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sabato 19 novembre 2011

Alex Fedele: Doppio Destino(stagione 1; episodio 14) 2°parte


DOPPIO DESTINO (2° parte)

PROLOGO: Dove può arrivare la sete di Giustizia? All'ospedale per Alex Fedele, detective troppo giusto e troppo poco menefreghista. Chi scegli tra droga e famiglia? Famiglia? Per Franco Turbotti, è l'esatto contrario.
Cos’è successo nella prima parte: Franco Turbotti, uomo di mezza età, si presenta all’agenzia di Flavio per chiedere al detective di indagare sull’improvvisa sparizione di suo figlio di sei anni. Sullo zainetto del bimbo, viene trovata una macchia, che analizzata porta ad una salsa che si prepara solo nel locale/fast food “Bella Vita”. Dopo aver confrontato una nuova macchia, procurata da Flavio volontariamente, con quella sullo zaino, si attesta definitivamente che le due macchie sono appartenenti a due composti uguali. Intanto, mio fratello Andrea, dice di conoscere Giosuè, il bimbo che stiamo cercando. Bianca, si accorge che Turbotti ha dimenticato il portafoglio, ma quando lo apriamo, cade una foto che ritrae l’uomo in compagnia di un noto boss della droga. Cosa nasconde Turbotti …e perché?



CAPITOLO IV – Parole importanti

La mattina dopo, c’era un clima di enorme pesantezza e oserei dire, di senso di dovere. Nel senso, che non si erano ancora allietate definitivamente le ferite tra me e Flavio e in più avevamo una vittima che poteva tramutarsi in carnefice senza che noi ce ne accorgessimo. Entrai nello studio a piccoli passi e vidi Flavio letteralmente provato in viso. Era stato sveglio tutta la notte per controllare i precedenti di Verani e per vedere se Turbotti c’entrasse qualcosa.
«Allora trovato niente?» gli domandai sedendomi sul divano.
«Purtroppo no».
«Poi tu sei stato tutta la notte a cercare …  potevi aspettare stamattina».
«E quindi allungare i tempi? Impara ragazzo, devi sempre anticipare i tempi».
«Cosa intendi fare ora?».
«Chiamare Turbotti e dirgli della storia della foto. Dopotutto stiamo cercando suo figlio».
«Già bravo, e se poi la prende male?».
«In che senso la prende male?».
«Nel senso che non sappiamo come potrebbe prenderla. C’è in ballo la vita di un bambino, ma ricordiamoci che Turbotti ha una personalità abbastanza fragile».
«E allora come pensi di agire?».
«Io lo pedinerei per un po’. Poi lo avvicinerei di persona».
«Sciocchezze! Hai visto troppi film polizieschi. Ascolta, si fa come dico io!» disse a muso duro. Si alzò dalla scrivania, si toccò i capelli e aggiunse: «Non prima di aver fatto una doccia calda».
Circa venti minuti dopo, Flavio rientrava in ufficio, col suo cellulare in mano e già all’orecchio.
«Pensaci, forse … ».
«Sta zitto» e mi placò immediatamente con uno dei suoi sguardi di fuoco. Se fossi stato un pezzo di legno sarei bruciato.
Attendemmo qualche secondo, poi dall’altro capo del telefono, si udì una voce. Era Turbotti. Chiesi a Flavio di mettere il vivavoce.
«Pronto signor Turbotti, sono il detective Moggelli. Volevo informarla di una cosa».
«Ha notizie del mio piccolo? Oh, detective, sapevo che dovevo rivolgermi a lei!».
«Si calmi signor Turbotti. La chiamo per dirle che ha dimenticato il portafoglio qui in ufficio».
«Ah, ecco perché non riuscivo più a trovarlo».
«Già. A proposito di questo, vorrei chiederle una cosa per facilitare le indagini. Lei conosce un certo Rocco Verani?».
«Rocco Verani? Non mi pare, perché?». Viva la sincerità ragazzi.
«Perché io ho qui di fronte a me una sua fotografia in compagnia di Verani. Signor Turbotti, non menta, altrimenti non troveremo mai suo figlio!» urlò Flavio.
Per tutta risposta, Franco Turbotti attaccò il telefono e alle successive quindici chiamate di Flavio, il telefono risultò essere staccato. Era fuggito.
«Hai visto cos’hai combinato?» gli rinfacciai.
«Che cosa? Io ho fatto la cosa migliore pivello!».
«La cosa migliore era rintracciarlo di persona. Gli hai dato tempo di scappare, zuccone!».
«Zuccone a me? Parli tu che hai solo fortuna? Io vengo da quindici anni di carriera poliziesca!».
«Ah davvero? Con tutto il rispetto, ma non sembra proprio».
«Cosa vorresti insinuare?» urlò sbattendo violentemente un pugno sulla scrivania.
«Che non usi il cervello!».
«Ok» disse calmandosi all’improvviso e allargando le mani. «D’ora in poi faremo a modo tuo».
«Cosa vuoi dire?».
«Ti affido il comando delle operazioni. Ma se qualcosa va storto, sarai tu a pagare!».
«Perfetto!» dissi sfidandolo con lo sguardo. Se avevo pensato di riappacificare i rapporti, allora non stavo avendo successo.
Si allontanò da me e si sedette alla scrivania con le mani giunte. «Allora ragazzino, qual è la prossima mossa?». Non capirò mai se quello fu un raptus di improvvisa follia umana che aveva colpito Flavio, oppure un modo per insegnarmi il mestiere.
Intanto entrò Bianca e ci vide pensierosi.
«Avete litigato non è vero?» domandò senza avere risposta.
«Tu Flavio, procurati informazioni sul passato di Verani e di Turbotti. Io e Bianca andremo da “Bella Vita” a mettere sotto torchio il proprietario.
«Così sarebbe questa la tua mossa vincente? Dividerci i compiti? Bah …».
«Per me puoi anche fare come vuoi» dissi appoggiandomi con entrambe le mani alla scrivania. «Ma tutti gli errori fatti finora, sono provenuti da te».
Il clima era ancora più pesante e Bianca, temendo una rissa tra detective, mi trascinò all’indietro per un braccio, sussurrandomi: «Cosa diavolo stai facendo? Ti ha dato di volta il cervello? Io che dovrei fare?».
«Tu segui me e basta, d’accordo?» le dissi sorridendo.
«Ok» affermò con lo sguardo stranito.
 Alle dieci e quarantacinque, entrammo nel locale “Bella Vita”. Poco prima di aprire la porta, avevo detto a Bianca di seguirmi e di non farsi coinvolgere in nulla. Portammo con noi anche Andrea. Se avesse negato, il bambino lo avrebbe disarcionato dalle sue bugie.
«Buongiorno» sussurrai esibendo il mio miglior sorriso.
«Buongiorno a lei, desidera un tavolo?» chiese il solito cameriere super-efficiente.
«No, grazie, vorrei parlare con il proprietario».
«Al momento è occupato. Posso riferirgli qualcosa?».
«No, grazie, è una questione che deve essere risolta da soli».
«Posso sapere con chi ho il piacere di parlare?».
«Le dica che è passato un amico».
«D’accordo».
Ok, lo ammetto … in quella conversazione fui un po’ “Pulp Fiction”, ma d’altronde, se non facevo così,dov’era il bello delle indagini?
«Scusa, ma cosa devi dirgli?» mi domandò candidamente Bianca.
«Il proprietario di questo posto sa quasi sicuramente qualcosa sul bambino scomparso. Tenterò di farlo parlare».
«Capisco. E perché ti sei portato dietro me e Andrea?».
«Tu mi servi nel caso in cui tentasse di fuggire. Tieni il telefono a portata di mano per dare un colpo di telefono alla polizia, nel caso io fossi occupato ad inseguirlo. Il bambino deve smascherarlo nel caso negasse tutto».
«Ok … ma non dire mai più “mi servi” riferendoti a me» aggiunse con un po’ di sdegno.
Quindici minuti e qualche secondo dopo, uscì dalla cucina principale un uomo sul metro e ottanta, con lunghi capelli biondi, vestito con una maglietta e pantaloni bianchi ed un grembiule. Era giovane e non doveva avere più di trent’anni.
«Salve, sono Carlo Nesci, proprietario di “Bella Vita”, il cameriere mi ha detto che volevate parlare con me».
«Esatto».
«Non sarà a proposito di qualche piatto che non vi ha soddisfatto? In tal caso vi porgo le mie più umili scuse».
«No, no … » dissi imbarazzato. Non sembrava cattivo.
«E allora perché siete qui? Sbrigatevi, ho poco tempo».
«Ok, sarò diretto» affermai. «Lei conosce Giosuè Turbotti? E’ un bambino di circa sei anni, capelli biondi, occhiali, statura simile a questo bambino» dissi indicando Andrea.
«Mai sentito nominare».
«Ne è proprio sicuro?».
«Sì … e ora se volete scusarmi, devo tornare al lavoro e … ».
«Pazienti un attimo per favore … quindi lei non ha mai, dico mai, visto questo bambino?» dissi mostrandogli la foto.
«No».
«Andrea, prego» dissi facendogli un cenno con la mano.
«Bugiardo! Tu parlavi sempre con Giosuè al ritorno da scuola!».
Il suo sguardo impallidì, le rughe intorno agli occhi, nonostante la giovanissima età, si dilatarono.
«Allora, signor Nesci. Vogliamo vuotare il sacco?». La gente ci guardava.
«E va bene, venite nel mio studio» ultimò la conversazione. Aveva assunto un’aria rassegnata che dipingeva esattamente il suo stato d’animo.
Attraversammo la cucina e imboccammo un piccolo corridoio con tre porte. Carlo Nesci ci aprì la seconda. L’ufficio era abbastanza modesto. Aveva una scrivania, un pc ed una sedia comune da ufficio, di colore bianco. Davanti alla scrivania, due sedie di plastica, di quelle che si usano al mare per sedersi, quelle di colore verde.
«Ok. Conosco il bambino» cominciò Nesci.
«Ci risulta che sia stato rapito» gli dissi a muso duro.
«Cosa vuole sapere?».
«Lei ha visto qualcosa? Ma aspetti, prima di rispondere, pensi a cosa possa accadere se lei ipoteticamente dicesse una balla. Lo scoprirei comunque e sarebbe arrestato con l’accusa di “omertà finalizzata alla complicità criminale”. Ci pensi, signor Nesci. E’ in ballo la vita del piccolo Giosuè». Sembravo Humphrey Bogart.
Queste mie parole lo colpirono. Abbassò lo sguardo ed un velo di lacrime gli attraversò il viso. Bianca sospirò in segno di compassione, Andrea aveva perso la sua espressione combattiva.
«Ok. L’altra mattina l’ho visto salire su un auto di colore nera».
«Sa dirmi che modello era?» dissi estraendo il block notes.
«Sì. Era una Toyota Auris».
«Ha per caso letto la targa?» chiesi appoggiandomi la mano al mento.
«No, sfortunatamente non ci ho pensato».
«Lei ha assistito a tutta la scena? Cioè voglio dire, saprebbe descrivermi la dinamica dei fatti?».
L’uomo si guardò intorno, quasi per paura che i muri avrebbero potuto recepire il tutto. «Era circa l’una e trenta, quando sono uscito dal locale per prendere una boccata d’aria fresca. Ad un tratto,vedo un uomo abbastanza possente avvicinarsi a Giosuè. Lo attira, perché il bambino corre verso di lui».
«Ha sentito cosa gli ha detto?».
«No, erano lontani almeno trenta metri».
«Lo ha attirato e poi?».
«Poi lo ha fatto salire in auto».
«Non ha visto più nulla?».
«No, mi spiace».
«Mi tolga una curiosità» dissi afferrando e tenendo tra le mani una sorta di piccolo soprammobile in legno rassomigliante ad una divinità buddista. «Perché ha detto che non sapeva nulla?».
«In realtà avevo paura che fosse della banda».
«Cosa? Di quale banda?».
«Insieme all’uomo che ha attirato il bambino, ce n’erano altri due, così ho pensato che ci fosse la criminalità organizzata in mezzo … ».
«Capisco. La ringrazio davvero. Ricordi di non dire a nessuno che siamo stati qui e che abbiamo parlato di questo».
«Ma cosa dico ai miei impiegati? Chi è lei?» disse come risvegliandosi da uno stato d’incoscienza.
«Può dirle che eravamo rappresentati di un’azienda che volevano proporgli uno stock di qualche prodotto e che lei ha rifiutato» intervenne Bianca. «In quanto a me» interruppi «Mi chiamo Alex Fedele, detective privato».
«Ok» affermò stranito.
Usciti dal locale, feci i miei complimenti a Bianca. Pur restando in silenzio, aveva contribuito quantomeno a creare la scusa sul nostro arrivo.
Lei mi sorrise.

CAPITOLO V – Il tempo dell’azione

Ritornati a casa, mi recai nell’ufficio di Flavio e lo trovai già lì, con un sigaro fumante in bocca ad attendere sviluppi.
«Allora, hai scoperto qualcosa?» gli chiesi aprendo una finestra.
«Altroché. Sono andato in periferia con l’auto e ho preso qualche informazione da un mio vecchio amico che stava in polizia».
«Cosa ti ha detto?».
«Gli ho descritto la dinamica, gli ho raccontato di Verani, e ha detto che da qualche tempo ha uno scagnozzo di nome Dimitri».
«Dimitri?».
«Sì, è un russo che ha portato in Italia da circa due mesi».
«E cos’altro ti ha detto?»
«Più nulla purtroppo. Mi ha dato informazioni sulle operazioni passate di Rocco, ma erano cose che sapevo già». Buttò il sigaro. «E a te com’è andata?».
«Abbastanza bene. Il proprietario del locale dapprima ha negato, poi invece ha avuto il buonsenso di ammettere che conosceva il bambino. Ha detto che lo ha visto salire in una Toyota Auris di colore nero insieme ad altri tre uomini, che è stato attirato da qualcosa».
«La cosa più avvilente è che non abbiamo la più che ben minima idea di dove cercarlo».
«Già. Non ha lasciato nessun indizio. Ho controllato anche la strada, mentre camminavamo a piedi, ma non c’era nulla».
La sera si stava affacciando su Torino. In quei due giorni, io e Flavio avevamo mangiato e dormito pochissimo. Entrambi ci davamo da fare per ritrovare quel bambino e per sfuggire alle nostre intemperanze. Il caso dell’anniversario non si era ancora affacciato alla realtà passata e questo lo sapevamo tutti e due. Non era ancora il momento di dire “è acqua passata”, anche se entrambi probabilmente lo avremmo voluto fortemente. Flavio prese la fotografia di Turbotti con Verani e se la mise di fronte agli occhi.
«Che poi questi spacciatori o questi assassini, si scelgono sempre dei posti sperduti dove andare, chissà questo dove si sarà nascosto». La fotografia ritraeva Turbotti e Verani abbracciati, quasi in modo fraterno, con sullo sfondo un cantiere edile presumibilmente rovinato e illuminato solo dalla fiacca luce dei lampioni circostanti. Ero di spalle alla scrivania, mi girai di scatto e incrociai lo sguardo freddo e distaccato di Flavio, che non appena mi guardò negli occhi si illuminò in modo decisamente inusuale.
«Il cantiere!» dicemmo contemporaneamente. Eravamo stati stupidi a non pensarci prima. Non è detto che Giosuè fosse effettivamente rinchiuso in quel cantiere, ma probabilmente era un inizio e non controllare sarebbe risultato solo errato.
Ok, eravamo stati due zucconi epocali, ma le problematiche delle ultime vicende ci avevano fatto dimenticare tutto il dimenticabile.
«Aspetta un attimo, ci sono centinaia di cantieri edili a Torino …  come facciamo a sapere in quale si trovano» mi chiese Flavio.
Presi la fotografia in mano e la osservai. Non c’erano segni che potessero identificare il posto, ma ad un tratto scorsi su un tubo che spuntava alle spalle dei soggetti, il logo della “CS Edil”, edilizia che aveva chiuso da pochissimo per insufficienza finanziaria.
«Questo è il logo della “CS Edil”» sussurrai.
«Cavoli, l’unico cantiere aperto da quell’azienda edilizia si trova in periferia a circa sette isolati dal locale nel quale sei andato!».
«Ma non si può nascondere un bambino in un cantiere per due giorni … qualcuno ne avrebbe sentito i lamenti» osservai.
«Non mi dirai che … ».
«Esatto, la casa!». La casa a cui alludevo, era una casa solitaria che pareva disabitata da anni e che era nota a Torino come “La casa degli spettri”. I muratori del cantiere avevano detto molte volte che da quella vecchia casa abbandonata avevano udito lamenti strazianti. Io credo solo a ciò che è possibile spiegare con raziocinio. Mai creduto ai fantasmi, né alle leggende e credo neanche Flavio, vista la reazione.
Corremmo fuori. Per la cronaca, uscimmo completamente non in condizione. Flavio aveva una vecchissima camicia bianca, interamente sbottonata, con delle macchie di unto sopra. Dal canto mio, non me la cavavo meglio. La mia maglietta era strappata, macchiata ed i miei jeans, completamente ricoperti di sudiciume. Avevamo fatto la doccia, non fraintendetemi, ma non c’era stato tempo di vestirsi e cambiarsi e avevamo finito per indossare gli stessi vestiti.
Arrivammo in Via Ferrati 31, circa venti minuti dopo. Avevamo spinto parecchio sull’acceleratore e per questo alcuni passanti ci avevano rivolto delle paroline non proprio gentili.
Tuttavia, parcheggiammo la macchina dietro l’angolo. La notte era calata. Avevamo contattato la polizia e ci avevano mandato Novato con due altri agenti in borghese, alla guida di una Station Wagon. Ci avevano seguito per tre isolati, poi per non destare sospetti avevano preso la strada più lunga ed erano arrivati sul posto circa dieci minuti dopo di noi.
La casa aveva tutte le luci spente, nessuno sembrava popolarla, ma se le nostre deduzioni erano esatte, sarebbe stata roba di poco tempo.
Alle 21 e 42, una luce nella casa trovò il pieno bagliore. Era una luce fioca, tenue, accennata appena e non sembrava adiacente ad una casa nella quale si conducesse una vita agiata. Forse era solo il covo di Verani e approfittavano della voce che fosse infestata, solo ed esclusivamente per tenere lontani i curiosi. Non mi sarei stupito se quelle urla provenissero dagli abitanti della banda di Verani.
Flavio si scambiò un cenno di intesa con Novato dallo specchietto retrovisore. Uscì dall’auto in modo repentino e veloce.
«Dove vai?» gli dissi affannato.
«A comprare un hot dog … non vedi che si sono accese le luci? Mi pare ovvio che io vada a controllare».
«Vengo anch’io» dissi slacciandomi la cintura di sicurezza.
«No. Tu rimani di guardia qui, nel caso dovessero avvicinarsi delle forze aggiunte di Verani» disse bisbigliando.
Intanto Novato ci aveva raggiunti affianco alla macchina e aveva caricato a dovere la sua Sig Sauer P220. Stessa cosa avevano fatto i due agenti in borghese. Non li avevo mai visti, ma dovevano avere esperienza da  vendere. Uno di loro aveva le tempie imbiancate, mentre l’altro portava occhiali da sole, nonostante del sole non ci fosse traccia essendo in serata, e aveva una maglietta che gli marcava i muscoli dei pettorali. Sembrava più un bambolotto che un poliziotto.
«Che cosa? Non se ne parla nemmeno!» tentai di protestare vivamente.
«Dannazione! Ascolta, se entro quindici minuti non ci vedi, avvisa il commissariato, ma non uscire dall’auto, è chiaro?» mi disse Flavio.
Acconsentii controvoglia.
Passarono cinque minuti prima che mi stufassi e decidessi di andare a controllare. Lo so, sono idiota. Mi acquattai all’angolo e lo aggirai senza preoccupazione. La casa era ancora parzialmente illuminata. Di Flavio, Novato e degli altri due agenti non vedevo nessuna traccia.
Poi un urlo. Il lampione che spadroneggiava nel giardinetto dell’abitazione delineò una sagoma cadere dall’alto di un balconcino in giù. Potevo scommetterci la vita, era Flavio!
Era caduto da un secondo piano e non saprei dire che tipo di urto avesse subìto. Inoltre ero disarmato. Ok, non avevo il porto d’armi, ma avrei saputo certamente centrare il bersaglio. Al PSD avevano fatto sviluppare in noi una conoscenza delle armi. Sapevamo conoscerle bene, conoscevamo le loro caratteristiche e per quanto mi riguarda, sapevo anche sparare con alcune di esse. Merito di mio fratello Stefano. E’ stato sempre fissato con le armi da fuoco. Così mi aveva insegnato qualcosina.
Mi avvicinai strisciando a terra per non farmi vedere. I gomiti erano sudici e ustionati dallo sfregamento a terra delle mie braccia. Lo chiamai bisbigliando.
«Flavio».
«Ragazzo … » sussurrò ansimando.
«Cavoli, ti sei fatto male?».
«Solo qualche livido» disse nella penombra.
«Dammi la pistola» gli bisbigliai.
«Cosa vuoi fare?».
«Dammi la pistola, cavolo!».
Me la diede controvoglia. La afferrai e mi trascinai verso i piedi della casa. Udì una voce forte, graffiante e maschile dire la propria dal balcone. Diceva parole confuse.
«Dove sono gli agenti?» gli dissi.
«Novato è ferito ad una spalla. Gli altri due non lo so». Parlava in modo stanco. Doveva aver fatto un bel volo ed era evidentemente confuso.
Mi arrampicai sugli appigli di pietra che il balconcino offriva e caricai la pistola. Poco prima avevo chiamato Ducato e mi aveva assicurato che avrebbe mandato una pattuglia immediatamente. Novato era ferito però, due agenti erano spariti, Flavio era caduto da un’altezza di almeno tre metri e aveva riportato sicuramente qualche lesione.
A complicare il tutto, c’era un bambino che sicuramente rischiava la vita. Non ci avrebbero messo molto a farlo fuori.
Arrivai pian piano sul balconcino. Attraverso il vetro della finestra notai che erano tutti girati di spalle, e guardavano il bambino, Giosuè, che aveva le mani e i piedi legati e uno spesso nastro adesivo a bloccargli la bocca. Era uno spettacolo tremendo.
Loro erano tre però e io solo uno. Tenevano puntata una pistola contro il bambino. Non fu saggio da parte mia, ma fui impulsivo. Sparai due colpi verso il vetro della finestra che andò ovviamente in fratumi  e mi accostai sulla parte destra del balcone. Mi nascosi per evitare di essere colpito.
Un membro della banda venne fuori a controllare. Probabilmente pensava che il colpo provenisse da lontano, perché rimase una decina di secondi immobile di fronte alla ringhiera del balcone. Questo mi permise di scaraventarlo giù. Nell’immediato momento in cui stavano per spararmi, la polizia arrivò a sirene spiegate.
«Dannazione! La sirena della polizia!» urlò Rocco Verani. Cominciò a sparare su di me, ma fortunatamente sbagliò mira per la tensione. Il bambino fu lasciato lì. Loro fuggirono come dei vigliacchi, ma la polizia fece irruzione dal mio stesso balcone e non ci fu più nulla da fare. Rocco Verani e due dei suoi uomini erano stati arrestati. Un boss della droga che era rincorso da tutta la polizia italiana da un totale di due anni. Poco dopo ritrovammo Novato. Perdeva molto sangue alla spalla sinistra. Si toccava la ferita, e fu portato col 118. Per quanto riguarda i due agenti in borghese, furono trovati in casa storditi. Uno di loro perdeva sangue dal naso. Aveva subìto diversi pugni. Per quanto riguarda Flavio, be’ … rifiutò il trasporto in ospedale, nonostante le riluttanze di tutti. Diceva di avere dolore alla schiena, ma di essere rimasto illeso. Non sembrava ferito da alcun lato effettivamente. Per quanto riguarda il bambino, era illeso. Aveva solo qualche graffio, nulla più. Tutto finito?

CAPITOLO VI – Non accontentarsi mai!

Mio padre diceva una cosa. Per avere successo nella vita, non bisogna accontentarsi .. mai. Ed è per questo che quella sera avevo un dissapore strano, un retrogusto amaro in bocca. Ero andato a letto a mezzanotte e mezza. Guardai la sveglia. Recitava ore 2:45. Notte fonda.
Poche ore prima, avevamo messo al fresco uno degli spacciatori italiani tra i più ricercati degli ultimi due anni. Niente male. Ma rimaneva un dubbio. Dov’era Turbotti? Non lo sentivamo da quando, quella mattina Flavio gli aveva sbattuto telefonicamente in faccia la verità. Il bambino era stato affidato, momentaneamente si intende, alle cure del commissariato. Avrebbe passato un paio di giorni lì, poi se magari fosse stato ritrovato il genitore, la sua vita sarebbe ricominciata  più o meno come prima. Nel caso in cui Turbotti si fosse rivelato una sorta di grande ingrato, un cafone matricolato, un immane perbenista, contornato da cumuli e cumuli di menzogne, be’, allora per il bambino, già orfano di madre, ci sarebbe stato poco o nulla da fare; Sarebbe stato riformatorio, collegio, o … chiamatelo come vi pare. Ma non potevo permetterlo. La mia coscienza mi diceva di farlo e quando hai la coscienza rompiscatole, è difficile dissuaderti dal fare una determinata cosa. Alcuni anni prima, avevo perso mio padre per incidente stradale. Lo avevo visto per l’ultima volta una sera di febbraio. Uscì di casa e non lo vidi mai più. Mi dissero che era immobile a letto, che le sue condizioni fossero apparse disperate fin dai primi secondi successivi all’impatto. Non avevamo fatto in tempo nemmeno a vederlo. Proprio per questo, per questa serie di ragioni, non potevo permettere assolutamente che quel bambino rimanesse senza padre. Ma soprattutto non potevo permettere che un padre se ne fregasse in quel modo di suo figlio. Non so cosa avrei fatto, se a quella mia tenera età, fossi rimasto anche senza madre. Probabilmente sarei cresciuto in uno di quei istituti in cui ti aprono le porte della serenità e poi successivamente ti trattano come se tu appartenessi ad una classe sociale da discriminare ingiustamente. Avete presente i collegi? Non sono mai come sembrano. Il bambino ha bisogno di una educazione formativa familiare, non di un gruppo di suore che lo tratti in modo zerbino. Ma attenzione, può accadere, in casi più o meno rari, di incontrare persone all’interno del collegio che riescano a sostituire la figura di una madre, di un padre. Allora devi tenertele strette.
Franco Turbotti era quel genere di persona che scaturiva in me una rabbia senza paragoni. Non tollererò mai l’omicidio, o alcun genere di reato, ma una cosa che mi da rabbia in modo inverosimile, è certamente il modo in cui certi genitori trattano i figli. Quel grandissimo idiota si era rivolto a Flavio, aveva partecipato attivamente alle operazioni per il tentato ritrovamento di suo figlio, poi, quando avevamo impugnato la cornetta e gli avevamo sbattuto in faccia cose relativamente di secondo piano, come una sua papabile alleanza ad un boss della droga di espansione nazionale, se n’era andato, fregandosene di ogni qualsivoglia figlio. Alla faccia della coerenza. In pratica, se vogliamo semplificare, è come se tra salvaguardare il suo mondo sporco e condurre una vita normale con suo figlio piccolo, provando magari a ripartire, avesse scelto la prima.
Alle tre e mezza, ero in piedi, davanti al cantiere della “CS Edil”. Avevo in mano la fotografia che Turbotti aveva lasciato nel suo portafoglio. Sulla faccia, un’espressione da film western. Dico davvero, una sorta di Buffalo Bill rivisitato in chiave moderna.
Mi inoltrai nello spazio delimitato dalla sabbia. Non ero armato, fui stupido quella sera, ma dov’era la novità?  Poi mi sentii spintonare, un calcio, un pugno, spintoni. Cercavo di dimenarmi in mezzo a tante mani che non avevano altro obiettivo che quello di colpirmi violentemente fino a farmi perdere i sensi. Mi ritrovai a terra, ma ricordo che colpii uno dei bastardi con un pugno allo stomaco. Poi chiusi gli occhi, vidi nero. Persi i sensi, non avevo più lucidità, e per un attimo prima di chiudere gli occhi, pensai che sarebbe stata la volta buona che fossi andato a trovare mio padre.
La mattina dopo, all’apertura dei miei occhi, la prima cosa che vidi fu lo sguardo concitato e affannato di Bianca. Avevo lo sguardo appannato, molto appannato e non mettevo molto a fuoco le cose, ma mi pareva che fossi in una camera d’ospedale. Una vuota stanza bianca si apriva davanti alle mie pupille, un profonda e chiara luce gialla, mi accecava gli occhi.
Nel mio risveglio, sentii la voce di Flavio e Sergio, che urlavano nel corridoio, chiamando:
«Dottore, si è svegliato! Accorra!».
Nel contempo, avevo riacquistato parzialmente la vista. Notai Fabio che mi guardava con aria preoccupata.
Il dottore era un tipo tarchiato e sulla sessantina. I capelli biancastri, facevano da cornice ad un viso segnato evidentemente dagli anni di professione. Non appena mi vide, mi guardò dritto negli occhi. Mi sgranò le palpebre e infine mi incise una luce nelle pupille per vedere le solite cose di rito.
«Il ragazzo sembra a posto» sussurrò a Bianca in tono solenne.
«Grazie a Dio!» disse sospirando.
«Avrà problemi dottore?» domandò Sergio.
«Nulla di grave. Forse mal di testa e nausea per una settimana al massimo. Ah, forse gli capiterà anche di vomitare. I colpi subìti sono stati inferti in modo abbastanza pericoloso. Gli hanno colpito la tempia in modo alquanto veemente».
Solo adesso mi rendevo conto che avevo una vistosa fasciatura sulla parte superiore a destra del viso.
«Co-cosa succede?» bisbigliai.
«Possiamo parlargli dottore?» domandò mio fratello. Non l’avevo notato inizialmente. In successione mi dissero che se n’era stato per tre ore in silenzio sulla sedia accanto al letto. Povero piccolo.
«Cercate di non affaticarlo. Il paziente è cosciente da poco» rispose il dottore sorridendo e sorridendomi.
«Ok».
Il dottore uscì dalla stanza in modo lesto e professionale.
«Co-cosa succede?» ribadii.
«Vedi di andarci piano, ragazzo. Non sei immortale» sussurrò Flavio con aria decisa.
«Dove sono?» cominciai ad ansimare.
«Stai calmo. Siamo al “Molinette”» mi disse Flavio.
«Ma perché?».
«Non ti ricordi più che ieri sera hai fatto il … cavallo pazzo … e te ne sei andato da solo, senza armi, senza un minimo di piani a cacciare Turbotti e la banda?».
«Ah già» dissi deglutendo in modo pesante e facendo una smorfia. «Ma perché sono qui?».
«Ti sei messo a fare a botte. Loro erano in tre. Turbotti, il russo di cui ti parlavo e un altro idiota che spacciava la droga».
«Se sono qui, ne deduco che ho avuto la peggio». Provai ad abbozzare un sorriso, ma faceva male anche quello.
«Fai poco lo spiritoso» mi ammonì Bianca con dolcezza. «Ti rendi conto che potevi farti ammazzare?».
«Non meriti una amica così». Finì l’opera Flavio.
«Perché mi stai dicendo questo?».
«Si dà il caso, che la signorina ti abbia sentito mentre uscivi di casa …  e degna di suo padre, ha intuito che andassi a cacciarti nei guai. Avendo sentito il discorso sul cantiere della “CS”, ha avvertito l’ispettore Ducato e l’ha convinto a mandare due uomini che perlustrassero la zona, più una volante per le emergenze. Quando sono arrivati lì, tu ti dimenavi a forza tra i tre uomini e cercavi di colpirli. Effettivamente ci sei anche riuscito. Uno di loro ha un dente rotto. Certo, a te è andata peggio». In tutto questo frangente, Bianca sorrideva dolce e imbarazzata. Aveva distolto lo sguardo. Ora rimirava il paesaggio al di fuori della triste finestrella della camera.
«Smettila papà, ho solo fatto quello che era giusto fosse fatto» affermò arrossendo.
«Che cos’ho?» dissi sofferente e dolorante.
«Vediamo» disse girandosi di spalle. «Escoriazioni sui gomiti, qualche livido sull’addome e un colpo bello grosso sulla tempia destra causata dal calcio di una pistola. Il medico ha detto che se avesse colpito due centimetri più in là, saresti morto».
«Dannazione» sussurrai mantenendo lo sguardo basso.
«E non hai niente da dire a mia figlia?» disse aggrottando le sopracciglia.
«Papà! E’ debole, lascialo stare!».
«No, ha ragione. Ti ringrazio. Non so … non so come avrei fatto senza il tuo intervento. Grazie sul serio Bianca, ti devo un favore». Le presi la mano. Davanti a tutti. Arrossimmo un po’. Lei me la lasciò per prima. Ci fu un clima inusuale.
«Ascolta» iniziò Fabio. «Il dottore ha detto che devi riposare». «Papà» disse rivolgendosi a Flavio e mettendogli una mano sulla spalla. «Forse sarà meglio lasciarlo solo».
«Hai ragione» ci vediamo domattina ragazzo. E non scappare dall’ospedale. Non senza avermi lasciato una dichiarazione dove ti assumi tutte le responsabilità. Sei maggiorenne, è vero, sulla carta è così. Ma sei sempre nella mia casa e tecnicamente sono io l’adulto e nel caso ti succedesse qualcosa, potrebbero prendersela con me». Spiritoso come sempre.
Uscirono lentamente dalla stanza. Avevo una flebo attaccata al braccio e mi sentivo un perfetto idiota. Alex Fedele, il ferito. Suonava bene come una puntata di uno scadente telefilm americano a puntate sui thriller. Uscirono tutti dalla stanza. Tranne Bianca e Andrea. Lei sistemava alcune cose sul tavolino accanto al letto. Andrea stava seduto a penzoloni su una sedia grigia.
«D’accordo. Noi andiamo» affermò trascinandosi Andrea.
Le afferrai il polso e la tirai verso di me. Si ritrovò a contatto con il mio torace. Mi faceva male, ma era il dolore più piacevole avessi mai provato. La verità è questa ragazzi. I maschietti sono dei grandi scemi. Era la verità. Lo ammetto, mi era capitato di pensare a Bianca … “in quel senso”, ma adesso la sentivo ancora più vicina a me. E non perché aveva consentito l’arresto di criminali spudorati e nemmeno perché mi aveva salvato la vita. Avevo cominciato a sentire qualcosa dal momento in cui aveva fatto cadere le sue dolci lacrime dal suo viso, davanti a me, con la maggior naturalezza possibile. Avevo provato brividi gelidi al solo pensiero di doverla vedere di nuovo in lacrime.
Andrea ci fissava imperterrito. Paranoia. La mia è paranoia. Credo da anni che mio fratello non sia un bambino come tutti gli altri. Sarà pur un vezzo, ma credo che alla fine capisca le cose molto più velocemente di come la sua età consenta. Mah …
«Hai … hai bisogno di qualcosa?» mi chiese arrossendo. Bianca era agitata. Malgrado i miei tentativi di guardarla negli occhi, si dimostrava sfuggente. Segno di agitazione. I suoi capelli neri le coprivano parte del viso.
«No» risposi con freddezza. Gli occhi di ghiaccio.
«E … e allora … ?».
«Volevo solo ringraziarti. Hai fatto davvero tanto per me e per Andrea. Ieri notte sei stata magnifica».
«O-ok … non c’è di che … in fondo non ho fatto nulla, sai?».
Le lascai il polso, lei si alzò lentamente lasciando la sua scia di profumo nell’ambiente.
«E tu? Tu piccolo? Ce l’hai ancora con me?» chiesi a mio fratello.
Andrea si avvicinò e mi diede un bacetto sulla fronte. Sembravamo esserci scambiai i ruoli. Che strana la vita a volte.
Bianca uscì sorridendo. Forse facevo troppi film. Avrebbero dovuto premiarmi come sceneggiatore dilettante o magari come stuntman … con tutte le ferite che avevo … mi avrebbero preso di sicuro.

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