuto il tragico
gesto. Lo possiamo intuire dal pigiama che ha indossato per buttarsi».
«Ma Maya è sua figlia!» esclamò
Flavio.
«Be’, di che ti sorprendi? Non è
tanto strano. Ha voluto salutare il mondo per raggiungere sua figlia e sua
moglie e per farlo invocava il nome della prima. Può accadere … » affermò
distrattamente Ducato.
«C’è un’altra cosa strana però …»
commentai.
«E cioè Alex?» mi chiese Novato.
«Be’, non è normale che una
persona che stia per suicidarsi gridi a perdifiato … certo, è normale il fatto
del riferimento a sua figlia, ma un suicida cade in silenzio …».
«Be’, ha ragione il ragazzo …»
osservò Ducato.
«Inoltre c’è anche un’altra cosa
molto strana …» dissi toccando i vetri della finestra. «Guardate. C’è del
nastro adesivo a quattro angoli di una delle due porte, sui vetri, avete
visto?».
«Hai ragione … e sono posizionati
ad un’altezza piuttosto alta e ad una distanza piuttosto elevata l’uno
dall’altro».
«Che strano!» esclamò Novato. Poi
squillò il telefono di Flavio.
«Oh, scusate. E’ un messaggio di
Bianca».
«Uh? Non sapevo che avessi
un’immagine di un campo da golf come sfondo».
«Be’, è vietato dalla legge?» mi
chiese ironicamente.
«No, no … ci mancherebbe … ma
sarebbe più normale un giocatore …».
«Ma che t’importa? Insomma, se
potessi … altro che gigantografia in camera di Bianca … me ne farei fare una
del campo da golf, così potrei sentirmi sul campo anche in ufficio!».
Rimasi un attimo a fissare il
vuoto come un perfetto idiota, poi cominciai a carburare e urlai.
«Ecco il filo!».
CAPITOLO
III – Il filo rosso
L’intera stanza si voltò a
guardarmi.
«Ma quale filo? Di che parli? Sei
andato fuori di testa?» mi domandò quasi stranito Flavio.
«Signori, ho capito tutto
finalmente. So benissimo come sono andate le cose e sono pronto a spiegarvele».
«Ma è stato un incidente, questo
è assodato!» esclamò Ducato.
«Per niente ispettore. Ci sono
molti elementi che fanno pensare ad un omicidio e non ad un suicidio!».
«Che cosa? Spiegati ragazzo!».
Ducato sudava freddo e ormai si lisciava la barba continuamente. Era tutto un
fremito e pareva in procinto di partorire.
«Innanzitutto, c’è la questione
dell’urlo. Un suicida non griderebbe mai mentre spicca l’ultimo volo. Ok, vada
per l’invocazione a sua figlia, ma non è assolutamente possibile che una
persona che stia per suicidarsi urli così tanto».
«Continua, questo l’hai già detto
…» comunicò Novato.
«Successivamente c’è la questione
della vetrata. Mi dite perché avrebbe dovuto spaccarla? Insomma, poteva
tranquillamente aprirla e di conseguenza buttarsi giù senza fare il minimo
danno, ma la vittima no, la vittima ha preferito infrangerla. Mi sa dire il perché?».
«Ehm … no Alex, ma …».
«E poi il nastro adesivo agli
angoli della vetrata … tutto ciò puzza. Forse c’era qualcosa di irrinunciabile
alla finestra, forse un qualcosa che il nostro uomo non vedeva da tempo,
qualcuno che desiderava vedere da tempo …».
«Be’ … l’unica persona che
avrebbe potuto desiderare di vedere è …».
«Maya!» esclamò Flavio.
«Esattamente».
«Ma … stai sostenendo che Maya ha
fatto suicidare suo padre?».
«Oh no …» dissi allontanandomi e
sedendomi sul divano. «Vede ispettore. La vittima stava dormendo quando è
successo il fattaccio e a Torino ci sono molti studi fotografici professionali.
Riescono a fare delle foto ad altissima definizione e a grandezza naturale di
qualunque soggetto tu voglia».
«Ma cosa c’entra adesso?».
«Ma come, non ha capito ispettore
Ducato? Il colpevole ha architettato un trucco semplice ed efficace basandosi
sul subconscio della sua vittima. Innanzitutto si è procurata una foto di Maya,
poi l’ha fatta riprodurre a grandezza naturale ed infine l’ha appesa alla vetrata.
Una persona appena sveglia che vede di fronte a sé la faccia della figlioletta morta, a grandezza
naturale, schizza subito via per abbracciarla, non crede?».
Ducato si scurì in volto, mentre
Berruti cominciava ad abbassare gradualmente lo sguardo. Il topo era in
trappola.
«Ho capito! Il colpevole voleva
inscenare un suicidio con l’ausilio della tecnologia in ambito fotografico!».
«Esatto ispettore. E mi perdoni
se l’anticipo, ma il colpevole può essere solo uno. Signor Berruti, confessi,
non ci faccia perdere tempo. E’ stato lei!».
«Ma … è matto? Figuriamoci se commetto
un omicidio!».
«Sa signor Berruti, il suo piano
era davvero ben congeniato. Sfortunatamente per lei, ha lasciato vari indizi in alcuni punti.
Innanzitutto, ha affermato di conoscere la vittima solo da due settimane, ma
non è assolutamente vero. Ha detto questo per evitare di essere coinvolto il
meno possibile nel caso, non è vero?».
«Aspetta, che prove hai che lo
conoscesse da più tempo?» mi domandò Flavio.
«Il biglietto del pedaggio dell’autostrada,
ricordate? Vi pare che una persona possa affidare la sua auto ad una persona
che conosce solo da due settimane? E inoltre anche più giovane?».
«In effetti è vero … ma non è
sufficiente Alex. Ha detto di aver indossato per sbaglio i jeans dell’amico,
non ricordi?» commentò Novato.
«Già, ma qualcuno ha notato la differenza di
stazza che c’è tra i due? Mi perdoni signor Berruti, ma lei è grosso almeno due
volte la vittima, fisicamente parlando».
«Non ci avevo fatto caso, è
vero!» commentò Ducato.
«E’ impossibile quindi che lei
possa aver indossato i jeans del suo amico. Gli sarebbero andati stretti, è
evidente no? Ma ci sono altre parti del suo discorso che hanno permesso di
smascherarla. Ricorda quando ha detto di essere entrato poco prima che il suo
amico si buttasse? Be’ non è possibile».
«E perché no? Potavo le piante
fuori!».
«E mi dica, dov’è l’attrezzatura
necessaria?».
«Co-cosa?».
«Ma sì, l’attrezzatura. Dov’è
finita? Grembiule, pinzette, acqua … Non mi dirà che lei, nonostante stesse per
assistere ad un suicidio bello e buono, abbia avuto la freddezza di mettere tutto
a posto? Perché se è così, complimenti per la calma …».
«No … il fatto è che io …».
«Il fatto è che lei sta crollando
signor Berruti. L’unico che poteva procurarsi una foto ad alta definizione
della figlia della vittima era lei, vivendo qui e lavorando contemporaneamente
in uno studio fotografico. E le dirò di più. Non ha avuto nemmeno il tempo di
disfarsi della foto completamente. Scommetto che se rovisteremo nella
spazzatura, troveremo quello che cerchiamo e …».
«Basta così» mi interruppe. Si
lasciò andare sul divano e inarcò il sopracciglio destro «è vero. L’ho ucciso io».
«Ma perché l’ha fatto?» chiese
Flavio.
«Era diventato scontroso e
irascibile con tutti e minacciava di svelare il mio segreto».
«Quale segreto?» domandò
sospettoso Ducato.
«In realtà evadevo fiscalmente da
più di quattro anni. Facevo una bella vita … una sera avevamo alzato troppo il
gomito e così inconsciamente, glielo rivelai. Fu l’errore più grande della mia
vita».
«L’errore più grande della sua
vita è stato commettere un omicidio signor Berruti. Che Dio abbia pietà di lei
…» commentò Novato affranto.
«Ho cambiato idea sulle
gigantografie, sai Alex?» mi disse energicamente Flavio in auto.
«Davvero? Perché?».
«Be, se hanno permesso di
smascherare un omicidio, non possono essere tanto malvagie … sai che farò? Un
galleria con alcuni dei miei scatti migliori! L’appenderò nel mio ufficio, in
casa, dappertutto!».
«Domani cambio residenza …».
«Cosa?».
«Niente, ragionavo ad alta voce».
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