DOPPIO
DESTINO(1°Parte)
CAPITOLO
I – Salsa Nova e Rapimenti
La mattina dopo quella
incredibile giornata di estenuanti segreti, verità spiegazzate e quant’altro,
eravamo tutti un po’ in soggezione. Flavio non fece colazione con noi. Prese il
suo caffè e se lo portò in ufficio. In cucina non volava una mosca. Bianca
beveva del latte freddo e si preparava per la scuola, mentre Fabio stava per
uscire perché doveva andare in biblioteca a consultare alcuni libri di
medicina.
Usciti tutti, rimasi da solo in
casa. Flavio era nel suo ufficio. Mi ritrovai a pensare a quello che era
successo poco prima. Su come Bianca e Fabio avessero, se non distrutto le
sofferenze legate ad un’ omertà incondizionata, almeno allentatole.
Pensai molto quella mattina. Mi
sedetti sul divano, senza tv, con un quotidiano sportivo tra le mani, ma non
lessi nemmeno una riga. Continuavo a ripensare a come avrebbero potuto
incrinarsi i rapporti all’interno di quella famiglia e per poco non mi balenò
anche il pensiero di ritornare a Fondi. Forse avrei dovuto farmi gli affari
miei. O forse no, chissà. Flavio aveva detto che c’era ancora qualcosa che i
suoi figli non sapevano, ma che avrebbero scoperto più avanti. Aveva spiccicato
parole come “è morta a causa del mio lavoro”, ma non avevo la più pallida idea
a cosa si riferisse. Il tempo avrebbe aiutato?
Con una tazza di caffè ristretto
ancora in mano divenuto nel frattanto freddo, il campanello, cominciando a
suonare all’impazzata come se avesse un tic nervoso, mi segnalò che quella non
sarebbe stata per niente giornata.
Andai ad aprire. La pesante porta
in mogano si spalancò, e alla mia vista si protrasse un uomo di circa
quarant’anni, stempiato, con dei grandi occhialoni di colore grigio. Indossava una camicia a quadretti rosa
ed una giacca marrone a completare il tutto. L’espressione disattenta, la bocca
in fremito e gli occhi che guardavano
intorno, completavano un quadro che non mi piaceva affatto.
«Posso esserle utile?» domandai.
«Io … è questo lo studio del detective Moggelli?»
sussurrò nervosamente.
«Sì, è questo. Dica pure».
«Devo assolutamente parlare col
detective Moggelli. E’ una causa delicata».
«Intanto entri» dissi scansandomi
e facendogli passo. Ricordo che prima di entrare si guardò vorticosamente
intorno, come se avesse paura di essere osservato.
«Sono un detective anch’io».
«Davvero? E’ il figlio del
detective Moggelli?».
«No, no. Non mi fraintenda. Sono
un investigatore lanciato dal PSD … sa, quel corso di preparazione teorica lanciato
dal ministero … ».
«Ah sì, ne hanno parlato anche in
televisione!».
«Esattamente» dissi sorridendo.
«Cosa vi fanno fare esattamente?
Imparano ad investigare?».
«Mio caro signore … nessuno impara ad investigare a questo mondo. O ce la
fai o non ce la fai. Il PSD ti mostra pezzo per pezzo tutti i dettagli del
mestiere. Viene fatto un focus sulla figura dell’investigatore. Su quali
competenze dovrebbe avere. Si esaminano i casi di giustizia irrisolta degli
ultimi anni. Ci si focalizza sulle forze dell’ordine e quant’altro e si
risolvono complessi giochi logici per vedere le capacità intellettive ed
intuitive dell’individuo».
«Quindi non fa diventare
detective» disse abbassando gli occhi. Parve calmarsi mentre intraprendeva
quella conversazione con me.
«No assolutamente. Il PSD è solo
un corso per verificare le qualità intuitive e deduttive che ogni individuo può
o non può possedere. Se la corte docente ti ritiene idoneo, ti manda a fare un
periodo di praticantato presso un’agenzia investigativa, altrimenti ti
comunicano che hai delle carenze. Ma mi creda, loro non fanno nulla per
colmarle. Ti verificano per ciò che mostri di essere al tuo arrivo».
«Ma allora non ti insegnano
nulla?».
«Guardi, ti insegnano che
approccio deve avere un detective di successo. Ti comunicano i casi che
probabilmente in una carriera ti dovrai sopportare e ti forniscono una
piccolissima base di appoggio. C’è una piccola parte dedicata alla parte
cartacea, burocratica del mestiere, ma se intende lezioni del tipo “come
scoprire il colpevole” … be’ quello te lo puoi».
«Capisco».
«Mi dica … come mai ha così tanto
interesse?».
«Be’ ecco … mio figlio ha sempre
sognato fare l’investigatore e quando al tg, davano la notizia di questo corso
era sempre incuriosito».
«Capisco … quanti anni ha suo
figlio?».
«Ne ha sei».
«Deve pazientare un po’ allora.
Ascolti, abbiamo parlato di me. Ma di lei non so ancora nulla. L’accompagno
nello studio di Moggelli,così parliamo meglio, le va?».
«S-sì». Ad un tratto aveva perso
tutta la sua lucidità ed aveva riacquisito lo smarrimento.
Si alzò lentamente. Ebbi
l’impressione che stesse per cadere da un momento all’altro, così decisi di
farlo appoggiare a me. Le mani tremavano e sussurrava parole senza senso tra sé
e sé. Entrammo nell’ufficio di Flavio. Lui era sul divanetto e guardava un programma
sportivo sull’atletica. Da giovane Flavio era stato un grande corridore a
livelli studenteschi. Si dice che ai tempi delle superiori abbia vinto per tre
anni di fila la gara di corsa riunita del Piemonte riservato ai ragazzi dai
quindici ai diciannove anni.
Inoltre vinse tutte le gare
dell’istituto e tutte quella della città per cinque anni fila. C’era infatti,
una parte dell’ufficio, un angolino che veniva costantemente spolverato(solo
quello) da lui stesso, in cui riponeva medaglie, coppe e nastri al merito. Un
vero corridore di successo. Encomiabile.
«Flavio, c’è un cliente» dissi
aprendo la porta.
«Ah, fallo accomodare» affermò
alzandosi di scatto dal divanetto.
Forse non voleva darlo a vedere,
ma probabilmente c’era ancora un po’ di tensione mista a stizza tra di noi. Non
ci guardavamo negli occhi quando parlavamo. La sera prima avevamo abbassato lo
sguardo in contemporanea, ma dal suo tono capii che ce l’aveva ancora con me
per quell’episodio. Infine, mi bastava guardare le sue mani per capire che era
ancora nervoso. Di solito Flavio era una persona abbastanza pacata, anche se
possessore di un carattere difficile, ma difficilmente lo vedevi in preda a
crisi nervose. Le sue dita non stavano ferme un attimo ed aveva sempre qualcosa
tra le mani, che fosse quella una vecchia matita, una gomma da cancellare da modellare
con le mani e limare con le unghie, che fosse anche un semplice telecomando di
plastica della tv. Era nervoso.
Flavio si accomodò sulla poltrona
di fronte al divanetto, mentre io e l’uomo di cui ancora non sapevo il nome e
che mi aveva fatto raccontare un quarto della mia vita sedevamo sul divanetto
di fronte.
«Allora signor … signor …?»
iniziò Flavio.
«Oh, che sciocco … non mi sono
ancora presentato. Mi chiamo Franco Turbotti, lavoro come agente in una
compagnia di assicurazioni».
«Capisco. Signor Turbotti, cosa
l’ha spinta fino al mio ufficio?».
«Vede detective … come dicevo a
questo ragazzo poco fa» disse indicandomi «io ho un figlio di sei anni. E’ un
bambino tenerissimo, si chiama Giosuè».
«Qual è il problema allora?».
«Il fatto è che Giosuè è da ieri
mattina che non si vede» disse in aria afflitta congiungendo le mani a sé.
«In che senso non si vede?»
domandai.
«Nel senso che è scomparso nel
nulla … è come sparito».
«La prego di essere più chiaro
signor Turbotti. Manteniamo il sangue freddo. Mi spieghi la dinamica e poi
valuteremo, d’accordo?».
«Ok» deglutì come se stesse
inghiottendo un cocomero. «Ieri mattina ho portato il piccolo a scuola, come al
solito. Mio figlio torna a casa con lo scuolabus, ma ieri non è tornato. Ho
provato a contattare la scuola e i compagni di mio figlio, ma nessuno dei
bidelli o dei genitori lo aveva visto. Ho domandato anche alla sua maestra e mi
ha solo detto che lo ha visto aggirarsi alla fermata dell’autobus come al
solito.».
«Capisco … e lei vuole assumermi
per ritrovarlo» aggiunse Flavio abbassando gli occhi.
«Esattamente detective».
«E mi dica. E’ possibile che sia
uno scherzo di qualche parente?».
«Impossibile detective. Io e mio
figlio viviamo da soli. Mia moglie è morta a causa di un incidente stradale un
anno fa. I parenti da parte di mia moglie sono originari di Lecce e vivono lì e
i miei genitori non farebbero mai una cosa simile, senza contare che sono
andato anche da loro».
«Ok. Ha qualche indizio?» dissi a
voce abbastanza alta.
«Be’ sì» disse estraendo dalla
valigetta in pelle che aveva portato e nascosto fino a quel momento uno
zainetto giallo e blu.«Questo è il suo zainetto. Stamattina l’ho trovato a
circa un centinaio di metri dalla scuola. Ci sono ancora i suoi quaderni
dentro, guardi» disse porgendomelo.
«Interessante».
«Ti dispiacerebbe farlo vedere
anche a me pivello?» mi disse Flavio con aria malsana.
Senza dire una parola glielo
porsi. Lo ispezionò con grande cura. Alla fine disse:
«Signor Turbotti … lo faremo
analizzare dalla scientifica. Sono sicuro che troveremo delle impronte di suo
figlio e forse anche del rapitore. Poi ricostruiremo la dinamica e stabiliremo
se c’è stata una colluttazione».
«Intanto possiamo stabilire dove
è stato portato il bambino» affermai sollevando le ginocchia da seduto in un
fare lezioso.
«Cosa? E da cosa lo può dedurre?»
disse impaziente Turbotti. Flavio mi guardò stranito.
«Guardate. Sulla parte interna
dello zaino, dove si appoggiano le spalle dell’individuo, c’è una macchia. Lei
è un uomo molto ordinato signor Turbotti, lo vedo da come si è posto nei nostri
confronti. Ha riposto lo zaino in una valigetta per paura che venisse
contaminato da germi e cose varie. Si è perciò dimostrato molto oculato. Non
avrebbe mai permesso a suo figlio di girare con una macchiolina sullo zaino,
anche se questa fosse stata piccola come quella che stiamo per analizzare. Sono
sicuro che la macchia è stata causata nell’incontro col rapitore. Gli agenti
non avranno dubbi sull’esito delle indagini e avremo già mezza indagine
completa».
«Sorprendente!» esclamò l’uomo
rizzandosi in piedi. «Ascolti, come potremmo fare per scoprire da dove proviene
quella macchia?».
«Questo lo ha già detto il
detective Moggelli e gliel’ho ribadito pochi secondi fa anch’io» dissi
sprezzante «la scientifica non si farà scrupoli ed analizzerà anche questa
macchia. Sapremo di cosa è fatta e avremo un indizio importante».
La scientifica venne chiamata
quasi subito. Passarono dieci minuti, non di più. Gli esami della scientifica
di solito richiedono analisi complesse, lunghissime ed elaborate, ma Flavio al
telefono chiese espressamente la priorità massima. Era in gioco la vita di un
bambino, c’era davvero poco da scherzare.
Circa un’ora e mezza dopo gli
esami arrivarono. Un poliziotto della scientifica ce li consegnò di fronte
valla porta.
Franco Turbotti si fece
consegnare la busta. Poi la diede a me, la riprese e la riconsegnò a Flavio.
Della serie, sicurezza al cento per cento.
Flavio aprì la busta senza esitazione,
sfilacciò la colla e prese i foglietti che erano riposti ordinatamente nel
referto. «Ok, qui dice che la polizia scientifica di Torino ha preso in esame
la macchia sullo zaino. Il corpo sottoposto all’esame sarà restituito tra una
decina di giorni. Sarà necessario registrarlo come oggetto esaminato negli
archivi» disse toccandosi i capelli con la mano. Poi continuò iniziando a
leggere testualmente le parole del referto scientifico. «”L’esame a cui è stato
sottoposto l’oggetto da voi presentato ha rilevato sulla parte dello schienale
una macchia composta da pomodoro, lenticchie e verdure. Si evidenzia presenza
di condimento. Il pomodoro è presente per il 45%, le lenticchie per un 21% e le
verdure per il restante 34%”».
«Quindi?» chiese ansioso
Turbotti.
«Quindi è sicuramente una macchia
avvenuta in casa. Non vedo come potrebbe aiutarci».
«Lei cosa pensa?» mi chiese
Franco Turbotti mentre mi arrovellavo. Avevo già sentito quegli ingredienti da
un’altra parte e sinceramente non credevo fosse fatta in casa.
«Ehm … scusi, dico a lei … »
disse mettendomi la mano sulla spalla.
«Oh … mi perdoni, ero
sovrappensiero».
«Cosa ne dice?».
«Ho già sentito questi
ingredienti da qualche altra parte. Voglio dire, è come se avessi già
assaporato questa amalgamazione di sapori. Forse è stato al “Supremo”, tu cosa
ne dici Flavio?».
«Ne dubito. Ricordo benissimo
cosa mangiammo quella sera e non c’era nulla del genere».
Continuavo a riflettere. Dove
avevo visto quegli ingredienti amalgamati tra di loro? Il colore della macchia
inoltre mi dicevano sempre di più che c’era qualcosa di familiare in essa.
«Ma certo!» esclamai alzandomi
dal divano.
«Ha trovato qualche indizio?»
disse Turbotti sgranando gli occhi.
«Forse sì. Quella macchia non può
essere fatta da lei signor Turbotti, in quanto gli ingredienti amalgamati danno
come risultato una salsa chiamata “Nova”».
«La “Nova”? E allora?» disse
Flavio.
«Prova a ragionarci».
«Vediamo … non mi dirai che … ».
«Esatto» dissi aggiungendo un
sorriso malizioso. «L’unico locale che prepara questa salsa è … “Bella Vita” !
Il fast food nel quale io e Andrea siamo andati recentemente».
«E’ proprio sicuro che si trovi
solo in quel locale detective?» mi chiese Turbotti.
«Le assicuro di sì. Quindi, il
punto di partenza per trovare suo figlio è andare in quel fast food. E’
probabile che il bimbo sia stato portato lì».
«Ma … se gli avessero fatto del
male? Come fa a sapere che non gli hanno fatto del male subito? Come fa a
sapere che prima di quella macchia non sia successa qualche altra cosa?».
«Non dica sciocchezze!» intervenì
Flavio. «Se la macchia è veramente di quella salsa … le pare che un criminale
possa portare in un fast food la sua vittima mentre tentava di fargli del male?
Suo figlio è un bambino, ha sei anni, ed è normale che se qualche persona gli
dice: “vieni, ti porto al fast food”, va immediatamente con lui. Semmai
dovrebbe preoccuparsi di cosa è avvenuto dopo».
«E perché?»
«Perché» dissi avvicinandomi a
Franco «è solo allora che avrebbero potuto fargli del male».
«Oddio, il mio bambino!».
«Si calmi adesso. Faremo del
tutto per ritrovarlo, stia tranquillo, dannazione, altrimenti fa agitare anche
me!» lo rimproverò Flavio.
«Come mi consiglia di procedere?»
Turbotti era un fascio di nervi. Guardava nervosamente negli occhi Flavio e
girava i pollici in un fremito senza paragoni.
«Io direi di andare lì e di mettere
a soqquadro il locale. Verbalmente parlando intendo. Non fraintenda. Dobbiamo
andare lì, e metterlo sotto torchio».
«Io dico di no» dissi alzandomi e
andando vicino alla porta-finestra posta alle spalle della scrivania di Flavio
Moggelli.
«E perché no genio?».
«Se ci presentassimo lì, con solo
un referto della scientifica in mano, facendo baccano, si spaventerebbero
soltanto. Bisogna agire con discrezione. Ho un piano».
«Sentiamo» affermò Moggelli
accendendosi una sigaretta e poggiando i piedi sul tavolino in legno che stava
al centro della stanza.
«Uno di noi tre deve andare lì,
ordinare un piatto a base di “Nova” e macchiarsi appositamente. Dopodiché
andremo dalla scientifica ancora una volta, faremo analizzare la macchia per la
seconda volta, la faremo confrontare con quella dello zaino del bimbo e ci
presenteremo lì non con uno, ma con ben due referti della scientifica, di cui
uno incluso del confronto tra le due macchie».
«Ma perché tutto questo dilemma?
Non possiamo andare lì e fare come ogni normale poliziotto?».
«Rifletti … se ci presentassimo
lì e raccontassimo la storia di Franco, probabilmente si spaventerebbero, non
parlerebbero e in più sarebbero capaci di mentire sul referto. Negherebbero
l’evidenza insomma».
«E cosa ti fa pensare che non lo
facciano anche con due referti?».
«Andiamo!» esclamai voltandomi
«puoi negare una volta, giustificandoti con un “tutti possono sbagliare”, ma la
seconda volta che la macchia viene analizzata e per di più viene attuato un
confronto, devi parlare per forza».
«Forse il ragazzo ha ragione»
sussurrò Turbotti.
Flavio storse il naso. Per
contratto da PSD, non ero io a direzione delle indagini sottoposte, ma si
leggeva chiaramente che ogni idea del sottoposto avrebbe dovuto essere
analizzata e motivata. Se risultata piacevole e efficace allora sarebbe stata
attuata.
CAPITOLO
II – Strategia
Ci spostammo quindi in auto. La
Fiat Croma di Flavio, posteggiò a circa quindici metri dal locale “Bella Vita”.
Era mattina presto, ma avevo un certo languorino, e siccome servivano anche
colazioni rustiche, ebbi la tentazione di fermarmi. Ma non lo feci. Maledetta
deontologia.
Franco Turbotti era sconvolto
dall’accaduto. In macchina non stava zitto un attimo. Ogni scusa era buona per
parlarmi di suo figlio, dei suoi progetti futuri. Se avessi assistito ad un
monologo di un politico sarebbe stata più o meno la stessa cosa. Era troppo
scosso per fare da esca. Per quanto mi riguarda, io ero troppo giovane e Flavio
non voleva farmi partecipare all’operazione in quel senso. Così decise di
andare lui direttamente. Il suo viso però era già abbastanza noto, sia in città
che altrove. Da quando l’agenzia aveva cominciato a riprendere i ritmi floridi,
addirittura superiori, per la quale era conosciuta, Flavio Moggelli aveva
subìto un inaspettato incremento di popolarità. Per quanto mi riguarda, non mi
lamentavo. Indagavo, risolvevo casi, ed anche se non ero intervistato dalle tv
di mezzo mondo, non mi importava nulla. Non sono mai stato attratto dal dorato
mondo dello showbiz. Forse erroneamente, l’ho sempre considerato una sorta di
prigione dorata, un mondo perfetto solo all’apparenza … e credetemi, non avevo
alcuna voglia di farne parte. Ero uno dei tanti del PSD, uno di quei ragazzini
che giocano a fare gli investigatori, uno di quelli che sarebbe ritornato con
la coda tra le gambe. Chissà.
Flavio si vestì con un lungo
impermeabile nero. Mise su un paio di baffoni finti ed un paio di occhiali da
sole. Al tutto aggiunse un cappello per nascondere la capigliatura.
Posizionammo una piccolissima
telecamera sull’impermeabile. Aveva la forma di una spilla a forma di due
stelle messe accanto, ma in realtà era – parole del detective Moggelli – una
cimice datogli in dotazione da Ducato sette anni prima. La cimice era collegata
ad una apparecchiatura decisamente primordiale, sempre di gentile concessione di Ducato, che
impiantammo in auto per ascoltare e visualizzare su uno schermo di circa dieci
pollici. C’erano delle enormi cuffie.
Vi dico solo che entrò nel locale
con la naturalezza di un rinoceronte raffreddato. Per nascondere il suo modo di
fare e di atteggiarsi, aveva cominciato a molleggiare sulle gambe in modo
balzano, a lasciarsi andare in modo decisamente imbarazzante. Com’è che si
dice? Il cliente ha sempre ragione?
Vedemmo tutto attraverso il monitor.
«Buongiorno signore» iniziò
conversando l’abile cameriere. «Desidera?».
«Sono di Roma. Ho sentito parlare
della vostra speciale salsa … vorrei assaggiarla».
«Ah, la “Nova” … vedo che lei è
un palato fino. Le preparo un tavolino, o mangia vicino al bancone?».
«Mangio al bancone, grazie
mille».
«Di nulla, aspetti che arriva
subito. Intanto … noi abbiamo tre piatti a base di “Nova”. Il primo è a base di
patate. Lo sconsiglierei vista l’ora». Si fecero una sana risata.
«Ho sentito dire che farcite le
pizze con quella salsa non è vero?».
«Esatto. Gradisce la pizza
allora?».
«Ma sì, lasciamoci andare» disse
ridendo ancora Flavio. Non c’ero abituato, ma recitava davvero bene.
Dopo circa quindici minuti,
l’ordinazione venne portata a termine. Una pizza bianca, infarinata a dovere e
cotta al forno al legno veniva portata al cospetto di Flavio. Era colma di
salsa. Anche se lo schermo dal quale io e Turbotti visualizzavamo le immagini
aveva il formato cromatico in bianco e nero, ci accorgemmo subito che la
consistenza della salsina era identica a quella sullo schienale dello zaino.
«Oh che distratto!» esclamò
urlando Flavio mentre si versava parte della salsa sull’impermeabile. «Sono
proprio un distratto, un emerito distratto. Perdonatemi, ne è caduta un po’
anche sul pavimento». I camerieri pensavano a non farlo preoccupare e si
offrirono addirittura di ripulire la giacca a proprie spese. Non c’è che dire …
impeccabili.
Dopo un po’, Flavio uscì dal
locale, con l’impermeabile macchiato in mano. Si intrufolò nell’auto, si mise
alla guida e portammo il tutto alla scientifica, chiedendo ancora una volta la
“massima priorità” e chiedendo un confronto con la macchia sullo zainetto.
Circa due ore dopo, mentre
eravamo in ufficio, con Turbotti che si dimenava nel voler scoprire ogni
particolare su cosa o non cosa avessero potuto fare a suo figlio i rapitori,
arrivava un fax proveniente dall’indirizzo e-mail della polizia scientifica. Il
referto confermava l’analisi e attestava la “certa somiglianza delle
caratteristiche autentiche mirate alla formazione del composto analizzato”.
Insomma, in poche parole, le due
macchie combaciavano. Erano formate dallo stesso composto.
«Signor Turbotti» Flavio gli mise
una mano sulla spalla. «Stia tranquillo, ora vada a casa, si rilassi, faccia
una doccia e domattina torni qui, chiaro?».
«Ma come faccio a rilassarmi
detective? Si rende conto che hanno il mio bambino?».
«Certamente, ma per far sì che
lei sia in forze per riprendere la ricerca domattina, deve assicurarsi il
totale riposo».
Questo parve affievolire la sua
evidente disperazione. Mentre accompagnavamo alla porta il signore, sussurrava
ancora frasi come: “vi prego, sono nelle vostre mani” e ancora “sono
disponibile a cercare in strada”. Insomma, era un fascio di nervi e sarebbero
servite quattro, cinque, dieci docce per calmarlo e metterlo nella condizione
rilassata.
«Chi è quel signore?» mi domandò
Andrea.
«Un tizio al quale hanno rapito
suo figlio».
«Come si chiama suo figlio?».
«Giosuè».
«Ma allora è il mio compagno di
classe!» disse mio fratello con la sua proverbiale vocina.
«Cosa?!» lo sollevai di peso
portandolo all’altezza della mia testa. «Tu conosci Giosuè?».
«Il bambino conosce il figlio di
Turbotti?» chiese Flavio accalorandosi.
«Pare proprio di sì. Allora
piccolo, facciamo una cosa. Noi andiamo a cenare, ma tu ci dici tutto quello
che sai su Giosuè, siamo intesi?».
«Per cinque caramelle alla
fragola».
Rimasi di sasso. Avete presente
quando ti senti un idiota?
«C-come hai detto?».
«Vi dico tutto quello che so su
Giosuè, per cinque caramelle alla fragola».
«Non è il momento di scherzare!»
lo rimproverai. «Ti rendi conto che c’è di mezzo la vita di un bambino?». Nella
mia vita mi ero sempre preso cura di mio fratello. Mia madre era sempre stata
una giornalista in carriera, mentre mio padre era morto da un po’. Quello che
avevo fatto raramente nei confronti di mio fratello, era stato sgridarlo. Mi
ero preso cura di lui fin da quando avevo dodici anni, ma era rarissimo che lo
rimproverassi. Quel giorno dovevo essere davvero molto, molto arrabbiato,
perché all’incrocio del mio sguardo e all’ascolto delle mie parole chinò il
capo.
«E dai, lascialo stare!» mi
rimproverò a sua volta Bianca. «Dopotutto è un bambino. A volte ti ci comporti
anche tu!». Quantomeno, la sincerità era da apprezzare. Non nascondo che rimasi
di sasso a queste parole ancora una volta.
«L’ho rimproverato perché deve
rendersi conto che potrebbe non rivedere più il suo amico».
«Aspettate un momento, siamo
sicuri che il bambino conosca il nostro Giosuè? Forse lo sta confondendo con
qualche altro bambino» affermò Flavio.
«Giusto» acconsentii «Ok,
piccolo. Puoi dirmi come è fatto Giosuè?».
«No, a te no, perché sei
cattivo!» disse voltandosi e mettendosi dietro le gambe di Bianca.
Ci rimasi male. I bambini tendono
a minimizzare la cattiveria. Per loro, “cattivo”, è chi gli ruba la merenda,
chi gli da uno schiaffetto per spronarli, chi li rimprovera. Ed è una cosa
dolce, quanto strana, il fatto che però quando sono proprio i bambini a dirti
“cattivo”, tu ti senta ancora più schifo di quello che pensi già di essere.
Quando poi, a dirtelo è tuo fratello minore, ti ha praticamente scavato la
fossa. Mi lisciai i capelli all’indietro. I miei capelli castani, mi cadevano
sulla fronte,mentre scrutavo mio fratello.
«Dai piccolo, non dire così.
Rispondi a tuo fratello» lo incitò
Bianca.
Dopo un attimo di tentennamenti
vari, finalmente rispose. Nella sua voce c’era un misto di presunzione e quell’aria
da piccolo saputello, con la pretesa di aver ragione. Che guaio.
«E’ un bambino biondo, ha gli
occhiali e porta sempre un maglioncino viola».
«Corrisponde alla descrizione»
affermai.
«Scusa, ma come fai a saperlo?»
mi domandò Bianca carezzando la testa di Andrea.
«Nello zaino c’era una piccola
fotografia. Prima di portarla alla scientifica, l’ho vista».
«Cosa? E perché non l’hai presa?»
urlò un irritato Flavio.
«Be’, perché Turbotti l’ha presa
per un momento e l’ha messa nel suo portafogli. Inoltre, credevo tu l’avessi
già vista da un pezzo».
CAPITOLO
III – Sospetti insospettabili
«Toglietemi una curiosità»
affermò Bianca dirigendosi verso il mobiletto che regnava nell’ingresso. «per
caso il portafoglio del signor Turbotti, è di colore grigio?».
«Sì, ma come fai a saperlo?»
chiedemmo all’unisono Flavio ed io.
«Perché mi sa che è questo qui …
» e voltandosi mostrò il portafoglio di Franco Turbotti.
«Ma guarda» disse porgendo la
mano Flavio. «Deve averlo dimenticato qui nella fretta. Esco subito, forse
riesco a raggiungerlo per ridarglielo».
«No aspetta un attimo» esitai.
«Cosa c’è?».
«Non volevi vedere la foto?
Magari c’è ancora».
«Giusto, l’avevo scordato».
Flavio Moggelli aprì il
portafoglio a strappo e ne estrasse una piccola fotografia, una di quelle da
fototessera insomma. Nella foto era raffigurato un bimbo che corrispondeva alla
descrizione fornitoci da mio fratello.
«Ok, è proprio il bambino che
conosce Andrea». Flavio fece per richiudere il portafogli, ma una fotografia
leggermente più grande scivolò da una tasca esterna dell’accessorio del signor
Turbotti.
Si depositò a terra dalla parte
opposta allo scenario. La raccolsi. La fotografia ritraeva due uomini. Uno di loro
era il signor Turbotti,mentre l’altro era un uomo sulla sessantina, con lunghi
capelli bianchi e completamente senza barba. Erano in posa abbracciati e
presumibilmente si trovavano in un cantiere. Avevo già visto l’uomo da qualche
parte. Non era una faccia nuova. Chissà chi era.
«Fa vedere» Flavio mi strappò la
foto dalle mani. «M-ma questo è … Rocco Verani, il noto boss della droga!».
Ora cominciavo a capire dove
avevo visto quell’uomo. Rocco Verani era stato anni prima su tutti i tg
nazionali per i reati da lui commessi. In pratica era riuscito a portare un
carico di cocaina del peso di 12 kg dalla Svizzera all’Italia, usando solo un
battello e superando tutti i controlli. Come abbia fatto, non si sa ancora.
«Guardate che è pronto» urlò
Sergio dalla cucina. Quella sera si era fermato da noi, ma forse sarebbe stato
meglio non fargli sapere nulla della vicenda, visto quanto si “emozionava” ogni
volta che sentiva un caso. Tuttavia a cena parlammo principalmente di Turbotti
e di quella foto con Verani. Perché un padre di famiglia di mezza età avrebbe
dovuto farsi scattare una foto con un noto boss della droga ed in più tenere
questa all’interno del suo portafoglio come se fosse un cimelio di cui andare
orgogliosi? Non me lo spiegavo io, e non se lo spiegava nessuno a quanto pare.
Mio fratello a tavola spiegò che Giosuè si fermava ogni giorno a parlare con il
proprietario del fast food. La pista era giusta quindi. Non ci rimaneva che
agire.
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