Sigla di oggi: "Warning Sign" by Coldplay
L’OBIETTIVO
CAPITOLO
I – La villa della paura
Villa Agatha era un sontuoso
luogo dove ogni anno venivano organizzati magnifici ricevimenti di ogni genere.
Nell’ordine, nei lussuosi saloni di quella villa risalente ai primi del ‘700,
si erano festeggiati i compleanni dei figli dei più ricchi industriali della
città, le nozze della figlia del capo del dipartimento della polizia, il
battesimo del duca di un piccolo staterello indipendente fuori dall’Italia e
vicino ai transalpini. Insomma, era un luogo molto particolare che apriva le
sue porte solo per gente importante, stimata, colma di orgoglio e che
conferisce orgoglio a chi guarda. E’ questo il motivo per cui quella sera
Bianca e Andrea erano terribilmente eccitati all’idea di entrare per la prima
volta nei bellissimi saloni settecenteschi di Villa Agatha. Sognavano
lunghissimi tavoli in legno massiccio, parquet lucidati a dovere e lampadari di
cristallo che definire sfarzosi sarebbe stato usare un eufemismo bello e buono.
Per tutta la settimana Bianca aveva parlato di Villa Agatha come un ragazzo,
definendola «bellissima e straordinaria». Mio fratello, di appena cinque anni,
era ovviamente rimasto impressionato dalla descrizione e fremeva dalla voglia
di entrare.
Ah, dimenticavo di dirvi il
motivo per il quale eravamo stati invitati. No, nessun compleanno, battesimo,
comunione, cresima o matrimonio. Semplicemente a Torino erano state portate per
una settimana alcune della auto storiche più preziose al mondo e si era scelta
quella villa per esporle al grande pubblico. Flavio aveva lavorato ad un caso
per il responsabile del trasporto delle vetture, che era riuscito a procurargli
dei biglietti per tutta la famiglia. Amavo le macchine d’epoca, ma ero
emozionato per loro, non certo per i saloni che mi avevano descritto. E’
incredibile come le donne e i bambini siano suggestionabili. In fondo, era solo
una villa come le altre, non sarebbe stata certamente nulla di speciale.
«Allora entriamo?» mio fratello
era in fremito. Vestito di tutto punto, con cravattina color vino rosso, faceva
tenerezza e allo stesso tempo dava un aria di immaturità naturale per un
bambino.
«Devi aspettare che ci chiamino.
Anche gli altri signori sono fuori, non vedi piccolo?» rispose a tono Bianca
indicando una massa di persone dall’aria naif e snob che si dimenava in
conversazioni con oggetto la meteorologia. Sì, battute del tipo «non ci sono
più le mezze stagioni». Con tutta la discrezione possibile, che barba! Passando
a Bianca, continuava a carezzare mio fratello e a tenerlo buono. Indossava un
abito corto fin sopra il ginocchio color pesca. La forma aggraziata delle sue
gambe dava sinuosità ai suoi movimenti e le assicuravano un aspetto
rassicurante, semplice e allo stesso tempo sensuale. Ero arrossito per qualche
secondo nel momento in cui la vidi per la prima volta con quell’abito addosso.
«Vedo che tuo fratello ha voglia
di vedere le auto» commentò Flavio avvicinandosi. Si toccava i gemelli della
camicia e si aggiustava continuamente la giacca nera. Aveva indossato anche lui
la cravatta buona.
«Sai come sono i bambini … »
affermai scrutando il giardino nel quale attendavamo. Era davvero ben curato e
nessun particolare era stato lasciato al caso. Tre fontane raffiguranti tre
angeli in tre posizioni diverse, facevamo sgorgare acqua limpida in differenti
e variegati modi. L’aria fresca della sera spostava l’aroma della natura e impreziosiva
una scena epica, quasi cinematografica.
«Già, i bambini … perché non ti
piacciono le auto d’epoca?».
«Certo che sì, ma non ho bisogno
di saltellare e zampettare per dimostrarlo».
«Sarà … mi eri sembrato un po’
scocciato … »
«Io? Ma quando mai?».
«Sicuro?».
«Arcisicuro».
«Con quella faccia …»
«Questa c’ho!».
«Hai mai pensato a una
plastica?».
«No, tu?».
«Io non ne ho bisogno».
«Oh sì invece».
«Sei irrispettoso».
«E tu scocciante».
«Irrispettoso e con la cravatta
fuori posto. Ma non te l’hanno insegnato a metterla a posto? Sembri uscito da
una sbronza da college americano» affermò mentre mi aggiustava la cravatta. Mi
ero vestito bene quella sera. Giacca nera lucida, pantaloni dello stesso tipo,
scarpe eleganti e cravatta bianco latte. Non ero niente davvero niente male.
«Flavio Moggelli, dannazione! Era
un secolo che non ci vedevamo!». Fece la sua comparsa sulla scena un uomo
corpulento, dall’altezza normale e dall’eleganza spropositata. Oltre ad
indossare un abito all’apparenza costosissimo, aveva abbinato orologi, catenine
e anelli da vero magnate. In particolare ce n’era uno con una pietra enorme.
Doveva essere uno zaffiro, senza dubbio. La pietra era modellata a forma di
pesce ed era davvero impressionante. Sicuramente sarebbe valsa un sacco di
soldi se fosse stata venduta ad un’asta. Ma avevo già capito che tipo di uomo
fosse quel tipo.
«Gennaro Verdi! Cavoli, come sei
cambiato!» disse Flavio abbracciandolo in modo festoso.
«E anche tu però! La vecchiaia
non risparmia nessuno!» affermò cadendo in una risata volgare e poco incline
alla serata.
«Ragazzi, vi presento
l’organizzatore e il responsabile della serata. E’ lui che mi ha fatto avere i
biglietti!».
Ci presentammo tutti con un
saluto e stringendomi la mano il signor Verdi disse a Flavio:
«Ma questo è un altro tuo figlio?
Sapevo ne avessi solo due».
«Infatti non è mio figlio»
rispose quasi seccato «è solo un ragazzo che ho in casa per … ».
«Ah, il PSD vero? Be’, è molto
appassionante la vita di detective, non è vero ragazzo?».
«Certo … » risposi un po’
imbarazzato.
«Ascolta, sei uno di quelli che
fa anche i giochetti di deduzione? Tipo che scopri le cose senza che te lo dico
oppure … ».
«Lei è appassionato di pesca
oltre che di auto d’epoca, non è vero?».
«C-cosa?».
«Alludevo al suo anello. Oltre ad
essere molto prezioso ,al tatto noto che ha anche delle lettere incise. Non
sarà mica membro di qualche club di pesca, non è vero?».
«Niente male! Davvero niente
male! Hai capito il nostro piccolo detective! Be’, sì, in effetti sono membro
di un club e questo è il premio per una battuta di pesca di un anno fa. Ho
battuto altri quaranta partecipanti e ho pescato in sole quattro ore, la
bellezza di dieci chili di pesce fresco!» affermò lisciandosi il mento privo di
barba e lasciandosi andare in una risata copiosa.
«Magnifico» dissi fingendo
entusiasmo. Intanto verso di noi si avvicinarono alcuni altri figuri. Non
passavano certo inosservati. Appartenevano a quella schiera di personaggi che,
pur essendo da un certo punto di vista vestiti con eleganza, non rinunciavano
alla loro individualità e quindi stravolgevano i normali status quo della moda
inserendo dei particolari vistosi, grossolani e individualistici.
«Oh, ecco i miei amici di guerra!»
disse Verdi ancora ridendo. «Voglio presentarveli. Questa bellissima donzella è
la mia compagna, mia moglie da solo un mese, la signora Margherita Mopeni in
Verdi» continuò facendo il baciamano ad una donna con capelli rosso fuoco e
vestita dello stesso colore. Le sue mani erano coperte da pesanti guanti
bianchi, in stile “femme fatale” per capirci.
«Questo giovanotto è un amico del
circolo della pesca. Si chiama Luca Treviatini, ed è anche il mio assistente,
il mio bodyguard. Guardate che muscoli!» affermò mettendo in palese imbarazzo
un ragazzo sui venticinque anni. Aveva capelli neri corvini pettinati in basso
e teneva sempre lo sguardo nella stessa direzione, segno evidente di timidezza e
poca autostima.
«Smettila Gennaro, non fare il
bambino» tentò di rimproverarlo.
«E dai, scherzo! E che dire di
questo ragazzone?» continuò abbracciando un uomo altissimo. Doveva essere
almeno due metri e assomigliava a Frankestein. «Lui è il mio miglior amico,
Giovanni Scritti, è un sicario di professione …» Rise ancora. Era a tratti
irritante. «No, scherzo, fa il banchiere!».
«Chissà quanti prestiti può
permettersi di non concedere con quel fisico!» disse scherzando Flavio.
«Bella questa! Signori, questo è
Flavio Moggelli, detective privato e questa al seguito è tutta la sua
famiglia!».
Dopo le solite e continue moine
alle quali ormai ero abituato, essendo stato in compagnia di Flavio in un
variegato di luoghi diversi, circa cinque minuti dopo facemmo il nostro
ingresso nella famigerata Villa Agatha. Entrammo dapprima in un corridoio
scavato nella pietra. Il fascino che emanava quel luogo era incredibile.
Maestosi cornicioni in pietra conferivano all’ambiente un qualcosa di gotico e
soprattutto quasi spettrale. Ma tutto spariva quando, superato il corridoio, ci
si ritrovava nella bellissima hall della villa. Un pavimento in parquet si
estendeva per almeno una quarantina di metri,
accompagnato da scrivanie laminate e laccate riservate agli impiegati e
ai responsabili della manifestazione della serata.
«Gennaro, tu non ti siedi qui con
loro? Non sei anche tu organizzatore?» chiese Flavio .
«No, ho deciso di prendere il
compito di “sorvegliante delle auto”. In questo modo riuscirò a godermi anche
il buffet. Perché noi sappiamo tutti come è il buffet, non è vero ragazzo?»
urlò dandomi una pacca sulla spalla così forte da farmi quasi uscire gli
organi.
«Certo … come no … » acconsentii
in aria da timido scolaretto. Bianca fece una risatina, Andrea si guardava
intorno e non stava un attimo fermo con quei suoi piccoli occhietti. Una volta
scrutavano il corridoio gotico, poi si posavano sulle scrivanie laccate, poi si
specchiavano nei lucidi parquet della sala d’attesa e infine risplendevano alla
vista di alcuni lampadari settecenteschi. E pensare che eravamo solo alla hall.
Non avrei mai voluto immaginare quanto lusso ci fosse dentro il salone
riservato all’esposizione.
Mentre stavamo per entrare
passando per una pesante porta in legno dipinta a mano, cortesia di alcuni
professionisti che arrivarono addirittura dalla Francia per farlo, sussurrai
qualcosa a Bianca.
«Ma tu non ci sei mai stata
vero?».
«Ho solo visto qualche servizio
in televisione. So che hanno un pavimento dove puoi specchiarti e …».
«Ok, ok, basta così» affermai
stoppandola e sorridendo. Se avessi continuato a farla parlare, mi avrebbe
raccontato la cronistoria della villa dalla sua fondazione ad oggi.
«Antipatico» mi apostrofò con un
pizzico di indignazione guardandosi all’indietro
«Pure?».
«Già» e mi fece una linguaccia.
Finalmente le porte si
spalancarono ed un enorme salone, di proporzioni pressoché gigantesche, si
presentò ai nostri occhi. Davvero, era immenso. Gli occhi di Andrea si
riempirono di un grido soffocato che avrebbe espresso giubilo da tutti i pori.
Lampadari luccicanti e colmi di cristalli preziosi si presentavano di fronte ai
nostri occhi e si specchiavano nel riflesso della pavimentazione trasparente.
Lunghi tavoli tondi erano
apparecchiati a festa con i fazzoletti di cotone a far da composizione
artistica ad una scena davvero eccelsa dal punto di vista estetico. Fior fiori
di camerieri di tutte le età e di ogni stazza passeggiavano con disinvoltura
nel salone portando pietanze raffinate ed ultimando i preparativi in modo
tranquillo e assolutamente non frenetico. Confesso che rimasi anch’io a bocca
aperta. Non avevo mai visto tutto quel lusso in una sola volta. Provenivo da
una famiglia umile. Mia madre aveva fatto la giornalista per anni in un
quotidiano locale, mentre mio padre era ingegnere e insegnava matematica,
materia che da sempre odiavo, in un istituto tecnico commerciale.
«Andiamo a sederci?» domandò
Bianca. Intanto un cumulo di persone con la puzza sotto il naso aveva portato
via Gennaro, l’amico di Flavio. Diedi un’occhiata in aria e notai dei
balconcini davvero molto carini che permettevano alla stanza di imporsi con aria
quasi romantica.
«Certo figliola, il nostro tavolo
è il numero 33».
Un palcoscenico dalle dimensioni
sproporzionate stava al centro della stanza. Un tendone color violaceo copriva
l’ esposizione delle auto d’epoche.
Un figuro in giacca e cravatta
parlava a ripetizione con alcun tecnici al montaggio e a suono. In particolare
ce n’era uno davvero fuori dagli schemi, un ragazzo sulla trentina vestito in
bermuda e maglietta, con capelli di colore arancione accompagnati da un
berretto dalla forma e tipologia buffa. Viva le tinte colorate.
Prima che venissero mostrate le
auto, gli organizzatori dell’evento ci deliziarono con tre portate di indubbio
valore. Mangiammo tutti piatti raffinati e si sa, in queste circostanze, la
gente semplice non mangia mai. Ve lo dico onestamente. Avrei preferito mille
volte mangiare a casa mia piuttosto che fingere che mi piacessero quei piatti.
Il fatto è che passai anche da maleducato, visto che i camerieri ogni volta che
venivano per ritirare il piatto e servire la portata successiva, mi guardavano
con aria indignata e con un non so che di oscuro. D’altronde non era colpa mia.
Cominciarono servendo un Fideuà, un piatto di origine spagnola a base di pesce
e riso. Proseguirono poi con una vellutata di zucca con gamberi e ultimarono il
tutto con uno stranissimo riso a base di code di mazzancolle. Risultato: digiuno
assoluto.
«Non mangi niente?» mi chiese
Bianca mentre assaggiava un pizzico di ogni portata.
«Ehm … no, non ho fame … eh eh eh»
risposi con una risatina quasi isterica.
«Macché, la verità è che il
signorino non mangia questa roba, non è vero? Il signorino va a panini e pizza,
giusto?» intervenne Flavio.
Non risposi nemmeno ma ricambiai
al suo sguardo ironico.
Ad un tratto le luci divennero
sempre più soffuse, fino a spegnersi quasi completamente. Fasci di luce gialli,
bianchi e verdi filtravano dal palco e il fumo ideale per l’atmosfera della
presentazione pervadeva tutto il salone. L’uomo di prima, quello che parlottava
con i tecnici,vestito su di un frac, prese il microfono e cominciò a parlare.
Sarebbe stato lui il presentatore della serata, colui che avrebbe dovuto
addentrarci nei classicismi delle auto.
«Signori e signori, buonasera e
benvenuti alla presentazione che la città di Torino ha organizzato per mostrare
al mondo le bellezze automobilistiche. Mi chiamo Carlo Querci e sarò il
presentatore della serata. Un ringraziamento sentito al sindaco di Torino» affermò
indicando un uomo con l’aria soddisfatta e dalle tempie imbiancate. «E
naturalmente» affermò riprendendo a parlare «anche agli sponsor della serata.
Un sentito “grazie” anche a Gennaro Verdi, responsabile e co – organizzatore
della serata». Verdi rispose con un cenno della mano e salutò in modo
grossolano. Era inconfondibile, seduto ad un tavolo contornato dai suoi amici
che ci aveva presentato poco prima.
Pian piano che il tempo passava,
i miei occhi si perdevano nelle ignare figure che mi si paravano di fronte. I miei
pensieri andavano però al Fuoco Re e alla vicenda di mio padre; A quella della
moglie di Flavio e alla storia di questo clan criminale, un clan che aveva
seminato terrore e paura in tutto il mondo per anni e che continuava a farlo.
Oltre ad essere una questione personale, adesso era anche una questione di
Giustizia, quella con la “G” maiuscola.
Il presentatore disse le ultime
parole di circostanze e poi si spostò, lasciando la parola alle auto. Il telone
che copriva e che sorreggeva la parte del palcoscenico dedicato alla
esposizione dei pezzi d’epoca si tolse e fecero il loro ingresso in scena
macchina meravigliose.
C’era una Ferrari Dino 246, una
vecchia Alfa Romeo Spider duetto di colore rosso, una Maserati Mexico, una
Mercedes 300 SL grigio perla, una Ford Thunderbird, una Citroen Dyane, un
maggiolino della Volkswagen, una Innocenti mini e infine una Porsche 911. Erano
splendide. Incredibili, anche essendo a distanza, potevi percepirne l’essenza,
la storia.
«Oh, che meraviglia!» esclamò
Bianca.
«Già, sono strepitose, mi farebbe
piacere guidarne una» affermò un estasiato Flavio.
«Ma se a fatica guidi la Croma …
» risposi con un sorrisino.
«Ehi, ti ho sentito!».
Una forchetta cadde nell’aria e
interruppe le grida di stupore generale. Era caduta dal tavolo di Verdi ed uno
dei suoi amici si chinò dietro la sua sedia per raccoglierla in modo repentino.
Che noiosa quella gente. Avevano parlato di pesca e di imbarcazioni tutto il
tempo. Luca Treviatini aveva detto qualcosa su un suo passato da marinaio,
mentre Giovanni Scritti aveva parlato di fili, lenze e canne da pesca.
Poi il nulla, nell’aria un colpo
secco, vibrante, spiazzante e inaspettato. Il suono di un proiettile. I tecnici
accesero subito la luce. Tutti guardarono tutti e anche noi ci guardammo
intorno. Gennaro Verdi era a terra, esanime, con il sangue che gli sgorgava dal
corpo e gli avvolgeva il petto.
«Chiamate subito un ambulanza!»
urlò Flavio alzandosi dal tavolo e quasi capovolgendolo. Le urla avevano preso
il sopravvento. La metà dei partecipanti alla festa si era buttata a terra con
le mani sulla testa per timore che venisse sparato un altro colpo, mentre
l’altra metà si era rifugiata laddove i proiettili non sarebbero mai arrivati e
cioè sotto i balconcini. Ma il colpo era partito da lì, quindi cominciai a
correre come un forsennato per andare a controllare. Non potevo lasciar stare,
un innocente era stato colpito. Bianca tentò di fermarmi urlandomi contro di
tornare indietro mentre Flavio mi aveva già lanciato diversi insulti addosso.
Ma ormai non mi fermavo più. Uscii dalla sala e imboccai una scala a chiocciola
che mi avrebbe portato direttamente ai balconcini dai quali era partito il
colpo. Salii i gradini come se stessi concorrendo in una gara, arrivai in cima
e … non trovai nulla. O meglio, solo qualcosa.
Una pistola, attaccata alla
ringhiera del balconcino con dello scotch. Era attaccata dal punto di vista
interno e dal grilletto penzolava una parte di corda. Il resto, era a terra. Il
vento soffiava veloce e con i suoi brividi mi attraversava facendomi provare
una sensazione di frustrazione. Ah, se solo avessi immaginato cosa sarebbe
successo, ma onestamente era impossibile. Nessuno può prevedere un omicidio.
Bianca era già salita per
raggiungermi e Andrea chiamò “fratellone” tanto forte che probabilmente lo
avrebbero sentito anche al Polo Nord o giù di lì, se solo avesse provato a
ripeterlo.
«Alex, papà ha detto che devi
scendere. E’ pericoloso stare qui».
«Capisco» dissi non staccando gli
occhi dalla scena.
«Non mi hai nemmeno sentito, non
è vero?».
Non risposi. Ero troppo assorto
dal caso.
«Alex, mi stai ascoltando?
Alex?».
«Fratellone!» urlò Andrea
attirando l’attenzione e facendomi sobbalzare.
«Che c’è?!» mi voltai di scatto e
guardai entrambi con un’aria da “non disturbatemi”. «Sto cercando di fare
chiarezza, ma non ci riesco se voi continuate a civettare!».
«Ok … scusa Sherlock Holmes»
disse in tono ironico Bianca.
«Molto divertente».
CAPITOLO
II – Vivere come fratelli
Alle 23:20, Gennaro Verdi era
ufficialmente morto. Quel colpo di pistola, partito in chissà quale modo e da
chissà chi, aveva messo fine all’esistenza di un uomo dipinto da tutti come
encomiabile. Gli invitati alla festa, chiamati a dire la propria sulla vittima,
non ebbero che parole di elogio verso di lui. Lo giudicarono certo ambizioso,
duro, spaccone, competitivo, ma al contempo lo etichettarono come gentile,
intelligente, acuto, alla mano e molto, molto socievole. Margherita Mopeni, la
compagna di Gennaro, era in lacrime. Il mascara le si era sciolto sul viso ed
era diventato un tutt’uno con le lacrime. Giovanni Scritti e Luca Treviatini cercavano
di consolarla carezzandola e quietandola. Ma non c’era nulla da fare. Aveva
perso l’amore più grande della sua vita e lo aveva perso in un modo a dir poco
ignobile. Fare giustizia era un dovere, non solo normale, ma anche morale.
«Ah, eccoti audace detective. Sei
ritornato? Vuoi farti venire un altro raptus compulsivo?» Flavio mi squadrò
dall’alto verso il basso mentre facevo di nuovo il mio ingresso nella sala.
«Scusami, è che … ».
«E’ che un corno! Devi stare qui,
chiaro? Non puoi prendere certe iniziative, sei pur sempre un ragazzo! Lo
capisci questo o devo farti un disegnino?». Tenete presente che mi urlò queste
parole dritto in faccia.
«No, la prendo senza».
«Cosa … cosa stai dicendo?».
«Che la prendo senza».
«Ma cosa?».
«La spiegazione no? Senza
disegnino per favore» affermai con il sorriso sulle labbra allontanandomi.
«E smettila di fare battute! E
togliti quel sorriso sfottente dalla faccia!»
Squadrai la scena. La pistola
doveva essere stata posizionata da qualcuno che conosceva dove si sarebbe
seduto la vittima. Il colpo sarebbe partito e avrebbe colpito in pieno dove
l’assassino avrebbe voluto. Era matematico, quasi ingegneristico e non c’erano
dubbi. Il colpevole era tra loro tre, sì, tra gli accompagnatori di Verdi. Solo
loro potevano sapere dove si sarebbe seduta la vittima con esattezza e solo
loro avevano avuto modo di stare a contatto con la vittima nei giorni
precedenti all’omicidio.
«Saliamo su, andiamo a dare
un’occhiata» Flavio mi tirò per l’orecchio e mi trascinò per tutta la sala,
strappando qualche risolino ai presenti.
«Ahi, ahi! L’orecchio, me lo
stacchi!».
«A te servirebbe una lezione da
manuale!» continuò ad urlare.
Arrivati di nuovo sopra, Flavio
cominciò ad esaminare la scena del crimine.
«Direi che si tratta di un’arma a
grilletto veloce, nel senso che basterebbe un piccolo movimento del dito per
sparare. Hanno legato una corda … » osservò mentre pensava ad alta voce.
«Già … e la cosa più strana …».
«Sì? … ».
Non risposi. Notai qualcosa sulla
trave. Spuntavano dei segni sul legno. Erano segni di corda evidenti.
«Guarda la trave che sorregge il
palchetto» dissi rivolgendomi a Flavio «ci sono dei segni sopra … e combaciano
con quelli della corda …».
«Quindi possiamo dedurre che era
legato lì, ma come ha fatto l’assassino a far partire un colpo di pistola da
qui … senza muoversi?».
«Questo è un mistero, dobbiamo
scoprirlo».
«E’ arrivato Mister Ovvio … ».
La porta dietro di noi sbatté
violentemente facendoci rabbrividire. Be’ … facendolo rabbrividire … e
ovviamente mi riferisco a Flavio. Non appena la porta sbatté si buttò a terra e
fece due o tre capriole da chinato. Rimasi a fissarlo con compassione.
«Chi ha sparato?!» urlò a
squarciagola.
«Ma chi ha sparato? Era la porta,
sveglia!».
«Ehm … lo sapevo … volevo vedere
se eri pronto ad una fuga e … non lo eri affatto! Se fosse stato un colpo di pistola,
ti avrebbe già colpito! Devi imparare!» affermò schiaffeggiandomi dietro la
nuca.
Intanto dalla sala, si sentivano
i discorsi noiosi di Treviatini e di Scritti … parlavano ancora di navi e di
imbarcazioni. Ma dico, non si stancavano mai?
«Ti dico che è così, sono stato
sulle navi per anni!» diceva Treviatini.
Guardai a terra e vidi un pezzo
di corda annodata in modo alquanto particolare. Un brivido mi attraversò il
corpo e la mente divenne lucida come non mai. Ora avevo quasi capito tutto! La
porta che sbatteva per il vento, i nodi fatti in modo strano, i segni di corda
sulla trave, la pistola col grilletto facile … ora bastava solo un altro
piccolo indizio. Mi chinai a terra cercando di controllare e lo trovai!
Con disinvoltura mi rialzai.
Flavio era ancora intento nel controllare l’arma e così decisi di fare tutto da
solo.
Scesi dalla scala senza che se ne
accorgesse e mi ritrovai nel salone.
«Eccolo qui il nostro Sherlock,
allora hai trovato qualcosa?».
«Credo di sì … sai, io ho sempre
avuto la passione per il mare, lo sai?!» continuai dicendole mentre cambiavo
espressione.
«C-cosa?».
«Ma sì, la passione per il mare,
le navi, le imbarcazioni» continuai dicendole a voce alta.
«Davvero sei appassionato di
queste cose ragazzo?» Luca Treviatini si avvicinò repentinamente. Ce l’avevo in
pugno, era roba di poca cosa ormai. Bianca si manteneva a distanza stranita.
Era decisamente poco abituata ai miei trucchi per incastrare i colpevoli.
«Sì e ho visto che anche lei è
molto esperto. Mi piacerebbe imparare …».
«Non dire altro ragazzo mio! E’
palese che uno come te sarebbe un allievo volenteroso! Facciamo così, vediamoci
Domenica mattina e andiamo a pesca insieme, ti va?».
«Uao! Sarebbe fantastico!» finsi
distrattamente. Non so come la pensiate, ma un giorno ritirerò l’Oscar per il
miglior attore protagonista.
«Bene allora. Ci vediamo
Domenica».
«Certo … sa, però è un peccato
che il signor Verdi non possa venire più con noi».
«Ragazzo mio» cominciò posandomi
la sua mano destra sulla spalla «è davvero una grandissima perdita, Gennaro era
un uomo straordinario, una persona magnifica».
«Lo pensa davvero signor
Treviatini?» gli chiesi.
«Certo … perché non dovrei?».
«Di solito non si pensano queste
cose di chi si uccide! Perché è lei l’assassino del signor Verdi, non è vero?».
L’uomo rabbrividì, lo vidi per un
attimo fuori dagli schemi, poi deglutì, e in men che non si dica riacquistò la
sua solita aria spavalda.
«Ah ah ah! Ragazzino, forse hai
bevuto qualcosa di troppo forte. Non mi incolperai mica dell’omicidio di uno
dei miei migliori amici?».
«Temo di sì signor Treviatini»
affermai tra i bisbigli increduli della gente presente nel salone. Con la coda
dell’occhio vidi anche Flavio, da sopra il balconcino, che si era interessato
al dibattito.
«Hai prove di quanto affermi?»
interruppe Margherita Mopeni. Aveva ancora gli occhi gonfi di lacrime.
«Certo che sì, signora.
Innanzitutto, chiariamo la dinamica dei fatti. Solo uno degli amici e
accompagnatori di suo marito poteva sapere esattamente dove si sarebbe seduto.
Quindi, l’omicida è certamente tra voi. Inoltre, e spero che Flavio possa
confermare,» continuai voltandomi e cercando un cenno d’intesa «l’assassino ha
architettato un trucco davvero ingegnoso per riuscire ad eludere le prime
impressioni».
«Ovvero? Spiegaci ragazzo» incitò
Giovanni Scritti.
«L’assassino ha tenuto aperte le
finestre che si ergono sopra il
terrazzetto contornato di balconcini perché sapeva che il clima avrebbe garantito
vento forte. Successivamente ha spalancato la porta che fa da tramite tra le
due stanze, quelle dove c’è la finestra e quella dove c’è invece la platea, ed
ha legato un sottilissimo filo di lana o di cotone alla serratura della porta.
Ma non è finita qui. L’omicida ha legato contemporaneamente una corda alla
trave che si trova in alto al terrazzo. Ne costituiscono una prova gli evidenti
segni di trascinamento sul legno. Flavio potrà confermare».
«Certo, è così».
«Ancora, il colpevole ha unito i
due fili, quello della corda e quello del filo di cotone, in modo da legarli
insieme con un tutt’uno. In seguito, ha lasciato andare un lembo della corda
che pendeva dalla trave e l’ha legato al grilletto di una pistola che aveva
fissato con del nastro adesivo sulla parte interna della ringhiera del
balconcino. Essendo, come sottolineato da Flavio poco fa, una pistola dal
grilletto leggero, sarebbe bastato un piccolo movimento per riuscire a far
esplodere il colpo. Ricapitoliamo, il signor Treviatini sapeva dove si sarebbe
seduto il signor Verdi e quindi ha architettato questo ingegnoso trucco per far
sì che il colpo venisse sparato proprio in quella direzione. Scommetto che ha
anche fatto delle prove di notte, forse per non farsi vedere. I segni sulla
trave la condannano. Chissà quante volte ha provato e riprovato il suo trucco
fino a raggiungere la certezza aritmetica che il colpo avrebbe raggiunto la
vittima» dissi guardando negli occhi Treviatini. Aveva abbassato lo sguardo,
stava quasi per crollare,era quasi finito. Era alla deriva, al capolinea. Per
restare in termini di imbarcazioni, stava affondando.
«Sì, ma ci spieghi come ha fatto
il grilletto a muoversi se nessuno l’ha toccato?» domandò Bianca guardandomi in
modo incredulo.
«Ma come … l’ho detto prima. Il
colpevole ha usufruito della natura. Il vento che proveniva dalla finestra ha
cominciato a soffiare più forte fino a far sbattere la porta. L’impatto che
proveniva dalla porta ha spezzato il filo di cotone o di lana leggera, ha fatto
sciogliere il nodo della corda che era stato fatto dalla trave. Il movimento
che ha permesso alla corda di sciogliersi, ha permesso alla parte di corda
posta sul grilletto di compiere un ulteriore piccolo movimento … il resto è
storia recente. Il colpo è partito ed ha colpito in pieno Verdi».
«Sono solo fandonie! Non sai
nemmeno di cosa stai parlando! Non hai nessuna prova!».
«In effetti ragazzo» osservò
Scritti «non ci hai ancora mostrato le prove».
«Caro signor Scritti, ce ne sono
ben due. La prima è questa» dissi estraendo un pezzo di corda che avevo
trovato. «Guardate come è annodata. Il nodo è inconfondibile. E’ un nodo che
imparano a fare i marinai e per stessa ammissione del signor Treviatini, egli
ha passato molti anni sulle navi. Basterà una rapida ricerca su internet o
negli uffici del comune per stabilire quale lavoro facesse» dissi lisciandomi i
capelli.
«E la seconda prova?».
«Quella è stata palese. Poco
prima che Verdi venisse colpito, dal vostro tavolo è caduta una forchetta.
Nonostante fosse buio, sono certo che è stato il signor Treviatini a farla
cadere in modo da trovarsi dietro la schiena della vittima e quindi di
conseguenza più al sicuro nel caso in cui il colpo avesse fatto cilecca. Faremo
esaminare le forchette una per una finché non ne troveremo una con le impronte
del colpevole e al contempo con alcuni elementi che sicuramente si trovano a
terra sul pavimento. La scientifica ci impiegherà un po’ di più, ma avremo le
nostre risposte».
«Non hai ancora … » tentò di dire
il colpevole. Ora era rosso in viso, ma si ostinava ancora a negare.
«E se non bastasse» lo interruppi
maleducatamente «sappia che questo posto avrà sicuramente un circuito di
sorveglianza a infrarossi … nel caso in cui si ostentasse a negare, le
telecamere diranno la verità».
Luca Treviatini lasciò andare
qualche parolaccia, poi, con gli occhi rossi per il pianto confessò tutto.
Dichiarò di aver ucciso Verdi per gelosia, dovuto ad alcuni progetti che
stavano ultimando insieme. Il criminale venne portato in questura, dove cercò
di scappare. Un agente della polizia fu ferito ad un braccio per cercare di
fermarlo. Aveva un coltellino nella tasca interna della giacca. Credo sia
incredibile dove possa arrivare la follia umana. Essere amici per tanti anni e
poi … poi uccidere solo per sciocca ambizione, credo sia decisamente troppo e
decisamente triste. Non avevo idea di come si potessero uccidere le persone, ma
probabilmente era questione di mentalità, di cervello. Forse ti si annebbiava
quella parte di cervello che doveva sempre essere lucida. O forse è
semplicemente come diceva Martin Luther
King.
“Abbiamo
imparato a nuotare come pesci e volare come uccelli, ma non a vivere come
fratelli”.
ANTICIPAZIONE EPISODIO 33: Ciak, si gira! In un set cinematografico avviene un delitto inspiegabile. I protagonisti hanno tutti qualcosa contro l'un l'altro e la cosa peggiore è che si rifiutano di collaborare. Chi è l'assassino? ALEX FEDELE EPISODIO 33: GIALLO SUL SET! Solo qui a partire dal 14 Aprile 2012! Non perdetelo per nessuna ragione!
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