DOPPIO DESTINO (2° parte)
PROLOGO: Dove può arrivare la sete di Giustizia? All'ospedale per Alex Fedele, detective troppo giusto e troppo poco menefreghista. Chi scegli tra droga e famiglia? Famiglia? Per Franco Turbotti, è l'esatto contrario.
Cos’è successo nella prima parte:
Franco Turbotti, uomo di mezza età, si presenta all’agenzia di Flavio per
chiedere al detective di indagare sull’improvvisa sparizione di suo figlio di
sei anni. Sullo zainetto del bimbo, viene trovata una macchia, che analizzata
porta ad una salsa che si prepara solo nel locale/fast food “Bella Vita”. Dopo
aver confrontato una nuova macchia, procurata da Flavio volontariamente, con
quella sullo zaino, si attesta definitivamente che le due macchie sono
appartenenti a due composti uguali. Intanto, mio fratello Andrea, dice di
conoscere Giosuè, il bimbo che stiamo cercando. Bianca, si accorge che Turbotti
ha dimenticato il portafoglio, ma quando lo apriamo, cade una foto che ritrae
l’uomo in compagnia di un noto boss della droga. Cosa nasconde Turbotti …e
perché?
CAPITOLO
IV – Parole importanti
La mattina dopo, c’era un clima
di enorme pesantezza e oserei dire, di senso di dovere. Nel senso, che non si
erano ancora allietate definitivamente le ferite tra me e Flavio e in più
avevamo una vittima che poteva tramutarsi in carnefice senza che noi ce ne
accorgessimo. Entrai nello studio a piccoli passi e vidi Flavio letteralmente
provato in viso. Era stato sveglio tutta la notte per controllare i precedenti
di Verani e per vedere se Turbotti c’entrasse qualcosa.
«Allora trovato niente?» gli
domandai sedendomi sul divano.
«Purtroppo no».
«Poi tu sei stato tutta la notte
a cercare … potevi aspettare
stamattina».
«E quindi allungare i tempi?
Impara ragazzo, devi sempre anticipare i tempi».
«Cosa intendi fare ora?».
«Chiamare Turbotti e dirgli della
storia della foto. Dopotutto stiamo cercando suo figlio».
«Già bravo, e se poi la prende
male?».
«In che senso la prende male?».
«Nel senso che non sappiamo come
potrebbe prenderla. C’è in ballo la vita di un bambino, ma ricordiamoci che
Turbotti ha una personalità abbastanza fragile».
«E allora come pensi di agire?».
«Io lo pedinerei per un po’. Poi
lo avvicinerei di persona».
«Sciocchezze! Hai visto troppi
film polizieschi. Ascolta, si fa come dico io!» disse a muso duro. Si alzò
dalla scrivania, si toccò i capelli e aggiunse: «Non prima di aver fatto una
doccia calda».
Circa venti minuti dopo, Flavio
rientrava in ufficio, col suo cellulare in mano e già all’orecchio.
«Pensaci, forse … ».
«Sta zitto» e mi placò
immediatamente con uno dei suoi sguardi di fuoco. Se fossi stato un pezzo di
legno sarei bruciato.
Attendemmo qualche secondo, poi
dall’altro capo del telefono, si udì una voce. Era Turbotti. Chiesi a Flavio di
mettere il vivavoce.
«Pronto signor Turbotti, sono il
detective Moggelli. Volevo informarla di una cosa».
«Ha notizie del mio piccolo? Oh,
detective, sapevo che dovevo rivolgermi a lei!».
«Si calmi signor Turbotti. La
chiamo per dirle che ha dimenticato il portafoglio qui in ufficio».
«Ah, ecco perché non riuscivo più
a trovarlo».
«Già. A proposito di questo,
vorrei chiederle una cosa per facilitare le indagini. Lei conosce un certo
Rocco Verani?».
«Rocco Verani? Non mi pare,
perché?». Viva la sincerità ragazzi.
«Perché io ho qui di fronte a me
una sua fotografia in compagnia di Verani. Signor Turbotti, non menta,
altrimenti non troveremo mai suo figlio!» urlò Flavio.
Per tutta risposta, Franco
Turbotti attaccò il telefono e alle successive quindici chiamate di Flavio, il
telefono risultò essere staccato. Era fuggito.
«Hai visto cos’hai combinato?»
gli rinfacciai.
«Che cosa? Io ho fatto la cosa
migliore pivello!».
«La cosa migliore era
rintracciarlo di persona. Gli hai dato tempo di scappare, zuccone!».
«Zuccone a me? Parli tu che hai
solo fortuna? Io vengo da quindici anni di carriera poliziesca!».
«Ah davvero? Con tutto il
rispetto, ma non sembra proprio».
«Cosa vorresti insinuare?» urlò
sbattendo violentemente un pugno sulla scrivania.
«Che non usi il cervello!».
«Ok» disse calmandosi
all’improvviso e allargando le mani. «D’ora in poi faremo a modo tuo».
«Cosa vuoi dire?».
«Ti affido il comando delle
operazioni. Ma se qualcosa va storto, sarai tu a pagare!».
«Perfetto!» dissi sfidandolo con
lo sguardo. Se avevo pensato di riappacificare i rapporti, allora non stavo
avendo successo.
Si allontanò da me e si sedette
alla scrivania con le mani giunte. «Allora ragazzino, qual è la prossima
mossa?». Non capirò mai se quello fu un raptus di improvvisa follia umana che aveva
colpito Flavio, oppure un modo per insegnarmi il mestiere.
Intanto entrò Bianca e ci vide
pensierosi.
«Avete litigato non è vero?»
domandò senza avere risposta.
«Tu Flavio, procurati
informazioni sul passato di Verani e di Turbotti. Io e Bianca andremo da “Bella
Vita” a mettere sotto torchio il proprietario.
«Così sarebbe questa la tua mossa
vincente? Dividerci i compiti? Bah …».
«Per me puoi anche fare come
vuoi» dissi appoggiandomi con entrambe le mani alla scrivania. «Ma tutti gli
errori fatti finora, sono provenuti da te».
Il clima era ancora più pesante e
Bianca, temendo una rissa tra detective, mi trascinò all’indietro per un
braccio, sussurrandomi: «Cosa diavolo stai facendo? Ti ha dato di volta il
cervello? Io che dovrei fare?».
«Tu segui me e basta, d’accordo?»
le dissi sorridendo.
«Ok» affermò con lo sguardo
stranito.
Alle dieci e quarantacinque, entrammo nel
locale “Bella Vita”. Poco prima di aprire la porta, avevo detto a Bianca di
seguirmi e di non farsi coinvolgere in nulla. Portammo con noi anche Andrea. Se
avesse negato, il bambino lo avrebbe disarcionato dalle sue bugie.
«Buongiorno» sussurrai esibendo
il mio miglior sorriso.
«Buongiorno a lei, desidera un
tavolo?» chiese il solito cameriere super-efficiente.
«No, grazie, vorrei parlare con
il proprietario».
«Al momento è occupato. Posso
riferirgli qualcosa?».
«No, grazie, è una questione che
deve essere risolta da soli».
«Posso sapere con chi ho il
piacere di parlare?».
«Le dica che è passato un amico».
«D’accordo».
Ok, lo ammetto … in quella conversazione
fui un po’ “Pulp Fiction”, ma d’altronde, se non facevo così,dov’era il bello
delle indagini?
«Scusa, ma cosa devi dirgli?» mi
domandò candidamente Bianca.
«Il proprietario di questo posto
sa quasi sicuramente qualcosa sul bambino scomparso. Tenterò di farlo parlare».
«Capisco. E perché ti sei portato
dietro me e Andrea?».
«Tu mi servi nel caso in cui
tentasse di fuggire. Tieni il telefono a portata di mano per dare un colpo di
telefono alla polizia, nel caso io fossi occupato ad inseguirlo. Il bambino deve
smascherarlo nel caso negasse tutto».
«Ok … ma non dire mai più “mi
servi” riferendoti a me» aggiunse con un po’ di sdegno.
Quindici minuti e qualche secondo
dopo, uscì dalla cucina principale un uomo sul metro e ottanta, con lunghi
capelli biondi, vestito con una maglietta e pantaloni bianchi ed un grembiule.
Era giovane e non doveva avere più di trent’anni.
«Salve, sono Carlo Nesci,
proprietario di “Bella Vita”, il cameriere mi ha detto che volevate parlare con
me».
«Esatto».
«Non sarà a proposito di qualche
piatto che non vi ha soddisfatto? In tal caso vi porgo le mie più umili scuse».
«No, no … » dissi imbarazzato.
Non sembrava cattivo.
«E allora perché siete qui?
Sbrigatevi, ho poco tempo».
«Ok, sarò diretto» affermai. «Lei
conosce Giosuè Turbotti? E’ un bambino di circa sei anni, capelli biondi,
occhiali, statura simile a questo bambino» dissi indicando Andrea.
«Mai sentito nominare».
«Ne è proprio sicuro?».
«Sì … e ora se volete scusarmi,
devo tornare al lavoro e … ».
«Pazienti un attimo per favore …
quindi lei non ha mai, dico mai, visto questo bambino?» dissi mostrandogli la foto.
«No».
«Andrea, prego» dissi facendogli
un cenno con la mano.
«Bugiardo! Tu parlavi sempre con
Giosuè al ritorno da scuola!».
Il suo sguardo impallidì, le
rughe intorno agli occhi, nonostante la giovanissima età, si dilatarono.
«Allora, signor Nesci. Vogliamo
vuotare il sacco?». La gente ci guardava.
«E va bene, venite nel mio
studio» ultimò la conversazione. Aveva assunto un’aria rassegnata che dipingeva
esattamente il suo stato d’animo.
Attraversammo la cucina e
imboccammo un piccolo corridoio con tre porte. Carlo Nesci ci aprì la seconda.
L’ufficio era abbastanza modesto. Aveva una scrivania, un pc ed una sedia comune
da ufficio, di colore bianco. Davanti alla scrivania, due sedie di plastica, di
quelle che si usano al mare per sedersi, quelle di colore verde.
«Ok. Conosco il bambino» cominciò
Nesci.
«Ci risulta che sia stato rapito»
gli dissi a muso duro.
«Cosa vuole sapere?».
«Lei ha visto qualcosa? Ma
aspetti, prima di rispondere, pensi a cosa possa accadere se lei ipoteticamente
dicesse una balla. Lo scoprirei comunque e sarebbe arrestato con l’accusa di
“omertà finalizzata alla complicità criminale”. Ci pensi, signor Nesci. E’ in
ballo la vita del piccolo Giosuè». Sembravo Humphrey Bogart.
Queste mie parole lo colpirono.
Abbassò lo sguardo ed un velo di lacrime gli attraversò il viso. Bianca sospirò
in segno di compassione, Andrea aveva perso la sua espressione combattiva.
«Ok. L’altra mattina l’ho visto
salire su un auto di colore nera».
«Sa dirmi che modello era?» dissi
estraendo il block notes.
«Sì. Era una Toyota Auris».
«Ha per caso letto la targa?»
chiesi appoggiandomi la mano al mento.
«No, sfortunatamente non ci ho
pensato».
«Lei ha assistito a tutta la
scena? Cioè voglio dire, saprebbe descrivermi la dinamica dei fatti?».
L’uomo si guardò intorno, quasi
per paura che i muri avrebbero potuto recepire il tutto. «Era circa l’una e
trenta, quando sono uscito dal locale per prendere una boccata d’aria fresca.
Ad un tratto,vedo un uomo abbastanza possente avvicinarsi a Giosuè. Lo attira,
perché il bambino corre verso di lui».
«Ha sentito cosa gli ha detto?».
«No, erano lontani almeno trenta
metri».
«Lo ha attirato e poi?».
«Poi lo ha fatto salire in auto».
«Non ha visto più nulla?».
«No, mi spiace».
«Mi tolga una curiosità» dissi
afferrando e tenendo tra le mani una sorta di piccolo soprammobile in legno
rassomigliante ad una divinità buddista. «Perché ha detto che non sapeva
nulla?».
«In realtà avevo paura che fosse
della banda».
«Cosa? Di quale banda?».
«Insieme all’uomo che ha attirato
il bambino, ce n’erano altri due, così ho pensato che ci fosse la criminalità
organizzata in mezzo … ».
«Capisco. La ringrazio davvero.
Ricordi di non dire a nessuno che siamo stati qui e che abbiamo parlato di
questo».
«Ma cosa dico ai miei impiegati?
Chi è lei?» disse come risvegliandosi da uno stato d’incoscienza.
«Può dirle che eravamo
rappresentati di un’azienda che volevano proporgli uno stock di qualche
prodotto e che lei ha rifiutato» intervenne Bianca. «In quanto a me» interruppi
«Mi chiamo Alex Fedele, detective privato».
«Ok» affermò stranito.
Usciti dal locale, feci i miei
complimenti a Bianca. Pur restando in silenzio, aveva contribuito quantomeno a
creare la scusa sul nostro arrivo.
Lei mi sorrise.
CAPITOLO
V – Il tempo dell’azione
Ritornati a casa, mi recai
nell’ufficio di Flavio e lo trovai già lì, con un sigaro fumante in bocca ad
attendere sviluppi.
«Allora, hai scoperto qualcosa?»
gli chiesi aprendo una finestra.
«Altroché. Sono andato in periferia
con l’auto e ho preso qualche informazione da un mio vecchio amico che stava in
polizia».
«Cosa ti ha detto?».
«Gli ho descritto la dinamica,
gli ho raccontato di Verani, e ha detto che da qualche tempo ha uno scagnozzo
di nome Dimitri».
«Dimitri?».
«Sì, è un russo che ha portato in
Italia da circa due mesi».
«E cos’altro ti ha detto?»
«Più nulla purtroppo. Mi ha dato
informazioni sulle operazioni passate di Rocco, ma erano cose che sapevo già».
Buttò il sigaro. «E a te com’è andata?».
«Abbastanza bene. Il proprietario
del locale dapprima ha negato, poi invece ha avuto il buonsenso di ammettere
che conosceva il bambino. Ha detto che lo ha visto salire in una Toyota Auris di
colore nero insieme ad altri tre uomini, che è stato attirato da qualcosa».
«La cosa più avvilente è che non
abbiamo la più che ben minima idea di dove cercarlo».
«Già. Non ha lasciato nessun
indizio. Ho controllato anche la strada, mentre camminavamo a piedi, ma non
c’era nulla».
La sera si stava affacciando su
Torino. In quei due giorni, io e Flavio avevamo mangiato e dormito pochissimo.
Entrambi ci davamo da fare per ritrovare quel bambino e per sfuggire alle
nostre intemperanze. Il caso dell’anniversario non si era ancora affacciato
alla realtà passata e questo lo sapevamo tutti e due. Non era ancora il momento
di dire “è acqua passata”, anche se entrambi probabilmente lo avremmo voluto fortemente.
Flavio prese la fotografia di Turbotti con Verani e se la mise di fronte agli
occhi.
«Che poi questi spacciatori o
questi assassini, si scelgono sempre dei posti sperduti dove andare, chissà
questo dove si sarà nascosto». La fotografia ritraeva Turbotti e Verani
abbracciati, quasi in modo fraterno, con sullo sfondo un cantiere edile
presumibilmente rovinato e illuminato solo dalla fiacca luce dei lampioni
circostanti. Ero di spalle alla scrivania, mi girai di scatto e incrociai lo
sguardo freddo e distaccato di Flavio, che non appena mi guardò negli occhi si
illuminò in modo decisamente inusuale.
«Il cantiere!» dicemmo
contemporaneamente. Eravamo stati stupidi a non pensarci prima. Non è detto che
Giosuè fosse effettivamente rinchiuso in quel cantiere, ma probabilmente era un
inizio e non controllare sarebbe risultato solo errato.
Ok, eravamo stati due zucconi
epocali, ma le problematiche delle ultime vicende ci avevano fatto dimenticare
tutto il dimenticabile.
«Aspetta un attimo, ci sono
centinaia di cantieri edili a Torino …
come facciamo a sapere in quale si trovano» mi chiese Flavio.
Presi la fotografia in mano e la
osservai. Non c’erano segni che potessero identificare il posto, ma ad un
tratto scorsi su un tubo che spuntava alle spalle dei soggetti, il logo della
“CS Edil”, edilizia che aveva chiuso da pochissimo per insufficienza
finanziaria.
«Questo è il logo della “CS
Edil”» sussurrai.
«Cavoli, l’unico cantiere aperto
da quell’azienda edilizia si trova in periferia a circa sette isolati dal
locale nel quale sei andato!».
«Ma non si può nascondere un
bambino in un cantiere per due giorni … qualcuno ne avrebbe sentito i lamenti»
osservai.
«Non mi dirai che … ».
«Esatto, la casa!». La casa a cui
alludevo, era una casa solitaria che pareva disabitata da anni e che era nota a
Torino come “La casa degli spettri”. I muratori del cantiere avevano detto
molte volte che da quella vecchia casa abbandonata avevano udito lamenti
strazianti. Io credo solo a ciò che è possibile spiegare con raziocinio. Mai
creduto ai fantasmi, né alle leggende e credo neanche Flavio, vista la
reazione.
Corremmo fuori. Per la cronaca,
uscimmo completamente non in condizione. Flavio aveva una vecchissima camicia
bianca, interamente sbottonata, con delle macchie di unto sopra. Dal canto mio,
non me la cavavo meglio. La mia maglietta era strappata, macchiata ed i miei
jeans, completamente ricoperti di sudiciume. Avevamo fatto la doccia, non
fraintendetemi, ma non c’era stato tempo di vestirsi e cambiarsi e avevamo
finito per indossare gli stessi vestiti.
Arrivammo in Via Ferrati 31,
circa venti minuti dopo. Avevamo spinto parecchio sull’acceleratore e per
questo alcuni passanti ci avevano rivolto delle paroline non proprio gentili.
Tuttavia, parcheggiammo la
macchina dietro l’angolo. La notte era calata. Avevamo contattato la polizia e
ci avevano mandato Novato con due altri agenti in borghese, alla guida di una
Station Wagon. Ci avevano seguito per tre isolati, poi per non destare sospetti
avevano preso la strada più lunga ed erano arrivati sul posto circa dieci
minuti dopo di noi.
La casa aveva tutte le luci
spente, nessuno sembrava popolarla, ma se le nostre deduzioni erano esatte,
sarebbe stata roba di poco tempo.
Alle 21 e 42, una luce nella casa
trovò il pieno bagliore. Era una luce fioca, tenue, accennata appena e non
sembrava adiacente ad una casa nella quale si conducesse una vita agiata. Forse
era solo il covo di Verani e approfittavano della voce che fosse infestata,
solo ed esclusivamente per tenere lontani i curiosi. Non mi sarei stupito se
quelle urla provenissero dagli abitanti della banda di Verani.
Flavio si scambiò un cenno di
intesa con Novato dallo specchietto retrovisore. Uscì dall’auto in modo
repentino e veloce.
«Dove vai?» gli dissi affannato.
«A comprare un hot dog … non vedi
che si sono accese le luci? Mi pare ovvio che io vada a controllare».
«Vengo anch’io» dissi
slacciandomi la cintura di sicurezza.
«No. Tu rimani di guardia qui,
nel caso dovessero avvicinarsi delle forze aggiunte di Verani» disse
bisbigliando.
Intanto Novato ci aveva raggiunti
affianco alla macchina e aveva caricato a dovere la sua Sig Sauer P220. Stessa
cosa avevano fatto i due agenti in borghese. Non li avevo mai visti, ma
dovevano avere esperienza da vendere.
Uno di loro aveva le tempie imbiancate, mentre l’altro portava occhiali da
sole, nonostante del sole non ci fosse traccia essendo in serata, e aveva una
maglietta che gli marcava i muscoli dei pettorali. Sembrava più un bambolotto
che un poliziotto.
«Che cosa? Non se ne parla
nemmeno!» tentai di protestare vivamente.
«Dannazione! Ascolta, se entro
quindici minuti non ci vedi, avvisa il commissariato, ma non uscire dall’auto,
è chiaro?» mi disse Flavio.
Acconsentii controvoglia.
Passarono cinque minuti prima che
mi stufassi e decidessi di andare a controllare. Lo so, sono idiota. Mi
acquattai all’angolo e lo aggirai senza preoccupazione. La casa era ancora
parzialmente illuminata. Di Flavio, Novato e degli altri due agenti non vedevo
nessuna traccia.
Poi un urlo. Il lampione che
spadroneggiava nel giardinetto dell’abitazione delineò una sagoma cadere
dall’alto di un balconcino in giù. Potevo scommetterci la vita, era Flavio!
Era caduto da un secondo piano e
non saprei dire che tipo di urto avesse subìto. Inoltre ero disarmato. Ok, non
avevo il porto d’armi, ma avrei saputo certamente centrare il bersaglio. Al PSD
avevano fatto sviluppare in noi una conoscenza delle armi. Sapevamo conoscerle
bene, conoscevamo le loro caratteristiche e per quanto mi riguarda, sapevo
anche sparare con alcune di esse. Merito di mio fratello Stefano. E’ stato
sempre fissato con le armi da fuoco. Così mi aveva insegnato qualcosina.
Mi avvicinai strisciando a terra
per non farmi vedere. I gomiti erano sudici e ustionati dallo sfregamento a
terra delle mie braccia. Lo chiamai bisbigliando.
«Flavio».
«Ragazzo … » sussurrò ansimando.
«Cavoli, ti sei fatto male?».
«Solo qualche livido» disse nella
penombra.
«Dammi la pistola» gli
bisbigliai.
«Cosa vuoi fare?».
«Dammi la pistola, cavolo!».
Me la diede controvoglia. La
afferrai e mi trascinai verso i piedi della casa. Udì una voce forte,
graffiante e maschile dire la propria dal balcone. Diceva parole confuse.
«Dove sono gli agenti?» gli
dissi.
«Novato è ferito ad una spalla.
Gli altri due non lo so». Parlava in modo stanco. Doveva aver fatto un bel volo
ed era evidentemente confuso.
Mi arrampicai sugli appigli di
pietra che il balconcino offriva e caricai la pistola. Poco prima avevo
chiamato Ducato e mi aveva assicurato che avrebbe mandato una pattuglia
immediatamente. Novato era ferito però, due agenti erano spariti, Flavio era
caduto da un’altezza di almeno tre metri e aveva riportato sicuramente qualche
lesione.
A complicare il tutto, c’era un
bambino che sicuramente rischiava la vita. Non ci avrebbero messo molto a farlo
fuori.
Arrivai pian piano sul
balconcino. Attraverso il vetro della finestra notai che erano tutti girati di
spalle, e guardavano il bambino, Giosuè, che aveva le mani e i piedi legati e
uno spesso nastro adesivo a bloccargli la bocca. Era uno spettacolo tremendo.
Loro erano tre però e io solo
uno. Tenevano puntata una pistola contro il bambino. Non fu saggio da parte
mia, ma fui impulsivo. Sparai due colpi verso il vetro della finestra che andò
ovviamente in fratumi e mi accostai
sulla parte destra del balcone. Mi nascosi per evitare di essere colpito.
Un membro della banda venne fuori
a controllare. Probabilmente pensava che il colpo provenisse da lontano, perché
rimase una decina di secondi immobile di fronte alla ringhiera del balcone.
Questo mi permise di scaraventarlo giù. Nell’immediato momento in cui stavano
per spararmi, la polizia arrivò a sirene spiegate.
«Dannazione! La sirena della
polizia!» urlò Rocco Verani. Cominciò a sparare su di me, ma fortunatamente
sbagliò mira per la tensione. Il bambino fu lasciato lì. Loro fuggirono come
dei vigliacchi, ma la polizia fece irruzione dal mio stesso balcone e non ci fu
più nulla da fare. Rocco Verani e due dei suoi uomini erano stati arrestati. Un
boss della droga che era rincorso da tutta la polizia italiana da un totale di
due anni. Poco dopo ritrovammo Novato. Perdeva molto sangue alla spalla
sinistra. Si toccava la ferita, e fu portato col 118. Per quanto riguarda i due
agenti in borghese, furono trovati in casa storditi. Uno di loro perdeva sangue
dal naso. Aveva subìto diversi pugni. Per quanto riguarda Flavio, be’ … rifiutò
il trasporto in ospedale, nonostante le riluttanze di tutti. Diceva di avere
dolore alla schiena, ma di essere rimasto illeso. Non sembrava ferito da alcun
lato effettivamente. Per quanto riguarda il bambino, era illeso. Aveva solo
qualche graffio, nulla più. Tutto finito?
CAPITOLO
VI – Non accontentarsi mai!
Mio padre diceva una cosa. Per
avere successo nella vita, non bisogna accontentarsi .. mai. Ed è per questo
che quella sera avevo un dissapore strano, un retrogusto amaro in bocca. Ero
andato a letto a mezzanotte e mezza. Guardai la sveglia. Recitava ore 2:45. Notte
fonda.
Poche ore prima, avevamo messo al
fresco uno degli spacciatori italiani tra i più ricercati degli ultimi due
anni. Niente male. Ma rimaneva un dubbio. Dov’era Turbotti? Non lo sentivamo da
quando, quella mattina Flavio gli aveva sbattuto telefonicamente in faccia la
verità. Il bambino era stato affidato, momentaneamente si intende, alle cure
del commissariato. Avrebbe passato un paio di giorni lì, poi se magari fosse
stato ritrovato il genitore, la sua vita sarebbe ricominciata più o meno come prima. Nel caso in cui
Turbotti si fosse rivelato una sorta di grande ingrato, un cafone matricolato,
un immane perbenista, contornato da cumuli e cumuli di menzogne, be’, allora
per il bambino, già orfano di madre, ci sarebbe stato poco o nulla da fare;
Sarebbe stato riformatorio, collegio, o … chiamatelo come vi pare. Ma non
potevo permetterlo. La mia coscienza mi diceva di farlo e quando hai la
coscienza rompiscatole, è difficile dissuaderti dal fare una determinata cosa. Alcuni
anni prima, avevo perso mio padre per incidente stradale. Lo avevo visto per
l’ultima volta una sera di febbraio. Uscì di casa e non lo vidi mai più. Mi
dissero che era immobile a letto, che le sue condizioni fossero apparse
disperate fin dai primi secondi successivi all’impatto. Non avevamo fatto in
tempo nemmeno a vederlo. Proprio per questo, per questa serie di ragioni, non
potevo permettere assolutamente che quel bambino rimanesse senza padre. Ma
soprattutto non potevo permettere che un padre se ne fregasse in quel modo di
suo figlio. Non so cosa avrei fatto, se a quella mia tenera età, fossi rimasto
anche senza madre. Probabilmente sarei cresciuto in uno di quei istituti in cui
ti aprono le porte della serenità e poi successivamente ti trattano come se tu
appartenessi ad una classe sociale da discriminare ingiustamente. Avete
presente i collegi? Non sono mai come sembrano. Il bambino ha bisogno di una educazione
formativa familiare, non di un gruppo di suore che lo tratti in modo zerbino.
Ma attenzione, può accadere, in casi più o meno rari, di incontrare persone all’interno
del collegio che riescano a sostituire la figura di una madre, di un padre.
Allora devi tenertele strette.
Franco Turbotti era quel genere
di persona che scaturiva in me una rabbia senza paragoni. Non tollererò mai
l’omicidio, o alcun genere di reato, ma una cosa che mi da rabbia in modo
inverosimile, è certamente il modo in cui certi genitori trattano i figli. Quel
grandissimo idiota si era rivolto a Flavio, aveva partecipato attivamente alle
operazioni per il tentato ritrovamento di suo figlio, poi, quando avevamo
impugnato la cornetta e gli avevamo sbattuto in faccia cose relativamente di
secondo piano, come una sua papabile alleanza ad un boss della droga di
espansione nazionale, se n’era andato, fregandosene di ogni qualsivoglia
figlio. Alla faccia della coerenza. In pratica, se vogliamo semplificare, è
come se tra salvaguardare il suo mondo sporco e condurre una vita normale con
suo figlio piccolo, provando magari a ripartire, avesse scelto la prima.
Alle tre e mezza, ero in piedi,
davanti al cantiere della “CS Edil”. Avevo in mano la fotografia che Turbotti
aveva lasciato nel suo portafoglio. Sulla faccia, un’espressione da film
western. Dico davvero, una sorta di Buffalo Bill rivisitato in chiave moderna.
Mi inoltrai nello spazio
delimitato dalla sabbia. Non ero armato, fui stupido quella sera, ma dov’era la
novità? Poi mi sentii spintonare, un
calcio, un pugno, spintoni. Cercavo di dimenarmi in mezzo a tante mani che non
avevano altro obiettivo che quello di colpirmi violentemente fino a farmi
perdere i sensi. Mi ritrovai a terra, ma ricordo che colpii uno dei bastardi
con un pugno allo stomaco. Poi chiusi gli occhi, vidi nero. Persi i sensi, non
avevo più lucidità, e per un attimo prima di chiudere gli occhi, pensai che
sarebbe stata la volta buona che fossi andato a trovare mio padre.
La mattina dopo, all’apertura dei
miei occhi, la prima cosa che vidi fu lo sguardo concitato e affannato di
Bianca. Avevo lo sguardo appannato, molto appannato e non mettevo molto a fuoco
le cose, ma mi pareva che fossi in una camera d’ospedale. Una vuota stanza
bianca si apriva davanti alle mie pupille, un profonda e chiara luce gialla, mi
accecava gli occhi.
Nel mio risveglio, sentii la voce
di Flavio e Sergio, che urlavano nel corridoio, chiamando:
«Dottore, si è svegliato!
Accorra!».
Nel contempo, avevo riacquistato
parzialmente la vista. Notai Fabio che mi guardava con aria preoccupata.
Il dottore era un tipo tarchiato
e sulla sessantina. I capelli biancastri, facevano da cornice ad un viso
segnato evidentemente dagli anni di professione. Non appena mi vide, mi guardò
dritto negli occhi. Mi sgranò le palpebre e infine mi incise una luce nelle
pupille per vedere le solite cose di rito.
«Il ragazzo sembra a posto»
sussurrò a Bianca in tono solenne.
«Grazie a Dio!» disse sospirando.
«Avrà problemi dottore?» domandò
Sergio.
«Nulla di grave. Forse mal di
testa e nausea per una settimana al massimo. Ah, forse gli capiterà anche di
vomitare. I colpi subìti sono stati inferti in modo abbastanza pericoloso. Gli
hanno colpito la tempia in modo alquanto veemente».
Solo adesso mi rendevo conto che
avevo una vistosa fasciatura sulla parte superiore a destra del viso.
«Co-cosa succede?» bisbigliai.
«Possiamo parlargli dottore?»
domandò mio fratello. Non l’avevo notato inizialmente. In successione mi
dissero che se n’era stato per tre ore in silenzio sulla sedia accanto al
letto. Povero piccolo.
«Cercate di non affaticarlo. Il
paziente è cosciente da poco» rispose il dottore sorridendo e sorridendomi.
«Ok».
Il dottore uscì dalla stanza in
modo lesto e professionale.
«Co-cosa succede?» ribadii.
«Vedi di andarci piano, ragazzo.
Non sei immortale» sussurrò Flavio con aria decisa.
«Dove sono?» cominciai ad
ansimare.
«Stai calmo. Siamo al “Molinette”»
mi disse Flavio.
«Ma perché?».
«Non ti ricordi più che ieri sera
hai fatto il … cavallo pazzo … e te ne sei andato da solo, senza armi, senza un
minimo di piani a cacciare Turbotti e la banda?».
«Ah già» dissi deglutendo in modo
pesante e facendo una smorfia. «Ma perché sono qui?».
«Ti sei messo a fare a botte.
Loro erano in tre. Turbotti, il russo di cui ti parlavo e un altro idiota che
spacciava la droga».
«Se sono qui, ne deduco che ho
avuto la peggio». Provai ad abbozzare un sorriso, ma faceva male anche quello.
«Fai poco lo spiritoso» mi ammonì
Bianca con dolcezza. «Ti rendi conto che potevi farti ammazzare?».
«Non meriti una amica così». Finì
l’opera Flavio.
«Perché mi stai dicendo questo?».
«Si dà il caso, che la signorina
ti abbia sentito mentre uscivi di casa …
e degna di suo padre, ha intuito che andassi a cacciarti nei guai.
Avendo sentito il discorso sul cantiere della “CS”, ha avvertito l’ispettore
Ducato e l’ha convinto a mandare due uomini che perlustrassero la zona, più una
volante per le emergenze. Quando sono arrivati lì, tu ti dimenavi a forza tra i
tre uomini e cercavi di colpirli. Effettivamente ci sei anche riuscito. Uno di
loro ha un dente rotto. Certo, a te è andata peggio». In tutto questo
frangente, Bianca sorrideva dolce e imbarazzata. Aveva distolto lo sguardo. Ora
rimirava il paesaggio al di fuori della triste finestrella della camera.
«Smettila papà, ho solo fatto
quello che era giusto fosse fatto» affermò arrossendo.
«Che cos’ho?» dissi sofferente e
dolorante.
«Vediamo» disse girandosi di
spalle. «Escoriazioni sui gomiti, qualche livido sull’addome e un colpo bello
grosso sulla tempia destra causata dal calcio di una pistola. Il medico ha detto
che se avesse colpito due centimetri più in là, saresti morto».
«Dannazione» sussurrai mantenendo
lo sguardo basso.
«E non hai niente da dire a mia
figlia?» disse aggrottando le sopracciglia.
«Papà! E’ debole, lascialo stare!».
«No, ha ragione. Ti ringrazio.
Non so … non so come avrei fatto senza il tuo intervento. Grazie sul serio
Bianca, ti devo un favore». Le presi la mano. Davanti a tutti. Arrossimmo un
po’. Lei me la lasciò per prima. Ci fu un clima inusuale.
«Ascolta» iniziò Fabio. «Il
dottore ha detto che devi riposare». «Papà» disse rivolgendosi a Flavio e
mettendogli una mano sulla spalla. «Forse sarà meglio lasciarlo solo».
«Hai ragione» ci vediamo
domattina ragazzo. E non scappare dall’ospedale. Non senza avermi lasciato una
dichiarazione dove ti assumi tutte le responsabilità. Sei maggiorenne, è vero,
sulla carta è così. Ma sei sempre nella mia casa e tecnicamente sono io
l’adulto e nel caso ti succedesse qualcosa, potrebbero prendersela con me».
Spiritoso come sempre.
Uscirono lentamente dalla stanza.
Avevo una flebo attaccata al braccio e mi sentivo un perfetto idiota. Alex
Fedele, il ferito. Suonava bene come una puntata di uno scadente telefilm
americano a puntate sui thriller. Uscirono tutti dalla stanza. Tranne Bianca e
Andrea. Lei sistemava alcune cose sul tavolino accanto al letto. Andrea stava
seduto a penzoloni su una sedia grigia.
«D’accordo. Noi andiamo» affermò
trascinandosi Andrea.
Le afferrai il polso e la tirai
verso di me. Si ritrovò a contatto con il mio torace. Mi faceva male, ma era il
dolore più piacevole avessi mai provato. La verità è questa ragazzi. I
maschietti sono dei grandi scemi. Era la verità. Lo ammetto, mi era capitato di
pensare a Bianca … “in quel senso”, ma adesso la sentivo ancora più vicina a
me. E non perché aveva consentito l’arresto di criminali spudorati e nemmeno
perché mi aveva salvato la vita. Avevo cominciato a sentire qualcosa dal
momento in cui aveva fatto cadere le sue dolci lacrime dal suo viso, davanti a
me, con la maggior naturalezza possibile. Avevo provato brividi gelidi al solo
pensiero di doverla vedere di nuovo in lacrime.
Andrea ci fissava imperterrito.
Paranoia. La mia è paranoia. Credo da anni che mio fratello non sia un bambino
come tutti gli altri. Sarà pur un vezzo, ma credo che alla fine capisca le cose
molto più velocemente di come la sua età consenta. Mah …
«Hai … hai bisogno di qualcosa?»
mi chiese arrossendo. Bianca era agitata. Malgrado i miei tentativi di
guardarla negli occhi, si dimostrava sfuggente. Segno di agitazione. I suoi
capelli neri le coprivano parte del viso.
«No» risposi con freddezza. Gli
occhi di ghiaccio.
«E … e allora … ?».
«Volevo solo ringraziarti. Hai
fatto davvero tanto per me e per Andrea. Ieri notte sei stata magnifica».
«O-ok … non c’è di che … in fondo
non ho fatto nulla, sai?».
Le lascai il polso, lei si alzò
lentamente lasciando la sua scia di profumo nell’ambiente.
«E tu? Tu piccolo? Ce l’hai
ancora con me?» chiesi a mio fratello.
Andrea si avvicinò e mi diede un
bacetto sulla fronte. Sembravamo esserci scambiai i ruoli. Che strana la vita a
volte.
Bianca uscì sorridendo. Forse
facevo troppi film. Avrebbero dovuto premiarmi come sceneggiatore dilettante o
magari come stuntman … con tutte le ferite che avevo … mi avrebbero preso di
sicuro.
ANTICIPAZIONE EPISODIO 15: Salsa, tango, merengue, valzer ... conosciamo tanti tipi di ballo, non è vero? Il ballo è arte, la danza è movimento, interpretazione e ... crudeltà. Già,crudeltà. Cosa succede quando la crudeltà entra in pista? ALEX FEDELE EPISODIO 15: BALLO DI MORTE! Solo qui a partire dal 26 Novembre 2011!!!! Non perdetelo per nessuna ragione!
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