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sabato 26 novembre 2011

Alex Fedele: Ballo di morte(stagione 1; episodio 15)


BALLO DI MORTE

PROLOGO:  Salsa, tango, merengue, valzer ... conosciamo tanti tipi di ballo, non è vero? Il ballo è arte, la danza è movimento, interpretazione e ... crudeltà. Già,crudeltà. Cosa succede quando la crudeltà entra in pista? 




CAPITOLO I – Parole ambigue

Mia madre ballava. Le piaceva volteggiare per ore in casa, quando io e mio fratello Stefano eravamo ancora piccolini. Andrea era solo un progetto e la sera, quando papà tornava dal lavoro, mia madre accendeva lo stereo a palla e cominciava a danzare sulle note di artisti famosi quanto bravi. Nomi come Michael Jackson, Santana, Aereosmith, U2 e anche diversi tipi di musica come Pavarotti ad esempio, la esaltavano e facevano di lei il prototipo della mamma allegra e svagata, che in realtà, per vari motivi, non era.
Fatto sta che papà entrava ogni sera in casa ed ogni sera si ripeteva la stessa scena. Volteggiavano, danzavano, si amavano per ore, come se fossero innamorati l’uno del cuore dell’altra più di ogni altra cosa al mondo. Sono questi i ricordi che ti fanno dimenticare i problemi, ad esempio il fatto di essere stato in ospedale per due giorni e di avere ancora una benda sulla parte destra della testa, vicino alla tempia.
Bianca aveva cominciato da poco a frequentare un corso di tango. Nelle vicinanze c’era una scuola di ballo che aveva aperto i battenti relativamente da poco.
«Bianca! Hai finito di prepararti? Dobbiamo andare a lezione!». La migliore amica di Bianca, Barbara, chiamava ininterrottamente la sua amica da tempo immemore. Il tempo è relativo, ok … ma sembrava un secolo da quando le due si erano allontanate.
Barbara Picenti, non era una ragazza cattiva. Era compagna di classe di Bianca, e a i capelli biondastri che le incorniciavano il volto, alternava due vispi occhietti neri. Conoscevo da poco quella ragazza, ma non c’era mai stato molto feeling tra noi. Era venuta a pranzo la domenica prima, e anche se aveva tentato di non farsi sentire, aveva continuamente lanciato occhiatine maliziose a me e Bianca, qualora ci fossimo trovati in situazioni comuni, come ad esempio apparecchiare la tavola insieme. Se avevo ben capito, era il centro di quel mondo perverso e malizioso che le donne chiamano “pettegolezzo”. Ogni volta era buona per sparlare di qualcuno, di qualcosa, per polemizzare su uno status quo non meglio delineato e visto solo da lei stessa. Ok, non si può dire che facesse pettegolezzi con cattiveria. Apparteneva solo a quella categoria di persone che amano farsi i fatti altrui. A tutto questo aggiungeva un’estrosa personalità, fatta di scherzetti, facce buffe e poco amabili circostanze da lei create, non proprio adatte al contesto. Aveva spinto lei per quel corso di tango, e Bianca, pur di non sentirla, l’aveva accontentata. Avete presente come si fa con i bambini piccoli? Uguale. Oh, dettaglio non insignificante … era un po’ viziatella, causa il fatto che fosse figlia unica e che suo padre e sua madre fossero avvocati di successo e che lei avesse vissuto metà della sua vita in compagnie delle tate. Non usciva mai senza una mano di trucco e guai se non fosse andata una settimana dal parrucchiere.
«Arrivo» rispose Bianca. Indossava un sottile fuseaux nero che ne marcava le gambe magre ma comunque ben accorpate. A tutto abbinava una felpa di colore bianco con sfumature violacee. Barbara aveva invece indossato lo stesso fuseaux, ma si era abbigliata con una felpa molto appariscente. Arancio con degli strass che ne accentuavano il modello.
«Allora papà … ci accompagni?».
«Cosa?» Flavio si alzò di scatto dal divano e si rizzò in piedi scalciando il puffo che aveva sotto i piedi.
«Che c’è signor Moggelli?» domandò Barbara. «Non può accontentarci?».
«Scusate, ma non avete i vostri scooter?».
«Purtroppo non ho più benzina! Ho scordato di passare dal benzinaio stamattina e così ho usato le ultime risorse per arrivare a casa». Bianca si legò i lunghi capelli con un mollettone. Li modellò a coda di cavallo.
«Purtroppo devo darvi una buona ed una cattiva notizia».
«Che c’è papà?». Le due ragazze erano in piedi dietro il divano, mentre Flavio le guardava aggrottando sopracciglia e serrando i denti.
«La cattiva notizia è che ho la macchina dal meccanico. Mi ha detto che aveva problemi alla calotta dello spinterogeno e quindi non posso proprio accompagnarvi».
«Cosa?!» Barbara aveva esclamato così forte che se fosse arrivato anche solo un decibel in Cina, da quelle parti avrebbero perso l’udito. «E quale sarebbe la buona notizia?» aggiunse Bianca desolata.
«Farete quattro passi all’aria aperta e vi scalderete per la lezione … non è meraviglioso?». La scena fu quasi esilarante, ma per il dolore causato dal confronto diretto con Turbotti e company, non avevo nemmeno la forza di ridere. Flavio con un sorrisone esagerato, cercava invano di persuadere le ragazze ad andare a piedi. Dal canto loro, Bianca e Barbara spingevano per prendere un taxi, ma, dall’altra parte e cioè quella che riguardava Flavio, era in pensiero e trepidante e non voleva che le due si mettessero da sole in un taxi a suo avviso, pericoloso. Una discussione migliore di quelle che fanno in tv. Avrei potuto mettermi a sgranocchiare pop corn e aranciata fresca e godermi lo spettacolo, ma decisi di vedere un tranquillo film giallo sulla tv satellitare.
«Aspettate! Ho un’idea. Vi accompagnerà Alex!». Avrei fatto volentieri a meno della benda sulla tempia destra in quel momento e avrei voluto alzarmi per comunicare a Flavio che non mi sarei mosso di casa nemmeno se a chiedermelo fosse stato un capo di stato … ma sapete com’è … solo due giorni prima Bianca mi aveva letteralmente salvato … le penne. E ho usato questo aggettivo per non essere volgare, quando in realtà mi aveva salvato molto, molto di più.
Infilai le scarpe da tennis e mi apprestai ad uscire, quando Barbara mi guardò storto. Il desiderio di mettere a terra Flavio, mi era rimasto.

CAPITOLO II – “La Playa”

La scuola di ballo “La Playa”, era un fatiscente edificio che era insorto come un fungo nel bosco, solo da qualche tempo. L’insegna era grandissima ed era stata messa ad un altezza di almeno sette- otto metri dal suolo. Su di essa, il disegno di una enorme palma verde, appoggiata su di una calda spiaggia argentina ed una bandiera della nazione sudamericana con la faccia del fondatore. Durante il tragitto, le due ragazze avevano camminato avanti e per tre, dico tre isolati, non mi avevano rivolto minimamente la parola. Confabulavano tra di loro e quando vedevano che mi avvicinavo, se ne uscivano con delle frasi del tipo: “bella giornata! Oggi il meteo aveva detto che avrebbe piovuto”. Della serie, credibilità zero. Credetemi, sarebbe stato più credibile se mi avessero detto che un elefante stava percorrendo la rampa di scale del Festival di Sanremo, piuttosto che due diciassettenni stessero parlando di meteorologia.
Quando la scuola distava solo un centinaio di metri, decisi di non poterne più e allora instaurai una sorta di dialogo. Mi avvicinai a loro quatto, quatto e appena dietro l’orecchio di Bianca, le sussurrai.
«C’entro qualcosa?».
Tutte e due si girarono di scatto e rimasero a fissarmi come se avessi scritto “giocondo” sulla testa. Sulla benda magari, sarebbe stata ben visibile.
«Ehm … no, no! Assolutamente, figuriamoci! Diglielo anche tu Barbara!». Il viso era rosso come un peperone e gli occhi avevano assunto una sorta di parallelismo dell’imbarazzo.
«Noi stavamo parlando di cose nostre … da ragazze insomma … non immischiarti Alex!» mi rimproverò Barbara.
Adesso il livello di credibilità era sceso ancor di più. Dico, mi avevano forse preso per un idiota?
«Siete sicure?» dissi cambiando espressione, assumendo la classica “faccia di bronzo”.
«Sicurissime! Ehm … cosa stiamo aspettando? Andiamo alla scuola di danza!» aggiunse voltandosi.
«Sarà … ». Terminai con tutta la diffidenza di questo mondo. Non che fossi vanitoso, ma ancora una volta avevo sentito il mio nome e allora volevo sapere cosa avessi fatto per meritare spazio sulle loro “preziose” lingue.
Arrivammo all’edificio. Entrammo dopo aver percorso una piccola rampa di scala. Assomigliavano a quelle rampe che si vedono nei film dove la danza è rappresentata come un sogno. Chissà quanti si erano spaccati le gambe su quelle rampe.
Arrivammo in una stanzetta non molto spaziosa, ma giusta per le prove di danza. C’era un odore fortissimo di legno, dovuto probabilmente al parquet nuovo di zecca. Un enorme specchio troneggiava sulla parete opposta alla porta. Furbo il tipo. Aveva risolto per sempre il problema del “cosa mettere alle pareti”. In quella stanzetta c’era una porticina semi-aperta che dava su un’ulteriore sala da ballo arredata nel medesimo modo. Frotte di ballerini indaffarati sorseggiavano acqua a temperatura ambiente. Nella seconda stanzetta c’era un’altra porta che volgeva su un corridoio.
«Eccole qui le mie allieve preferite!». Una voce maschile, ridondante, marcata, attraversò i cuori delle due ragazze in modo piuttosto repentino. Sia Bianca, ma soprattutto Barbara, erano arrossite. Davanti a loro, un uomo sulla trentina, dai tratti sudamericani, con indosso una maglietta grigia sudaticcia e dei pantaloncini corti. A tutto si abbinavano dei capelli pettinati all’indietro con del gel e dei baffetti tipici di chi ballava il tango. Presumibilmente era quello che mandava avanti la baracca.
«E chi è lui? Un nuovo allievo?» disse indicandomi.
«No, no … è solo un nostro amico. Ci ha solo accompagnato».
«Ah bene, bene». Devo dire che nonostante la provenienza, parlava davvero bene la nostra lingua. Era impossibile che la sua inflessione dei paesi caldi fosse nascosta. «Ragazzo, se vuoi conquistare una di queste due belle donzelle, devi imparare a ballare il tango. E’il ballo più romantico del mondo».
«Ahem … già … ci penserò quando sarò in vena di conquiste» dissi imbarazzato. Bianca e Barbara fecero una risatina.
«Non mi sono ancora presentato. Sono il titolare della scuola, Leòn Bolivàr». Mi strinse la mano ed io feci lo stesso.
«Ti informo che Leòn è un ballerino provetto. E’ arrivato in Italia da circa sette anni. Ma ha vinto già numerosi premi. Tra i suoi successi si contano ben 3 Dance Oscar, 7 volte ballerino argentino dell’anno nella specialità tango e numerosi altri premi individuali. Ha ballato anche a “La Scala”».
«Così mi lusinghi Bianca, non devi mettermi in imbarazzo». Fece un inchino e le baciò la mano. Ecco, adesso mi stava leggermente sulle scatole.
«Congratulazioni allora. Sentite, io vado e vi lascio lavorare».
«Aspetta!» Bianca mi mise una mano sulla spalla. Ero girato verso la porta e avevo già trequarti del corpo fuori le scale.
«Cosa c’è?».
«Non puoi andartene! Poi come ci torniamo a casa?».
«Be’ vi vengo a prendere».
«No. E’ quasi buio e a quell’ora in questo quartiere si vedono brutti ceffi … più siamo meglio è» disse sussurrandomi all’orecchio.
«Insomma, devo restare per forza?».
«Sì».
«Sicuramente sai quello che vuoi … e quanto durerebbe la lezione?».
«Circa un’ora e mezza» aggiunse Leòn.
«Cosa?! Ma siamo matti?».
«E dai Alex! E’ la prima volta e sarà anche l’ultima. Ti siedi sulla panca e aspetti un po’ … dai … ».
«E va bene» affermai rassegnato.
«Ottima scelta ragazzino» affermò Leòn cingendomi il collo con il suo braccio. «La danza è arte … ad ogni livello. Chissà che stando qui, anche tu non impara qualcosa».
Gli sorrisi, ma avrei voluto mandarlo a quel paese.
Mi sedetti sulla panca, in attesa che quella tortura finisse. Non amavo molto la danza, ma credo non fosse per ragioni di pregiudizio. Semplicemente, non mi interessava.
«Ho dimenticato i soldi a casa, cavoli!». Barbara frugava nella borsa in modo frenetico e nervoso.
«Anch’io ho solo banconote da cinque» disse dispiaciuta Bianca.
«Alex, hai qualche monetina da prestare a Barbara?».
«Mi dispiace» affermai frugandomi nelle tasche. «Ma non ho proprio soldi con me».
Barbara Picenti si avvicinò a Leòn, gli tocco leggermente la spalla destra. Il ballerino di origine argentina stava parlando con un altro ragazzo, leggermente più basso di lui, con dei capelli biondi sparati in alto. Dietro di lui, una ragazza di circa vent’anni, con uno chiffon nero.
«Scusi maestro … ha qualche monetina da prestarmi? Ho dimenticato i soldi a casa».
Leòn si mise una mano nella tasca posteriore del pantalone e estrasse un vecchio e segnato portafoglio di pelle marrone. Lo aprì completamente e mostrò che nel suo portafoglio c’era il vuoto più assoluto.
«Mi dispiace Barbara. Ma non ho nemmeno un centesimo con me. Ho lasciato tutto a casa» affermò sorridendo. Tornò subito alle sue spiegazioni. La cosa che mi aveva sorpreso di più di Leòn era il suo ampio sorriso in ogni circostanza. Lo conoscevo da circa dieci minuti, eppure si era sempre mostrato sorridente.
Passai circa mezz’ora a rigirarmi letteralmente i pollici, e l’altra mezz’ora a sentire nozioni a proposito del tango. Imparai cosa volesse  dire “Ocho”, “Parada”, “Gancio” e “Barrida”. Insomma, ero diventato un’enciclopedia danzante. Ok, non proprio danzante visto la mia grazia, e sto usando un netto eufemismo, nella danza, ma avete capito.
Barbara era leggermente più svogliata di Bianca, mentre quest’ultima ci metteva tutta sé stessa. Da entrambe comunque, avevo notato cose davvero notevoli. Non ero un esperto di danza, né avrei voluto esserlo per la mia scarsa attitudine a questa disciplina, ma erano piuttosto brave.
«Paola … Paola!!!». Un urlo maschile mi fece sobbalzare dalla panca. Gli altri ballerini se n’erano andati tutti. Erano rimaste Bianca, Barbara e quei due ragazzini nella sala accanto. D’impeto mi fiondai sulla porta che collegava le due stanze e cominciai a bussare ininterrottamente. Stranamente era chiusa dall’interno. Intanto Bianca e Barbara avevano interrotto i propri esercizi muscolari e si erano impaurite. Bussai sempre più forte. Il maestro era presumibilmente in corridoio, altrimenti avrebbe aperto alle mie insistenze. Fatto sta che dopo circa venti secondi, la pesante porta di legno si aprì, con il maestro sudato e preoccupato e con il ragazzo biondino di prima accasciato a terra sul corpo inerme della ragazza che poco prima aveva chiamato Paola.
La ragazza era stata tremendamente sfigurata con un colpo alla testa. Il sangue le grondava dalla parte destra della tempia. Non sapevo ancora con cosa fosse stata ferita, ma devo dire che pensai subito a qualcosa di grosso. Tutta la parte destra del viso era coperta da sangue, mentre una parte dell’occhio era socchiuso parzialmente, quasi a significare di aver subìto un colpo prima della tragica fine.
«Non muovetevi!» urlai a voce alta. Mi avvicinai al cadavere. Pulsai le vene del collo, ma non c’era nulla da fare. Era inerme a terra ed io inerme con lei. Gli occhi abbassati.
«Chiamate la polizia … chiedete dell’ispettore Ducato … c’è stato un omicidio». Tante grida di stupore accompagnarono questa mia frase. Il cielo non aveva messo bocca … ancora una volta era stato l’uomo.

CAPITOLO III – La bugia

Circa quindici minuti dopo, la squadra omicidi arrivò al gran completo escluso Novato, che dopo l’incidente aveva preferito stare a casa per qualche giorno.  Ne mancava solo uno. Vincenzo Ducato. Al posto di Novato, c’era un agente che avevamo avuto modo di conoscere pochi giorni prima. Era stato lui a redigere il racconto di Flavio. Venne anche da me, in ospedale a chiedermi sviluppi. Si chiamava Silvio Torchi. Aveva trentadue anni, capelli rossicci tirati all’indietro, di media lunghezza e un pizzetto che aggiungeva al quadro un tocco di vecchiaia per nulla sentita. Era stato trasferito da poco da Cuneo e mi era sembrato a primo impatto, davvero molto timido. Per quanto riguarda Ducato, al suo posto, avevano mandato un nuovo ispettore. Non avevo avuto modo di conoscere bene tutti. D’altronde a Torino c’erano molti commissariati, ma quello con cui avevo trattato di più era stato quello di Ducato. Naturalmente i commissariati erano divisi per aree geografiche, ma a volte importava relativamente poco le divisioni in alcuni frangenti. Nel senso, che c’era un crimine e bisognava punirlo. Ad esempio, quante volte Ducato e i suoi uomini si erano interessati a casi lontani dalla loro zona, perché altri commissariati erano impegnati con altre problematiche? Era successo milioni di volte. E così viceversa per le altre questure, sia chiaro.
Il nuovo ispettore, mi si presentò quasi subito. Venne nella stanza, diede un’occhiata al cadavere e ai presenti. Poi esordì.
«Chi è che ha chiesto di Ducato?».
«Sono stato io» avanzai di un passo.
«Piacere ragazzo, ispettore Franco De Vistri, polizia di Torino».
«Molto piacere, Alex Fedele, detective».
«Tu saresti un detective? Non sarai uno di quelli del … PSD?».
«Esatto. Ha centrato».
Franco De Vistri era un uomo relativamente di bell’aspetto. Non doveva avere più di quarant’anni. Aveva liftati capelli neri e occhi profondi, celesti. Insomma, come detto, relativamente un bell’uomo.
L’espressione era da guascone. In gioventù era forse stato un rubacuori? Uno di quelli belli e possibili, che assaggiano ogni parte del magnifico corpo femminile? Non lo saprò mai.
«Bene ragazzo … ora vai via insieme alle tue amichette e … ».
«Non se ne parla nemmeno. Ho assistito al ritrovamento del corpo e voglio stare qui».
«Ci mancava anche il ragazzino che si impunta … ora siamo proprio a posto … d’accordo, tu e le tue amichette rimanete, ma appena combinate un guaio, andate fuori, è chiaro?».
«Limpido» dissi a muso duro. Sarà anche stato bello, ma di certo non era simpatico.
Franco De Vistri cominciò a guardarsi intorno. Leòn, con le mani giunte, sedeva su uno sgabello nero. Bianca e Barbara confabulavano qualcosa dietro di me, mentre il ragazzo biondo, di cui ancora ignoravo nome e cognome, piangeva ai piedi del cadavere.
«Ragazzo, alzati e dimmi nome e cognome» disse freddamente De Vistri.
Il ragazzo non lo ascoltò nemmeno. Il dolore era troppo forte e i singhiozzi facevano da colonna sonora ad uno spettacolo macabro e spezza cuore allo stesso tempo.
«Alzati ragazzo! Reagisci!». Franco De Vistri sollevò di peso il biondino e lo guardò dritto negli occhi. L’ispettore aveva dato segno di reazione al ragazzo. Voleva provare a spronarlo, voleva assolutamente vederlo reagire. Non conoscevo bene De Vistri, probabilmente mi ci sarebbe voluto del tempo immemore, ma l’impressione che dava dall’esterno è che fosse un uomo tutto d’un pezzo. Uno formatosi in marina per poi venire in polizia, anche se probabilmente non era così. Era certamente meno spartano di Ducato nei modi, ma aveva una forza interiore nettamente, se non superiore, quantomeno equiparata al suo superiore. Il ragazzo non incrociò lo sguardo dell’ispettore. Continuavano a scendergli dagli occhi frotte di lacrime amare. Il destino è amaro. Io non ho mai creduto al destino, ma a volte, le trame che è in grado di tessere a chi crede in esso, sono davvero tremende.
«Dimmi il tuo nome e cognome». Silvio Torchi era appena dietro Franco De Vistri e si accingeva a scrivere sul bloc notes quanti più dati potesse scrivere.
«M-mi chiamo Martino Legiati» riuscì a dire il biondino tra le lacrime.
«Quanti anni hai Martino?».
«Ne ho ventuno … ».
«Bene. Silvio, continua tu. Io vado a parlare con l’altro».
Silvio Torchi continuò a fare domande a Martino. Gli domandò se avesse un alibi e tutta quella serie di cose varie che si chiedono quando emergono determinate e altresì spiacevoli circostanze.
Intanto, l’ispettore De Vistri, parlava animatamente con Leòn e contemporaneamente parlava con gli uomini della scientifica. Quelli della scientifica avevano lasciato intatta la scena del crimine, come di consueto e avevano controllate ovunque. Dopo circa dieci minuti, Silvio Torchi e l’agente De Vistri, terminarono il loro interrogatorio in versione ridotta. Silvio che nel contempo che De Vistri parlasse con Leòn, aveva preso appunti, impugnò la penna, se la mise dietro l’orecchio e cominciò a leggere ciò che aveva scritto.
«In conclusione. Ricapitoliamo. La vittima è Marisa Beretta, aveva diciannove anni ed è deceduta per un violentissimo colpo alla testa, infertogli da qualcuno con un oggetto tagliente di cui non si conoscono né dimensioni, né formato. Poco prima del decesso, è stata colpita sull’occhio. Il ragazzo con i capelli biondi, è Martino Legiati, cugino della vittima. Ha affermato di essere andato per un attimo nello spogliatoio adiacente alla stanza per cambiarsi la maglietta. Quando è tornato, ha trovato il cadavere. L’altro sospettato è Leòn Bolivàr, maestro di danza. Ha affermato di essere accorso non appena udito i primi urli di Martino. Al momento del ritrovamento del corpo, si trovava nel corridoio esterno. Stando a quanto dice, usava la macchinetta del caffè».
«Mi faccia capire bene … » iniziò Martino ripresosi dallo shock. «Perché noi due saremmo i sospettati?».
«Le spiego signore» iniziò diplomaticamente De Vistri. «Quando è stato ritrovato il cadavere, era passato poco tempo dal decesso. Ne è una conferma, l’irrigidimento del corpo, che sta entrando in rigor mortis solo adesso. In quell’orario, compreso tra le diciotto e le diciotto e cinque, nella scuola c’eravate solo voi, più i ragazzi che hanno chiamato la polizia. I ragazzi però, si trovavano nella stanza adiacente a questa e nessuno si è allontanato. Un agente della scientifica, ha appurato che la porta comunicante tra le due salette di prove, cigola parecchio. Una eventuale entrata di uno dei ragazzi, sarebbe tranquillamente stata udita da chiunque. E’ la porta sul corridoio che è perfetta e si apre in modo silenzioso. La deduzione più logica, è che l’assassino abbia potuto seguire due diverse strade. La prima, quella dello spogliatoio, la seconda, quella del corridoio».
«E questo basta per incolparci? Mi meraviglio di voi!» disse indignato con accento ispanico Leòn.
«Purtroppo signor Bolivàr, è l’unica soluzione plausibile. Infatti, non ci sono segni di effrazione sulla porta o sulle finestre. Nessuno è entrato e nessuno è uscito. Il colpevole è tra voi!».
«Sono letteralmente indignato! Non rimarrò qui a farmi insultare! Non ho ucciso mia cugina». Martino si era alzato di scatto e, dirigendosi verso la porta, aveva trovato un muro formato da due agenti della scientifica che gli sbarravano l’uscita.
«E questo cosa significa?» chiese ancora più irritato.
«Che siete e siamo bloccati qui» interruppi. «Finché la polizia non avrà trovato l’omicida, nessuno di noi abbandonerà questa scuola, a meno che non ci lascino andare con una scorta». Dietro le mie spalle, sentivo Barbara uscire con frasi del tipo: “ma chi si crede di essere?”, oppure “si farà rimproverare”. Mi stava sempre più simpatica.
«Ma ragazzo, nessuno di noi è l’assassino … c’è sicuramente un’altra spiegazione» affermò Leòn.
«La trovi allora».
«Non sono un detective io!».
«Io lo sono invece … e posso dirle che è andata come ha detto l’agente Torchi».
Un silenzio a dir poco macabro scese sulla sala. Due sospettati, un cadavere e la sera che calava. Bianca venne a chiedermi se avessi capito qualcosa. Io le risposi di no. Era la verità. Non avevo ancora prove a sufficienza per capire cosa stesse succedendo.
«Una vespa!» urlò Martino a squarciagola dirigendosi verso la porta. «Sono allergico … devo andare via!» disse gridando.
«Stia calmo. Andiamo nell’altra stanza. Ho notato che non ci sono finestre». De Vistri aprì la porta e ci dirigemmo verso la sala dove poco prima stavano provando Bianca e Barbara.
Rimase solo la scientifica in quella stanza. Leòn si buttò su una di quelle sedie sulle quali ero stato seduto per tutto il pomeriggio. Torchi e De Vistri formulavano ipotesi a ritroso. Martino inviava sms con il cellulare, Barbara e Bianca si erano sedute in un angolo, mentre io me ne stavo appoggiato alla porta come un idiota, a pensare che qualche geniale intuizione mi piovesse dal cielo. Dovevo agire.
«Scusi Leòn … dov’è il bagno?».
«Prendi la via per gli spogliatoi. Una volta entrato, è la terza porticina a destra. Claro?».
«Claro que sì» risposi a tono in maniera ispanica.
«Tu parli spagnolo amigo?».
«No, poco, poco» dissi imbarazzato.
Entrai nella stanzetta adiacente alla nostra. Gli agenti della scientifica mi guardarono quasi storto. Forse, anzi, certamente, non volevano che mi occupassi di quel caso e che provassi nemmeno ad arrivare alla soluzione.
«Devo andare in bagno» dissi sfoderando un sorrisone.
Annuirono.
Credo che abbiate capito, che del bagno in quel momento, non avevo assolutamente bisogno. Mi serviva un pretesto per andare negli spogliatoi. Appoggiai il mio cellulare su un armadietto. Martino era stato lì poco prima del decesso. Notai sul pavimento, sotto una fessura bassissima degli armadietti, una maglietta nera. Forse la polizia non l’aveva notata per la fioca luce che illuminava quella stanza. La toccai. Era umida. Si era cambiato per davvero. Ma poteva davvero costituire un alibi?
Uscii dopo poco, e doppiando il sorriso di poco prima, entrai di nuovo nella sala dove c’erano tutti. Trovai ognuno nelle posizione nelle quali li avevo lasciati cinque minuti prima. Era come se il tempo si fosse congelato. Strano davvero.
Continuavo ad arrovellarmi a proposito del delitto. Chi poteva essere stato? Leòn o Martino? Chissà. La cosa certa è che in quel modo non l’avremmo mai scoperto. Ci voleva la scintilla. In quella serata, sembrava che la “scintilla” ci avesse abbandonato. Feci per inviare un messaggio a Flavio con il cellulare, ma lo avevo scordato nello spogliatoio. Rientrai ancora, con la scientifica che mi guardava storto, riandai negli spogliatoi, presi il cellulare, uscii e … per finire l’opera inciampai vicino ad alcuni fili collegati a stereo amplificatori. Risultato: Figura a dir poco oscena per imbarazzo causatomi, stereo con filo scollegato e una miriade di sguardi minacciosi che preannunciavano tempesta. Mi scusai almeno trenta volta in un minuto e ricollegai tutto alla presa di corrente. Ma ebbi un dubbio. Lo stereo, sulla cuffia davanti, aveva una sorta di rigonfiamento. La cuffia, era stata spostata, smontata in qualche modo. Non avevo idea di cosa fosse.
Dalla sala accanto intanto, udivo i lamenti di Barbara per aver dimenticato il portafoglio a casa. Era irritante, sbraitava come una ragazzina di dieci anni, non tollerava il fatto di trovarsi lì. Lamentava sete, fame e quant’altro e si era disperata visto che nemmeno l’ispettore De Vistri e l’agente Torchi avevano potuto prestargli denaro.
Stavo quasi parlando da solo per il nervoso. Ma poi … poi ebbi una illuminazione. Non finirò mai di ringraziare Barbara. Promisi a me stesso che non mi sarei mai più arrabbiato con lei e non mi sarei più irritato per le sue noiose lamentele … ma sapevo che non sarebbe stato possibile. Quella volta però, mi aveva spianato la via per incastrare il colpevole.
Entrai in stanza con tutta la naturalezza del mondo, quasi fischiettando il motivetto di “I’m singing in the rain” per la felicità di aver risolto il caso. Mi avvicinai a De Vistri e a Torchi. Bianca mi guardò negli occhi. I suoi incontrarono i miei ed ebbi la sensazione che capì cosa stesse per avvenire.
«Martino» dissi iniziando «nello spogliatoio hai dimenticato la maglietta».
«Vero. Ok, vado a riprenderla dopo, quando quelli della scientifica hanno finito».
«Ok». In tono innocente continuai rivolgendomi a Leòn «Sa Leòn, mi perdoni. Ma non ho potuto fare a meno di notare quel magnifico stereo nella sala accanto. Puoi dirmi il suo nome tecnico per favore? Vorrei comprarlo anch’io».
«Non sapevo ti interessassi di stereo» osservò Bianca. «Oh, ci sono molte cose che non conosci di me» dissi girandomi e strizzandole l’occhio. Fece una espressione distorta.
«Certo “amigo”. E’ un bel modello, si vede che sei esperto. Anche a me piacciono tanto. Quello è uno Yamaha Subwoofer modello yst sw 015 70 W di potenza e a 50 hertz. E’ usato anche per l’Home Theatre, ma sa riprodurre davvero bene le musiche piene di vita del tango».
«Senza dubbio. Be’ grazie».
«Di nulla … ma non dovresti prendere appunti?» mi chiese sempre sorridendomi e lisciandosi la barbetta da capra.
«No, tranquillo. Si dà il caso che abbia un’ottima memoria. Lei invece ce l’ha corta».
«C-cosa?» disse incredulo.
«Su, getti la maschera. L’abbiamo capito tutti che lei è l’assassino di Marisa» dissi sfidandolo con lo sguardo.

CAPITOLO IV – Pista da ballo in amore

«Io l’assassino di Marisa? Ma stai delirando ragazzino?». Leòn era super adirato. Le parole ispaniche erano ormai un triste miscuglio di suoni.
Tutti mi fissavano. Franco De Vistri si avvicinò immediatamente, mi mise le mani sulle spalle e mi guardò fisso negli occhi.
«Ecco perché non volevo farti stare qui ragazzino, vai fuori!» disse spintonandomi.
«Stia calmo ispettore. Non vuole sapere come ha fatto?».
«Ma è assurdo. Stai inventando tutto! Non siamo ancora arrivati ad una conclusione».
«Proporrei di andare di là. Seguitemi per favore». Con la sfrontatezza di un veterano, aprii la porta che comunicava con l’altra sala prove. Barbara e Bianca mi seguirono. Poco dopo vennero tutti gli altri.
«Lei, Leòn, è stato un gran furbacchione!» dissi esordendo sedendomi a terra in un angolo della stanza. Tutti mi guardavano increduli.
«Ha colpito lei la cugina di questo ragazzo» dissi indicando Martino. «Lei ha occultato le prove e soprattutto è stato lei a crearsi un alibi che non sta in piedi!».
Rise di gusto.
«Alex, il maestro è innocente» disse Bianca.
«Il tuo ragazzo sta delirando o sbaglio?» la frecciatina pungente di Barbara.
«Non è il mio ragazzo!» disse sbottando Bianca. Arrossì in modo veemente e cominciò a farfugliare qualcosa, tentando di calmarsi.
«Ascoltate» dissi richiamando l’attenzione. «Leòn, ha approfittato di quando Martino è andato negli spogliatoi. E’ entrato dunque nella stanza, ha ballato con la giovane e l’ha colpita!».
«Hai detto che “ha ballato”?» domandò Silvio.
«Esattamente. Ha ballato. Il tango è un ballo nel quale i due ballerini devono stare praticamente attaccati in alcuni passi. Non gli sarà stato difficile colpirla lì. Nessuno ha udito le urla, quindi deve averla colpita così rapidamente e da vicino, da non darle nemmeno il tempo di urlare».
Le pupille di Leòn si dilatarono. Poi parve riacquistare la calma. «Hai prove a sostegno di questo ragazzino?».
«No, ma mi dica, dov’era al momento del delitto?».
«Lo ha già detto alla polizia» disse De Vistri «era alla macchinetta».
«Davvero? Eppure quando poco fa Barbara ti ha chiesto dei soldi da prestargli,hai aperto il tuo portafoglio e hai fatto vedere che era completamente vuoto. Puoi confermare. Non è vero Barbara?».
«C-certo. Ha ragione Alex».
«Signorina, cerchi di essere precisa» incitò De Vistri.
«Ecco, ho dimenticato i soldi a casa e ho chiesto al maestro di prestarmeli, ma lui ha detto di non averli e come prova mi ha mostrato il portafoglio».
«Quindi» dissi slacciandomi allacciandomi le scarpe contro il muro «a meno che il maestro non conosca un modo per far apparire i soldi dal nulla … la cosa si fa sospetta».
«Perché ha mentito?» chiese Torchi a Leòn.
«Non ho mentito». Aveva ancora la faccia tosta di fare il bugiardo. E’ incredibile certa gente.
«Davvero?» interruppi ancora «Sono sicuro che se faremo svuotare la cassa interna della macchinetta, allora troveremo la monetina con le sue impronte. La scientifica ci metterà un attimo a identificarla, mi creda».
Cominciava a sudare. La maglietta di cotone, si accostava sempre più al respiro per quanto fosse bagnata e si fondeva in un tutt’uno col corpo.
«Sapete … ho voglia di un po’ di musica. Così non mi piace». Lo so, sono terribile. Quando incappo in deduzioni e criminali spietati, li incastro con i metodi più strambi.
«E’ la mia scuola. Decido io se puoi mettere la musica o meno, maleducato».
«Ah davvero? Non avrà mica qualcosa da nascondere?».
«Cosa vuoi dire?».
«Be’ nulla … ma non ci sarà mica un qualcosa nascosto nella cuffia dello stereo? Un qualcosa che faccia rimbombare il tutto e penalizzi la qualità del suo amato impianto?».
Il suo viso era sbiancato, gli occhi erano avidi di emozioni positive e la bocca era tremante. Silvio Torchi smontò la cassa dello stereo. Vi trovarono un spillo di metallo davvero spesso. Molto arrugginito e con degli evidenti segni rossastri sulla punta.
«Ma cosa abbiamo qui?» dissi sbattendo le mani. «Uno spillo. Un’arma perfetta per un delitto, non crede ispettore?». De Vistri continuava a prestare attenzione all’arma e non diceva una parola.
«Veda di esaminarlo agente» dissi rivolgendomi alla scientifica. «Magari ci troviamo una sorpresa» dissi ironico.
«Basta così» Leòn Bolivàr crollò al suolo con le mani attorno alla testa. Era disperato.
«Ho ucciso io Marisa. Lo ammetto».
Martino lo colpì con un calcio in pieno volto. Nessuno fu tanto lesto da impedirglielo. Leòn perse un dente, uno davanti.
«Mi dispiace Martino» disse con la bocca piena di sangue. «Ma non potevo più aspettare».
«Perché lo ha fatto?» chiese De Vistri incredulo. Bianca e Barbara avevano gli occhi lucidi.
«Avevo avuto una relazione con Marisa. Ma da tempo mi diceva di non voler stare più con me. Oggi abbiamo cominciato a ballare. Io avevo quello spillo in tasca. Lo avevo trovato a terra sulle scale, per caso e lo avevo raccolto per fare pulizia. Mi ha spinto e mi ha detto che ero un mezz’uomo. Non ci ho visto più e l’ho uccisa. Mi pento di quello che ho fatto» confessò dolorante tenendosi la mano nel sangue che gli sgorgava dalle gengive.
«Il pentimento è una buona cosa quando a sentirlo è un assassino, Leòn. Ma il suo pentimento non ridarà la vita a nessuno» aggiunsi.
Salutammo la polizia. De Vistri mi diede una violentissima pacca di stima sulla spalla destra. Sulla via del ritorno a casa, Barbara mi chiese:
«Quando hai capito che era stato Leòn?».
«Quando ho ripensato alla tua frase in cui gli chiedevi soldi».
«Capisco». Poi continuò «In gamba il tuo ragazzo, Bianca!».
«Lo vuoi capire che non è il mio ragazzo?!». L’urlo si sentì fino a Tripoli. Che ci volete fare? Sono donne, non è vero?

ANTICIPAZIONE EPISODIO 16: Una persona malata di cuore deve stare lontana da ogni agitazione. Non si può farla arrabbiare o peggio, farla convivere con le proprie fobie. Be', non ci crederete, ma è quello che succede ad Alex Fedele, quando, di fronte ad un caso di infarto, arriva alla conclusione che nell'infarto c'è una causale esterna. Ma che cosa sarà? ALEX FEDELE EPISODIO 16: RAGNI E FOBIE! Solo qui, a partire dal 3 Dicembre 2011! NON PERDETELO PER NESSUNA RAGIONE!!!

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