BALLO
DI MORTE
PROLOGO: Salsa, tango, merengue, valzer ... conosciamo tanti tipi di ballo, non è vero? Il ballo è arte, la danza è movimento, interpretazione e ... crudeltà. Già,crudeltà. Cosa succede quando la crudeltà entra in pista?
CAPITOLO
I – Parole ambigue
Mia madre ballava. Le piaceva
volteggiare per ore in casa, quando io e mio fratello Stefano eravamo ancora
piccolini. Andrea era solo un progetto e la sera, quando papà tornava dal
lavoro, mia madre accendeva lo stereo a palla e cominciava a danzare sulle note
di artisti famosi quanto bravi. Nomi come Michael Jackson, Santana, Aereosmith,
U2 e anche diversi tipi di musica come Pavarotti ad esempio, la esaltavano e
facevano di lei il prototipo della mamma allegra e svagata, che in realtà, per
vari motivi, non era.
Fatto sta che papà entrava ogni
sera in casa ed ogni sera si ripeteva la stessa scena. Volteggiavano,
danzavano, si amavano per ore, come se fossero innamorati l’uno del cuore
dell’altra più di ogni altra cosa al mondo. Sono questi i ricordi che ti fanno
dimenticare i problemi, ad esempio il fatto di essere stato in ospedale per due
giorni e di avere ancora una benda sulla parte destra della testa, vicino alla
tempia.
Bianca aveva cominciato da poco a
frequentare un corso di tango. Nelle vicinanze c’era una scuola di ballo che
aveva aperto i battenti relativamente da poco.
«Bianca! Hai finito di
prepararti? Dobbiamo andare a lezione!». La migliore amica di Bianca, Barbara,
chiamava ininterrottamente la sua amica da tempo immemore. Il tempo è relativo,
ok … ma sembrava un secolo da quando le due si erano allontanate.
Barbara Picenti, non era una
ragazza cattiva. Era compagna di classe di Bianca, e a i capelli biondastri che
le incorniciavano il volto, alternava due vispi occhietti neri. Conoscevo da
poco quella ragazza, ma non c’era mai stato molto feeling tra noi. Era venuta a
pranzo la domenica prima, e anche se aveva tentato di non farsi sentire, aveva
continuamente lanciato occhiatine maliziose a me e Bianca, qualora ci fossimo
trovati in situazioni comuni, come ad esempio apparecchiare la tavola insieme.
Se avevo ben capito, era il centro di quel mondo perverso e malizioso che le
donne chiamano “pettegolezzo”. Ogni volta era buona per sparlare di qualcuno,
di qualcosa, per polemizzare su uno status quo non meglio delineato e visto
solo da lei stessa. Ok, non si può dire che facesse pettegolezzi con
cattiveria. Apparteneva solo a quella categoria di persone che amano farsi i
fatti altrui. A tutto questo aggiungeva un’estrosa personalità, fatta di
scherzetti, facce buffe e poco amabili circostanze da lei create, non proprio
adatte al contesto. Aveva spinto lei per quel corso di tango, e Bianca, pur di
non sentirla, l’aveva accontentata. Avete presente come si fa con i bambini
piccoli? Uguale. Oh, dettaglio non insignificante … era un po’ viziatella,
causa il fatto che fosse figlia unica e che suo padre e sua madre fossero
avvocati di successo e che lei avesse vissuto metà della sua vita in compagnie
delle tate. Non usciva mai senza una mano di trucco e guai se non fosse andata
una settimana dal parrucchiere.
«Arrivo» rispose Bianca.
Indossava un sottile fuseaux nero che ne marcava le gambe magre ma comunque ben
accorpate. A tutto abbinava una felpa di colore bianco con sfumature violacee.
Barbara aveva invece indossato lo stesso fuseaux, ma si era abbigliata con una
felpa molto appariscente. Arancio con degli strass che ne accentuavano il
modello.
«Allora papà … ci accompagni?».
«Cosa?» Flavio si alzò di scatto
dal divano e si rizzò in piedi scalciando il puffo che aveva sotto i piedi.
«Che c’è signor Moggelli?»
domandò Barbara. «Non può accontentarci?».
«Scusate, ma non avete i vostri
scooter?».
«Purtroppo non ho più benzina! Ho
scordato di passare dal benzinaio stamattina e così ho usato le ultime risorse
per arrivare a casa». Bianca si legò i lunghi capelli con un mollettone. Li
modellò a coda di cavallo.
«Purtroppo devo darvi una buona
ed una cattiva notizia».
«Che c’è papà?». Le due ragazze
erano in piedi dietro il divano, mentre Flavio le guardava aggrottando
sopracciglia e serrando i denti.
«La cattiva notizia è che ho la
macchina dal meccanico. Mi ha detto che aveva problemi alla calotta dello
spinterogeno e quindi non posso proprio accompagnarvi».
«Cosa?!» Barbara aveva esclamato
così forte che se fosse arrivato anche solo un decibel in Cina, da quelle parti
avrebbero perso l’udito. «E quale sarebbe la buona notizia?» aggiunse Bianca
desolata.
«Farete quattro passi all’aria
aperta e vi scalderete per la lezione … non è meraviglioso?». La scena fu quasi
esilarante, ma per il dolore causato dal confronto diretto con Turbotti e
company, non avevo nemmeno la forza di ridere. Flavio con un sorrisone
esagerato, cercava invano di persuadere le ragazze ad andare a piedi. Dal canto
loro, Bianca e Barbara spingevano per prendere un taxi, ma, dall’altra parte e
cioè quella che riguardava Flavio, era in pensiero e trepidante e non voleva
che le due si mettessero da sole in un taxi a suo avviso, pericoloso. Una
discussione migliore di quelle che fanno in tv. Avrei potuto mettermi a
sgranocchiare pop corn e aranciata fresca e godermi lo spettacolo, ma decisi di
vedere un tranquillo film giallo sulla tv satellitare.
«Aspettate! Ho un’idea. Vi
accompagnerà Alex!». Avrei fatto volentieri a meno della benda sulla tempia
destra in quel momento e avrei voluto alzarmi per comunicare a Flavio che non
mi sarei mosso di casa nemmeno se a chiedermelo fosse stato un capo di stato …
ma sapete com’è … solo due giorni prima Bianca mi aveva letteralmente salvato …
le penne. E ho usato questo aggettivo per non essere volgare, quando in realtà
mi aveva salvato molto, molto di più.
Infilai le scarpe da tennis e mi
apprestai ad uscire, quando Barbara mi guardò storto. Il desiderio di mettere a
terra Flavio, mi era rimasto.
CAPITOLO
II – “La Playa”
La scuola di ballo “La Playa”,
era un fatiscente edificio che era insorto come un fungo nel bosco, solo da
qualche tempo. L’insegna era grandissima ed era stata messa ad un altezza di
almeno sette- otto metri dal suolo. Su di essa, il disegno di una enorme palma
verde, appoggiata su di una calda spiaggia argentina ed una bandiera della
nazione sudamericana con la faccia del fondatore. Durante il tragitto, le due
ragazze avevano camminato avanti e per tre, dico tre isolati, non mi avevano
rivolto minimamente la parola. Confabulavano tra di loro e quando vedevano che
mi avvicinavo, se ne uscivano con delle frasi del tipo: “bella giornata! Oggi
il meteo aveva detto che avrebbe piovuto”. Della serie, credibilità zero.
Credetemi, sarebbe stato più credibile se mi avessero detto che un elefante
stava percorrendo la rampa di scale del Festival di Sanremo, piuttosto che due
diciassettenni stessero parlando di meteorologia.
Quando la scuola distava solo un
centinaio di metri, decisi di non poterne più e allora instaurai una sorta di
dialogo. Mi avvicinai a loro quatto, quatto e appena dietro l’orecchio di
Bianca, le sussurrai.
«C’entro qualcosa?».
Tutte e due si girarono di scatto
e rimasero a fissarmi come se avessi scritto “giocondo” sulla testa. Sulla
benda magari, sarebbe stata ben visibile.
«Ehm … no, no! Assolutamente,
figuriamoci! Diglielo anche tu Barbara!». Il viso era rosso come un peperone e
gli occhi avevano assunto una sorta di parallelismo dell’imbarazzo.
«Noi stavamo parlando di cose
nostre … da ragazze insomma … non immischiarti Alex!» mi rimproverò Barbara.
Adesso il livello di credibilità
era sceso ancor di più. Dico, mi avevano forse preso per un idiota?
«Siete sicure?» dissi cambiando
espressione, assumendo la classica “faccia di bronzo”.
«Sicurissime! Ehm … cosa stiamo
aspettando? Andiamo alla scuola di danza!» aggiunse voltandosi.
«Sarà … ». Terminai con tutta la
diffidenza di questo mondo. Non che fossi vanitoso, ma ancora una volta avevo
sentito il mio nome e allora volevo sapere cosa avessi fatto per meritare
spazio sulle loro “preziose” lingue.
Arrivammo all’edificio. Entrammo
dopo aver percorso una piccola rampa di scala. Assomigliavano a quelle rampe
che si vedono nei film dove la danza è rappresentata come un sogno. Chissà
quanti si erano spaccati le gambe su quelle rampe.
Arrivammo in una stanzetta non
molto spaziosa, ma giusta per le prove di danza. C’era un odore fortissimo di
legno, dovuto probabilmente al parquet nuovo di zecca. Un enorme specchio
troneggiava sulla parete opposta alla porta. Furbo il tipo. Aveva risolto per
sempre il problema del “cosa mettere alle pareti”. In quella stanzetta c’era
una porticina semi-aperta che dava su un’ulteriore sala da ballo arredata nel
medesimo modo. Frotte di ballerini indaffarati sorseggiavano acqua a
temperatura ambiente. Nella seconda stanzetta c’era un’altra porta che volgeva
su un corridoio.
«Eccole qui le mie allieve
preferite!». Una voce maschile, ridondante, marcata, attraversò i cuori delle
due ragazze in modo piuttosto repentino. Sia Bianca, ma soprattutto Barbara, erano
arrossite. Davanti a loro, un uomo sulla trentina, dai tratti sudamericani, con
indosso una maglietta grigia sudaticcia e dei pantaloncini corti. A tutto si
abbinavano dei capelli pettinati all’indietro con del gel e dei baffetti tipici
di chi ballava il tango. Presumibilmente era quello che mandava avanti la
baracca.
«E chi è lui? Un nuovo allievo?»
disse indicandomi.
«No, no … è solo un nostro amico.
Ci ha solo accompagnato».
«Ah bene, bene». Devo dire che
nonostante la provenienza, parlava davvero bene la nostra lingua. Era
impossibile che la sua inflessione dei paesi caldi fosse nascosta. «Ragazzo, se
vuoi conquistare una di queste due belle donzelle, devi imparare a ballare il
tango. E’il ballo più romantico del mondo».
«Ahem … già … ci penserò quando
sarò in vena di conquiste» dissi imbarazzato. Bianca e Barbara fecero una
risatina.
«Non mi sono ancora presentato.
Sono il titolare della scuola, Leòn Bolivàr». Mi strinse la mano ed io feci lo
stesso.
«Ti informo che Leòn è un
ballerino provetto. E’ arrivato in Italia da circa sette anni. Ma ha vinto già
numerosi premi. Tra i suoi successi si contano ben 3 Dance Oscar, 7 volte
ballerino argentino dell’anno nella specialità tango e numerosi altri premi
individuali. Ha ballato anche a “La Scala”».
«Così mi lusinghi Bianca, non
devi mettermi in imbarazzo». Fece un inchino e le baciò la mano. Ecco, adesso
mi stava leggermente sulle scatole.
«Congratulazioni allora. Sentite,
io vado e vi lascio lavorare».
«Aspetta!» Bianca mi mise una
mano sulla spalla. Ero girato verso la porta e avevo già trequarti del corpo
fuori le scale.
«Cosa c’è?».
«Non puoi andartene! Poi come ci
torniamo a casa?».
«Be’ vi vengo a prendere».
«No. E’ quasi buio e a quell’ora
in questo quartiere si vedono brutti ceffi … più siamo meglio è» disse
sussurrandomi all’orecchio.
«Insomma, devo restare per
forza?».
«Sì».
«Sicuramente sai quello che vuoi
… e quanto durerebbe la lezione?».
«Circa un’ora e mezza» aggiunse
Leòn.
«Cosa?! Ma siamo matti?».
«E dai Alex! E’ la prima volta e
sarà anche l’ultima. Ti siedi sulla panca e aspetti un po’ … dai … ».
«E va bene» affermai rassegnato.
«Ottima scelta ragazzino» affermò
Leòn cingendomi il collo con il suo braccio. «La danza è arte … ad ogni
livello. Chissà che stando qui, anche tu non impara qualcosa».
Gli sorrisi, ma avrei voluto
mandarlo a quel paese.
Mi sedetti sulla panca, in attesa
che quella tortura finisse. Non amavo molto la danza, ma credo non fosse per
ragioni di pregiudizio. Semplicemente, non mi interessava.
«Ho dimenticato i soldi a casa,
cavoli!». Barbara frugava nella borsa in modo frenetico e nervoso.
«Anch’io ho solo banconote da
cinque» disse dispiaciuta Bianca.
«Alex, hai qualche monetina da
prestare a Barbara?».
«Mi dispiace» affermai frugandomi
nelle tasche. «Ma non ho proprio soldi con me».
Barbara Picenti si avvicinò a
Leòn, gli tocco leggermente la spalla destra. Il ballerino di origine argentina
stava parlando con un altro ragazzo, leggermente più basso di lui, con dei
capelli biondi sparati in alto. Dietro di lui, una ragazza di circa vent’anni,
con uno chiffon nero.
«Scusi maestro … ha qualche
monetina da prestarmi? Ho dimenticato i soldi a casa».
Leòn si mise una mano nella tasca
posteriore del pantalone e estrasse un vecchio e segnato portafoglio di pelle
marrone. Lo aprì completamente e mostrò che nel suo portafoglio c’era il vuoto
più assoluto.
«Mi dispiace Barbara. Ma non ho
nemmeno un centesimo con me. Ho lasciato tutto a casa» affermò sorridendo.
Tornò subito alle sue spiegazioni. La cosa che mi aveva sorpreso di più di Leòn
era il suo ampio sorriso in ogni circostanza. Lo conoscevo da circa dieci
minuti, eppure si era sempre mostrato sorridente.
Passai circa mezz’ora a rigirarmi
letteralmente i pollici, e l’altra mezz’ora a sentire nozioni a proposito del
tango. Imparai cosa volesse dire “Ocho”,
“Parada”, “Gancio” e “Barrida”. Insomma, ero diventato un’enciclopedia
danzante. Ok, non proprio danzante visto la mia grazia, e sto usando un netto
eufemismo, nella danza, ma avete capito.
Barbara era leggermente più
svogliata di Bianca, mentre quest’ultima ci metteva tutta sé stessa. Da
entrambe comunque, avevo notato cose davvero notevoli. Non ero un esperto di
danza, né avrei voluto esserlo per la mia scarsa attitudine a questa
disciplina, ma erano piuttosto brave.
«Paola … Paola!!!». Un urlo
maschile mi fece sobbalzare dalla panca. Gli altri ballerini se n’erano andati
tutti. Erano rimaste Bianca, Barbara e quei due ragazzini nella sala accanto.
D’impeto mi fiondai sulla porta che collegava le due stanze e cominciai a bussare
ininterrottamente. Stranamente era chiusa dall’interno. Intanto Bianca e
Barbara avevano interrotto i propri esercizi muscolari e si erano impaurite.
Bussai sempre più forte. Il maestro era presumibilmente in corridoio,
altrimenti avrebbe aperto alle mie insistenze. Fatto sta che dopo circa venti
secondi, la pesante porta di legno si aprì, con il maestro sudato e preoccupato
e con il ragazzo biondino di prima accasciato a terra sul corpo inerme della
ragazza che poco prima aveva chiamato Paola.
La ragazza era stata
tremendamente sfigurata con un colpo alla testa. Il sangue le grondava dalla
parte destra della tempia. Non sapevo ancora con cosa fosse stata ferita, ma
devo dire che pensai subito a qualcosa di grosso. Tutta la parte destra del
viso era coperta da sangue, mentre una parte dell’occhio era socchiuso
parzialmente, quasi a significare di aver subìto un colpo prima della tragica
fine.
«Non muovetevi!» urlai a voce
alta. Mi avvicinai al cadavere. Pulsai le vene del collo, ma non c’era nulla da
fare. Era inerme a terra ed io inerme con lei. Gli occhi abbassati.
«Chiamate la polizia … chiedete
dell’ispettore Ducato … c’è stato un omicidio». Tante grida di stupore accompagnarono
questa mia frase. Il cielo non aveva messo bocca … ancora una volta era stato
l’uomo.
CAPITOLO
III – La bugia
Circa quindici minuti dopo, la
squadra omicidi arrivò al gran completo escluso Novato, che dopo l’incidente
aveva preferito stare a casa per qualche giorno. Ne mancava solo uno. Vincenzo Ducato. Al
posto di Novato, c’era un agente che avevamo avuto modo di conoscere pochi
giorni prima. Era stato lui a redigere il racconto di Flavio. Venne anche da
me, in ospedale a chiedermi sviluppi. Si chiamava Silvio Torchi. Aveva
trentadue anni, capelli rossicci tirati all’indietro, di media lunghezza e un
pizzetto che aggiungeva al quadro un tocco di vecchiaia per nulla sentita. Era
stato trasferito da poco da Cuneo e mi era sembrato a primo impatto, davvero
molto timido. Per quanto riguarda Ducato, al suo posto, avevano mandato un
nuovo ispettore. Non avevo avuto modo di conoscere bene tutti. D’altronde a
Torino c’erano molti commissariati, ma quello con cui avevo trattato di più era
stato quello di Ducato. Naturalmente i commissariati erano divisi per aree
geografiche, ma a volte importava relativamente poco le divisioni in alcuni
frangenti. Nel senso, che c’era un crimine e bisognava punirlo. Ad esempio,
quante volte Ducato e i suoi uomini si erano interessati a casi lontani dalla
loro zona, perché altri commissariati erano impegnati con altre problematiche?
Era successo milioni di volte. E così viceversa per le altre questure, sia
chiaro.
Il nuovo ispettore, mi si
presentò quasi subito. Venne nella stanza, diede un’occhiata al cadavere e ai
presenti. Poi esordì.
«Chi è che ha chiesto di
Ducato?».
«Sono stato io» avanzai di un
passo.
«Piacere ragazzo, ispettore
Franco De Vistri, polizia di Torino».
«Molto piacere, Alex Fedele,
detective».
«Tu saresti un detective? Non
sarai uno di quelli del … PSD?».
«Esatto. Ha centrato».
Franco De Vistri era un uomo
relativamente di bell’aspetto. Non doveva avere più di quarant’anni. Aveva liftati
capelli neri e occhi profondi, celesti. Insomma, come detto, relativamente un
bell’uomo.
L’espressione era da guascone. In
gioventù era forse stato un rubacuori? Uno di quelli belli e possibili, che
assaggiano ogni parte del magnifico corpo femminile? Non lo saprò mai.
«Bene ragazzo … ora vai via
insieme alle tue amichette e … ».
«Non se ne parla nemmeno. Ho
assistito al ritrovamento del corpo e voglio stare qui».
«Ci mancava anche il ragazzino
che si impunta … ora siamo proprio a posto … d’accordo, tu e le tue amichette
rimanete, ma appena combinate un guaio, andate fuori, è chiaro?».
«Limpido» dissi a muso duro. Sarà
anche stato bello, ma di certo non era simpatico.
Franco De Vistri cominciò a
guardarsi intorno. Leòn, con le mani giunte, sedeva su uno sgabello nero.
Bianca e Barbara confabulavano qualcosa dietro di me, mentre il ragazzo biondo,
di cui ancora ignoravo nome e cognome, piangeva ai piedi del cadavere.
«Ragazzo, alzati e dimmi nome e
cognome» disse freddamente De Vistri.
Il ragazzo non lo ascoltò
nemmeno. Il dolore era troppo forte e i singhiozzi facevano da colonna sonora
ad uno spettacolo macabro e spezza cuore allo stesso tempo.
«Alzati ragazzo! Reagisci!».
Franco De Vistri sollevò di peso il biondino e lo guardò dritto negli occhi.
L’ispettore aveva dato segno di reazione al ragazzo. Voleva provare a
spronarlo, voleva assolutamente vederlo reagire. Non conoscevo bene De Vistri,
probabilmente mi ci sarebbe voluto del tempo immemore, ma l’impressione che
dava dall’esterno è che fosse un uomo tutto d’un pezzo. Uno formatosi in marina
per poi venire in polizia, anche se probabilmente non era così. Era certamente
meno spartano di Ducato nei modi, ma aveva una forza interiore nettamente, se
non superiore, quantomeno equiparata al suo superiore. Il ragazzo non incrociò
lo sguardo dell’ispettore. Continuavano a scendergli dagli occhi frotte di
lacrime amare. Il destino è amaro. Io non ho mai creduto al destino, ma a
volte, le trame che è in grado di tessere a chi crede in esso, sono davvero
tremende.
«Dimmi il tuo nome e cognome».
Silvio Torchi era appena dietro Franco De Vistri e si accingeva a scrivere sul
bloc notes quanti più dati potesse scrivere.
«M-mi chiamo Martino Legiati»
riuscì a dire il biondino tra le lacrime.
«Quanti anni hai Martino?».
«Ne ho ventuno … ».
«Bene. Silvio, continua tu. Io
vado a parlare con l’altro».
Silvio Torchi continuò a fare
domande a Martino. Gli domandò se avesse un alibi e tutta quella serie di cose
varie che si chiedono quando emergono determinate e altresì spiacevoli
circostanze.
Intanto, l’ispettore De Vistri,
parlava animatamente con Leòn e contemporaneamente parlava con gli uomini della
scientifica. Quelli della scientifica avevano lasciato intatta la scena del
crimine, come di consueto e avevano controllate ovunque. Dopo circa dieci
minuti, Silvio Torchi e l’agente De Vistri, terminarono il loro interrogatorio
in versione ridotta. Silvio che nel contempo che De Vistri parlasse con Leòn,
aveva preso appunti, impugnò la penna, se la mise dietro l’orecchio e cominciò
a leggere ciò che aveva scritto.
«In conclusione. Ricapitoliamo.
La vittima è Marisa Beretta, aveva diciannove anni ed è deceduta per un violentissimo
colpo alla testa, infertogli da qualcuno con un oggetto tagliente di cui non si
conoscono né dimensioni, né formato. Poco prima del decesso, è stata colpita
sull’occhio. Il ragazzo con i capelli biondi, è Martino Legiati, cugino della
vittima. Ha affermato di essere andato per un attimo nello spogliatoio
adiacente alla stanza per cambiarsi la maglietta. Quando è tornato, ha trovato
il cadavere. L’altro sospettato è Leòn Bolivàr, maestro di danza. Ha affermato
di essere accorso non appena udito i primi urli di Martino. Al momento del
ritrovamento del corpo, si trovava nel corridoio esterno. Stando a quanto dice,
usava la macchinetta del caffè».
«Mi faccia capire bene … » iniziò
Martino ripresosi dallo shock. «Perché noi due saremmo i sospettati?».
«Le spiego signore» iniziò
diplomaticamente De Vistri. «Quando è stato ritrovato il cadavere, era passato
poco tempo dal decesso. Ne è una conferma, l’irrigidimento del corpo, che sta
entrando in rigor mortis solo adesso. In quell’orario, compreso tra le diciotto
e le diciotto e cinque, nella scuola c’eravate solo voi, più i ragazzi che
hanno chiamato la polizia. I ragazzi però, si trovavano nella stanza adiacente
a questa e nessuno si è allontanato. Un agente della scientifica, ha appurato
che la porta comunicante tra le due salette di prove, cigola parecchio. Una
eventuale entrata di uno dei ragazzi, sarebbe tranquillamente stata udita da
chiunque. E’ la porta sul corridoio che è perfetta e si apre in modo
silenzioso. La deduzione più logica, è che l’assassino abbia potuto seguire due
diverse strade. La prima, quella dello spogliatoio, la seconda, quella del
corridoio».
«E questo basta per incolparci?
Mi meraviglio di voi!» disse indignato con accento ispanico Leòn.
«Purtroppo signor Bolivàr, è
l’unica soluzione plausibile. Infatti, non ci sono segni di effrazione sulla
porta o sulle finestre. Nessuno è entrato e nessuno è uscito. Il colpevole è
tra voi!».
«Sono letteralmente indignato!
Non rimarrò qui a farmi insultare! Non ho ucciso mia cugina». Martino si era
alzato di scatto e, dirigendosi verso la porta, aveva trovato un muro formato
da due agenti della scientifica che gli sbarravano l’uscita.
«E questo cosa significa?» chiese
ancora più irritato.
«Che siete e siamo bloccati qui»
interruppi. «Finché la polizia non avrà trovato l’omicida, nessuno di noi
abbandonerà questa scuola, a meno che non ci lascino andare con una scorta».
Dietro le mie spalle, sentivo Barbara uscire con frasi del tipo: “ma chi si
crede di essere?”, oppure “si farà rimproverare”. Mi stava sempre più
simpatica.
«Ma ragazzo, nessuno di noi è
l’assassino … c’è sicuramente un’altra spiegazione» affermò Leòn.
«La trovi allora».
«Non sono un detective io!».
«Io lo sono invece … e posso
dirle che è andata come ha detto l’agente Torchi».
Un silenzio a dir poco macabro
scese sulla sala. Due sospettati, un cadavere e la sera che calava. Bianca
venne a chiedermi se avessi capito qualcosa. Io le risposi di no. Era la
verità. Non avevo ancora prove a sufficienza per capire cosa stesse succedendo.
«Una vespa!» urlò Martino a
squarciagola dirigendosi verso la porta. «Sono allergico … devo andare via!»
disse gridando.
«Stia calmo. Andiamo nell’altra
stanza. Ho notato che non ci sono finestre». De Vistri aprì la porta e ci
dirigemmo verso la sala dove poco prima stavano provando Bianca e Barbara.
Rimase solo la scientifica in
quella stanza. Leòn si buttò su una di quelle sedie sulle quali ero stato
seduto per tutto il pomeriggio. Torchi e De Vistri formulavano ipotesi a
ritroso. Martino inviava sms con il cellulare, Barbara e Bianca si erano sedute
in un angolo, mentre io me ne stavo appoggiato alla porta come un idiota, a
pensare che qualche geniale intuizione mi piovesse dal cielo. Dovevo agire.
«Scusi Leòn … dov’è il bagno?».
«Prendi la via per gli spogliatoi.
Una volta entrato, è la terza porticina a destra. Claro?».
«Claro que sì» risposi a tono in
maniera ispanica.
«Tu parli spagnolo amigo?».
«No, poco, poco» dissi
imbarazzato.
Entrai nella stanzetta adiacente
alla nostra. Gli agenti della scientifica mi guardarono quasi storto. Forse,
anzi, certamente, non volevano che mi occupassi di quel caso e che provassi
nemmeno ad arrivare alla soluzione.
«Devo andare in bagno» dissi
sfoderando un sorrisone.
Annuirono.
Credo che abbiate capito, che del
bagno in quel momento, non avevo assolutamente bisogno. Mi serviva un pretesto
per andare negli spogliatoi. Appoggiai il mio cellulare su un armadietto.
Martino era stato lì poco prima del decesso. Notai sul pavimento, sotto una
fessura bassissima degli armadietti, una maglietta nera. Forse la polizia non
l’aveva notata per la fioca luce che illuminava quella stanza. La toccai. Era
umida. Si era cambiato per davvero. Ma poteva davvero costituire un alibi?
Uscii dopo poco, e doppiando il
sorriso di poco prima, entrai di nuovo nella sala dove c’erano tutti. Trovai
ognuno nelle posizione nelle quali li avevo lasciati cinque minuti prima. Era
come se il tempo si fosse congelato. Strano davvero.
Continuavo ad arrovellarmi a
proposito del delitto. Chi poteva essere stato? Leòn o Martino? Chissà. La cosa
certa è che in quel modo non l’avremmo mai scoperto. Ci voleva la scintilla. In
quella serata, sembrava che la “scintilla” ci avesse abbandonato. Feci per
inviare un messaggio a Flavio con il cellulare, ma lo avevo scordato nello
spogliatoio. Rientrai ancora, con la scientifica che mi guardava storto,
riandai negli spogliatoi, presi il cellulare, uscii e … per finire l’opera
inciampai vicino ad alcuni fili collegati a stereo amplificatori. Risultato:
Figura a dir poco oscena per imbarazzo causatomi, stereo con filo scollegato e
una miriade di sguardi minacciosi che preannunciavano tempesta. Mi scusai
almeno trenta volta in un minuto e ricollegai tutto alla presa di corrente. Ma
ebbi un dubbio. Lo stereo, sulla cuffia davanti, aveva una sorta di
rigonfiamento. La cuffia, era stata spostata, smontata in qualche modo. Non
avevo idea di cosa fosse.
Dalla sala accanto intanto, udivo
i lamenti di Barbara per aver dimenticato il portafoglio a casa. Era irritante,
sbraitava come una ragazzina di dieci anni, non tollerava il fatto di trovarsi
lì. Lamentava sete, fame e quant’altro e si era disperata visto che nemmeno
l’ispettore De Vistri e l’agente Torchi avevano potuto prestargli denaro.
Stavo quasi parlando da solo per
il nervoso. Ma poi … poi ebbi una illuminazione. Non finirò mai di ringraziare
Barbara. Promisi a me stesso che non mi sarei mai più arrabbiato con lei e non
mi sarei più irritato per le sue noiose lamentele … ma sapevo che non sarebbe
stato possibile. Quella volta però, mi aveva spianato la via per incastrare il
colpevole.
Entrai in stanza con tutta la
naturalezza del mondo, quasi fischiettando il motivetto di “I’m singing in the
rain” per la felicità di aver risolto il caso. Mi avvicinai a De Vistri e a
Torchi. Bianca mi guardò negli occhi. I suoi incontrarono i miei ed ebbi la
sensazione che capì cosa stesse per avvenire.
«Martino» dissi iniziando «nello
spogliatoio hai dimenticato la maglietta».
«Vero. Ok, vado a riprenderla
dopo, quando quelli della scientifica hanno finito».
«Ok». In tono innocente continuai
rivolgendomi a Leòn «Sa Leòn, mi perdoni. Ma non ho potuto fare a meno di
notare quel magnifico stereo nella sala accanto. Puoi dirmi il suo nome tecnico
per favore? Vorrei comprarlo anch’io».
«Non sapevo ti interessassi di
stereo» osservò Bianca. «Oh, ci sono molte cose che non conosci di me» dissi
girandomi e strizzandole l’occhio. Fece una espressione distorta.
«Certo “amigo”. E’ un bel modello,
si vede che sei esperto. Anche a me piacciono tanto. Quello è uno Yamaha
Subwoofer modello yst sw 015 70 W di potenza e a 50 hertz. E’ usato anche per
l’Home Theatre, ma sa riprodurre davvero bene le musiche piene di vita del
tango».
«Senza dubbio. Be’ grazie».
«Di nulla … ma non dovresti prendere
appunti?» mi chiese sempre sorridendomi e lisciandosi la barbetta da capra.
«No, tranquillo. Si dà il caso
che abbia un’ottima memoria. Lei invece ce l’ha corta».
«C-cosa?» disse incredulo.
«Su, getti la maschera. L’abbiamo
capito tutti che lei è l’assassino di Marisa» dissi sfidandolo con lo sguardo.
CAPITOLO
IV – Pista da ballo in amore
«Io l’assassino di Marisa? Ma
stai delirando ragazzino?». Leòn era super adirato. Le parole ispaniche erano
ormai un triste miscuglio di suoni.
Tutti mi fissavano. Franco De
Vistri si avvicinò immediatamente, mi mise le mani sulle spalle e mi guardò
fisso negli occhi.
«Ecco perché non volevo farti
stare qui ragazzino, vai fuori!» disse spintonandomi.
«Stia calmo ispettore. Non vuole
sapere come ha fatto?».
«Ma è assurdo. Stai inventando
tutto! Non siamo ancora arrivati ad una conclusione».
«Proporrei di andare di là.
Seguitemi per favore». Con la sfrontatezza di un veterano, aprii la porta che
comunicava con l’altra sala prove. Barbara e Bianca mi seguirono. Poco dopo
vennero tutti gli altri.
«Lei, Leòn, è stato un gran
furbacchione!» dissi esordendo sedendomi a terra in un angolo della stanza.
Tutti mi guardavano increduli.
«Ha colpito lei la cugina di
questo ragazzo» dissi indicando Martino. «Lei ha occultato le prove e
soprattutto è stato lei a crearsi un alibi che non sta in piedi!».
Rise di gusto.
«Alex, il maestro è innocente»
disse Bianca.
«Il tuo ragazzo sta delirando o
sbaglio?» la frecciatina pungente di Barbara.
«Non è il mio ragazzo!» disse
sbottando Bianca. Arrossì in modo veemente e cominciò a farfugliare qualcosa,
tentando di calmarsi.
«Ascoltate» dissi richiamando
l’attenzione. «Leòn, ha approfittato di quando Martino è andato negli
spogliatoi. E’ entrato dunque nella stanza, ha ballato con la giovane e l’ha
colpita!».
«Hai detto che “ha ballato”?»
domandò Silvio.
«Esattamente. Ha ballato. Il
tango è un ballo nel quale i due ballerini devono stare praticamente attaccati
in alcuni passi. Non gli sarà stato difficile colpirla lì. Nessuno ha udito le
urla, quindi deve averla colpita così rapidamente e da vicino, da non darle
nemmeno il tempo di urlare».
Le pupille di Leòn si dilatarono.
Poi parve riacquistare la calma. «Hai prove a sostegno di questo ragazzino?».
«No, ma mi dica, dov’era al
momento del delitto?».
«Lo ha già detto alla polizia»
disse De Vistri «era alla macchinetta».
«Davvero? Eppure quando poco fa
Barbara ti ha chiesto dei soldi da prestargli,hai aperto il tuo portafoglio e
hai fatto vedere che era completamente vuoto. Puoi confermare. Non è vero
Barbara?».
«C-certo. Ha ragione Alex».
«Signorina, cerchi di essere
precisa» incitò De Vistri.
«Ecco, ho dimenticato i soldi a
casa e ho chiesto al maestro di prestarmeli, ma lui ha detto di non averli e
come prova mi ha mostrato il portafoglio».
«Quindi» dissi slacciandomi
allacciandomi le scarpe contro il muro «a meno che il maestro non conosca un
modo per far apparire i soldi dal nulla … la cosa si fa sospetta».
«Perché ha mentito?» chiese
Torchi a Leòn.
«Non ho mentito». Aveva ancora la
faccia tosta di fare il bugiardo. E’ incredibile certa gente.
«Davvero?» interruppi ancora «Sono
sicuro che se faremo svuotare la cassa interna della macchinetta, allora
troveremo la monetina con le sue impronte. La scientifica ci metterà un attimo
a identificarla, mi creda».
Cominciava a sudare. La maglietta
di cotone, si accostava sempre più al respiro per quanto fosse bagnata e si
fondeva in un tutt’uno col corpo.
«Sapete … ho voglia di un po’ di
musica. Così non mi piace». Lo so, sono terribile. Quando incappo in deduzioni
e criminali spietati, li incastro con i metodi più strambi.
«E’ la mia scuola. Decido io se
puoi mettere la musica o meno, maleducato».
«Ah davvero? Non avrà mica
qualcosa da nascondere?».
«Cosa vuoi dire?».
«Be’ nulla … ma non ci sarà mica
un qualcosa nascosto nella cuffia dello stereo? Un qualcosa che faccia
rimbombare il tutto e penalizzi la qualità del suo amato impianto?».
Il suo viso era sbiancato, gli
occhi erano avidi di emozioni positive e la bocca era tremante. Silvio Torchi
smontò la cassa dello stereo. Vi trovarono un spillo di metallo davvero spesso.
Molto arrugginito e con degli evidenti segni rossastri sulla punta.
«Ma cosa abbiamo qui?» dissi
sbattendo le mani. «Uno spillo. Un’arma perfetta per un delitto, non crede
ispettore?». De Vistri continuava a prestare attenzione all’arma e non diceva
una parola.
«Veda di esaminarlo agente» dissi
rivolgendomi alla scientifica. «Magari ci troviamo una sorpresa» dissi ironico.
«Basta così» Leòn Bolivàr crollò
al suolo con le mani attorno alla testa. Era disperato.
«Ho ucciso io Marisa. Lo
ammetto».
Martino lo colpì con un calcio in
pieno volto. Nessuno fu tanto lesto da impedirglielo. Leòn perse un dente, uno
davanti.
«Mi dispiace Martino» disse con
la bocca piena di sangue. «Ma non potevo più aspettare».
«Perché lo ha fatto?» chiese De
Vistri incredulo. Bianca e Barbara avevano gli occhi lucidi.
«Avevo avuto una relazione con Marisa.
Ma da tempo mi diceva di non voler stare più con me. Oggi abbiamo cominciato a
ballare. Io avevo quello spillo in tasca. Lo avevo trovato a terra sulle scale,
per caso e lo avevo raccolto per fare pulizia. Mi ha spinto e mi ha detto che
ero un mezz’uomo. Non ci ho visto più e l’ho uccisa. Mi pento di quello che ho
fatto» confessò dolorante tenendosi la mano nel sangue che gli sgorgava dalle
gengive.
«Il pentimento è una buona cosa
quando a sentirlo è un assassino, Leòn. Ma il suo pentimento non ridarà la vita
a nessuno» aggiunsi.
Salutammo la polizia. De Vistri
mi diede una violentissima pacca di stima sulla spalla destra. Sulla via del
ritorno a casa, Barbara mi chiese:
«Quando hai capito che era stato
Leòn?».
«Quando ho ripensato alla tua
frase in cui gli chiedevi soldi».
«Capisco». Poi continuò «In gamba
il tuo ragazzo, Bianca!».
«Lo vuoi capire che non è il mio
ragazzo?!». L’urlo si sentì fino a Tripoli. Che ci volete fare? Sono donne, non
è vero?
ANTICIPAZIONE EPISODIO 16: Una persona malata di cuore deve stare lontana da ogni agitazione. Non si può farla arrabbiare o peggio, farla convivere con le proprie fobie. Be', non ci crederete, ma è quello che succede ad Alex Fedele, quando, di fronte ad un caso di infarto, arriva alla conclusione che nell'infarto c'è una causale esterna. Ma che cosa sarà? ALEX FEDELE EPISODIO 16: RAGNI E FOBIE! Solo qui, a partire dal 3 Dicembre 2011! NON PERDETELO PER NESSUNA RAGIONE!!!
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