L’ANNIVERSARIO(1°Parte)
PROLOGO:Flavio sparisce nel nulla. Già, nel nulla. Prende la macchina e lascia tutti a piedi. E' l'inizio di un'avventura ai limiti dei rancori che travolgerà tutti i protagonisti della nostra storia. Alex, la morale, Flavio, la forza d'impulso, Bianca e Fabio, la disperazione, la parte lesa.
CAPITOLO
I – Sparito
Mi da fastidio
quando non dormo la notte. Mi da fastidio come darebbe fastidio a qualsiasi
normale essere umano. Se poi aggiungiamo che quella notte è quella che coincide
con sabato e domenica, allora ti sei fottuto da solo. Verissimo, la domenica
era di solito giorno di riposo assoluto in casa Moggelli e anche se avessi
voluto dormire quel pomeriggio non avrei avuto problemi. Peccato che dormire il
pomeriggio mi rendesse nervoso e poco incline al dialogo. Lo so, sono
difficile. Pensavo ancora a quanto era successo poche ore prima. Lo scontro con
Flavio, le lacrime di Bianca, i dissapori forzati.
Quella mattina mi
alzai lentamente dal letto e dopo essere andato in bagno, andai in camera di
Bianca e in quella di mio fratello per svegliarli. A lei feci il solletico. Le
dava fastidio e questo mi divertiva, ma mi aveva detto lei la sera prima di
chiamarla non appena fossero state le otto del mattino. Mio fratello dormiva
come un ghiro e decidemmo di lasciarlo così ancora un po’.
Scesi in cucina e
vidi che c’era già Fabio con una tazza di caffè fumante in mano.
«Ehi buongiorno.
Come va?» mi disse allegro.
«Non benissimo.
Stanotte sono andato in bianco».
«Niente donne eh?»
disse alzandosi e facendomi spallucce. Sempre il solito scemo.
«In bianco nel
senso che non ho dormito. Io non penso sempre a quello».
«Ah nemmeno io».
«Come no. Senti,
Bianca si sta alzando. Ho lasciato Andrea a dormire ancora un po’ … tu che
fai?».
«Io esco con
Martina e torno prima di pranzo».
«Ok … vedo che hai
fatto colpo».
«Si è decisa a
darmi una chance» disse mettendo le braccia conserte.
«Sai Fabio, ti
conosco da poco, ma ho seri dubbi sulla tua forza di volontà. Riuscirai a stare
solo ed esclusivamente con Martina? Guarda che se fai il pavone come tuo solito
ti molla in mezzo secondo».
«Lo so, lo so. Mi
ha detto le stesse cose lei».
«E’ intelligente».
«Cosa credi?».
«Nulla, ci
mancherebbe. Senti, ma Flavio che fine ha fatto?».
«Papà? Non so. Ma
l’ho visto uscire stamattina prestissimo».
«Cosa?».
«Sì … potevano
essere le quattro. Me ne sono accorto perché ero sceso a prendere un bicchier
d’acqua e ho sentito un rumore. Sono rimasto in salone ed ho visto papà che
prendeva le chiavi della macchina».
«E’ assurdo» dissi
mettendomi la mano sotto al mento.
«Che cos’è che è
assurdo?» domandò Bianca. Mi era comparsa alle spalle all’improvviso facendomi
quasi impallidire.
«Fabio ha detto di
aver visto tuo padre prendere la macchina stamattina alle quattro».
«Sei sicuro?»
domandò al fratello.
«Se non ci credete
guardate pure fuori. La sua macchina non c’è» affermò sorseggiando l’ultimo
goccio di caffè.
«Dove può essere
andato?» domandò enigmatica Bianca.
«Non lo so
sorellina. Ragazzi, io vado da Martina, ritorno per pranzo».
«Aspetta un attimo
farfallone» esclamò Bianca tirando per il braccio Fabio. «Nostro padre è
scomparso e tu pensi alla tua Martina? Vergogna!».
«Cosa dovrei fare
scusa?».
«Provare a fare
qualcosa per esempio? Indagare?».
«Indagare? Non è
roba per me … c’è Alex apposta per questo!» e indicò me.
«C’è Alex, vero.
Ma Alex non è suo figlio, quindi adesso o ti sbrighi ad aiutarci a trovare papà
o racconto a tutti la figuraccia che hai fatto quando avevi quindici anni»
disse facendo un risolino.
«No, avevi
promessi di stare zitta!» protestò il ragazzo.
«Vero, ma mi
costringi a parlare. Allora? Che fai fratellino?» disse ironicamente.
«Secondo te?
Chiamo Martina e le dico di non aspettarmi, beccandomi una predica su come io
non abbia responsabilità».
«Bravo fratellino»
disse Bianca con una pacca sulla spalla di suo fratello.
Fabio si allontanò
per fare la telefonata, Bianca andò a chiamare Andrea di sopra per spiegargli
la situazione e in una decina di minuti erano di nuovo tutti in cucina accanto
a me. Non mi accorsi nemmeno che stavano parlando tra di loro.
«Detective, allora
come agiamo adesso?» disse sorridendomi Bianca.
«Cosa vuoi dire?».
«Sei tu il
detective amico, dirigi tu le operazioni» ci interruppe Fabio sgranocchiando
dei crackers.
«Siete sicuri?».
«Strasicuri».
«Ok. La prima cosa
da fare è controllare se c’è qualche mezzo di comunicazione con il quale
possiamo rintracciarlo. L’errore delle persone è pensare subito a male. Forse è
uscito per fare una commissione di prima mattina».
«Alle quattro?»
disse sarcastica Bianca.
«Già» sorrisi
imbarazzato.
«Comunque nostro
padre non ha altri mezzi per rintracciarlo, escluso il cellulare» affermò
Fabio.
«Già, il
cellulare».
«Sì, provo a
chiamarlo». Fabio digitò i numeri velocemente sulla tastiera. Andrea intanto mi
si avvicinò chiedendomi cos’era successo. Gli risposi che stavamo cercando di
rintracciare Flavio, poiché non si vedeva da questa mattina presto.
«Sai fratellone»
mi disse candidamente «stamattina puzzava di fiori qui dentro!».
«Cosa? Puoi
spiegarti meglio?».
«Sì. In camera mia
veniva una fastidiosissima puzza di fiori. Hai presente quell’aroma di medicine
che mettono sui fiori?».
«Sì».
«Quello lì».
«Dei fiori» dissi
sussurrando a Bianca. Poi mi rivolsi di nuovo a mio fratello. «Sapresti
riconoscere di quale fiore si trattasse?».
«No. Ho solo
sentito puzza di medicina, come quando a Fondi andavamo con la mamma a comprare
i fiori, ti ricordi?».
«E sei proprio
sicuro si trattasse di fiori?» chiese Bianca.
«Sì, sì». Mio
fratello, l’osservatore.
Mi chiesi cosa
c’entrassero i fiori con Flavio, quando Fabio ci comunicò che il cellulare
risultava staccato.
«Senti un po’
Bianca» dissi tirandola a me.«Tu sai che cosa avrebbe potuto festeggiare tuo
padre?».
«In che senso
scusa?».
«Se ha preso dei
fiori, non è certo per rallegrare la casa. Forse voleva festeggiare qualcosa.
Sai per caso se oggi è una ricorrenza particolare?».
«Uhm … fammi
pensare …» disse volgendo lo sguardo all’alto. «No, non mi pare che ci sia
nessuna ricorrenza speciale».
«E’ molto strano …
per favore, cerca di ricordare meglio» dissi cercando da parte sua uno sforzo
mentale superiore.
«No, mi spiace. Mi
pare non ci sia nulla» ultimò lei.
«E’ spento
ragazzi» disse Fabio mostrando il telefonino.
«Possibile che non
ci siano altri modi di contattarlo?».
«Ho anche provato
al cercapersone, ma non risponde affatto».
«E’ strano» disse
Bianca volgendo lo sguardo in basso.«Di solito papà tiene sempre telefonino
acceso e cercapersone in tasca. Deve essergli successo qualcosa!» disse
allarmata.
«Non trarre
conclusioni affrettate» le dissi con dolcezza. «E’ di sicuro una coincidenza».
Era però una
circostanza strana, molto strana. Un detective come Flavio, una persona
abituata a lavorare ventiquattro ore su ventiquattro; Un uomo che aveva
prestato quindici anni in polizia al servizio della giustizia e quindi abituato
alle chiamate d’urgenze e all’essere reperibile, teneva il cellulare spento,
era uscito senza dire nulla e senza far sapere nulla, senza lasciare nessun
indizio. Era decisamente sospetto. Di più, era quasi paradossale.
«Forse» cominciai
la frase con distacco «è solo andato nelle vicinanze».
«E i fiori? Quelli
come te li spieghi?» Fabio e la sua lingua, accidenti.
«Un mistero alla
volta» allargai le braccia. «I fiori adesso occupano solo il dieci per cento
del caso. Il novanta invece vede vostro padre sparito, con la macchina e con
documenti, con il cellulare spento ed il cercapersone a cui non risponde
nemmeno un’anima».
CAPITOLO
II - Delirio
Ci vestimmo tutti
in fretta in furia e ci dirigemmo verso il bar preferito di Flavio. Si trovava
vicino all’agenzia investigativa, a circa un paio di isolati. Quel bar, mi
aveva raccontato Flavio, era lì da una vita. Stava a Torino ereditato di
famiglia in famiglia, di padre in figlio. Si chiamava “Gold” e stava a Torino,
senza esagerazione da più di novant’anni. Era ormai diventato un punto di
riferimento per la gente della città. Era uno dei bar più apprezzati e a Torino
ce n’erano tantissimi. In quel bar, Flavio aveva bevuto per la prima volta con
gli amici, conquistato le prime fiamme, forse anche la sua defunta moglie,aveva
versato le lacrime amare per diventare poliziotto, aveva passato moment belli,
brutti, deprimenti. Ma il bar, c’era sempre stato, ed era proprio per quel
motivo che avevamo deciso di cercarlo lì.
Il bar “Gold”, era
antico solo di nome, non certo per l’aspetto che era pervenuto. I moderni
banconi di legno massiccio adornavano un pavimento color oro spento nel quale
potevi specchiarti, i muri di marmo erano impreziositi da gradevoli quadretti
che facevano la loro indubbia figura. Le sedie color avorio ed i divanetti
bianco sporco facevano da cornice in uno scenario allo stesso tempo elegante e
nettamente familiare. Era bello, era famoso ed era caldo. No, non era un divo di
Hollywood, circondato da migliaia di ragazzine vogliose. Era semplicemente il
bar “Gold”, ed era, come al solito pieno di gente che addentava paste alla
crema e che si tuffava in cappuccini da Oscar.
Fabio e Andrea si
sedettero su un divanetto ed ordinarono due aranciate. Io e Bianca ci dirigemmo
verso il padrone del locale. Avevo conosciuto Luigi da poco,ma sapevo più cose
di lui che dei miei fratelli messi insieme in diciotto anni di vita. Nel nostro
primo quarto d’ora di conversazione mi aveva raccontato di tutto, ma veramente
di tutto. Avevo saputo che aveva due bambine, per lo più gemelle, di soli
quattro anni, avevo saputo che era sposato con la figlia di un contadino da
circa vent’anni, avevo saputo che gestiva il bar dallo stesso tempo perché lo
aveva ereditato dal padre che a sua volta lo aveva ereditato dal padre che a
sua volta … e piantiamola suvvia.
Insomma, di certo,
gli si poteva smuovere ogni genere di critica, ma non che non fosse loquace. Appena
mi vide mi fece un sorriso a trentadue denti. Lo stesso riservò a Fabio.
«Come va Luigi?»
gli dissi appoggiano le mani sul bancone.
«Tutto a posto,
non c’è male. Senti, lo vuoi un cappuccino? Una pasta al cioccolato? E tu
Fabio?».
Entrambi
accennammo ad un convincente “no”, ma lui continuò, beccandosi ben tre
negazioni di fila. Alla fine lo bloccai e gli dissi:
«Ascolta, hai
visto Flavio stamattina?»
«Flavio? No,
stamattina niente. Non s’è venuto a prendere nemmeno un piccolo caffè»
pronunciò “caffè” come se avesse denominato il suo cane, con un affetto tale da
suscitare l’incredibile.
«E’ un mistero»
sussurrò Bianca. «Fabio lo ha visto uscire di casa prestissimo stamattina e
pensavamo fosse venuto da te».
«Ragazzi, qui non
è venuto nessuno, quant’è vero che mi chiamo Luigi Bardelli».
«Ok, stai
tranquillo. Evidentemente non è venuto qui» dissi rivolgendomi a Bianca. «Che
tu sappia, ci sono altri posti dove Flavio avrebbe potuto recarsi di mattina
presto? Che so? Un caso di cui non mi ha parlato per esempio».
«Ho un’idea.
Perché non andiamo a casa a controllare la sua agenda?».
«E tu credi
l’abbia lasciata lì?».
«Perché no? Una
volta si è scordato perfino le sigarette a casa … e ciò è grave considerando il
fatto che le sigarette per papà sono come l’acqua per i pesci».
«Capisco. Senti,
se lo vedi passare, digli che lo stiamo cercando da più di un’ora» dissi
rivolgendomi a Luigi.
«Non ti
preoccupare. Dopo quello che la scorsa settimana hai fatto per me, questo ed
altro!».
Sorrisi.
Luigi era tendente
a ingigantire tutto ciò che poteva accentuare. Incredibile. La settimana prima
ero entrato nel bar e non riusciva a trovare dei soldi. Insomma, in poche
parole sospettava un furto e si stava disperando. Mancavano solo dodici euro,
vero, ma per Luigi i soldi sono la seconda cosa più importante dopo i
pettegolezzi, così, in assenza di Flavio,che era occupato con un altro caso nel
quale non mi aveva reso partecipe, aveva chiesto a me di occuparmene. Vi dico
solo che ci ho messo tre minuti. Nemmeno un babbuino ci metterebbe molto a
scoprire che uno come lui, abituato a tener cura maniacale dei soldi, avesse un
doppiofondo nella cassa dove riponeva gli incassi. Essendo anche molto
distratto, se n’era completamente dimenticato, finendo per non aprirla.
Insomma, un vero genio, non è vero?
Decidemmo di
andare a sederci. Ordinammo per quattro e chiacchierammo della vicenda.
«Non posso credere
che papà se ne sia andato senza dire una parola. Quando lo rivedrò gli farò una
ramanzina così lunga da farlo diventare piccolo piccolo» disse Bianca.
«Non essere così
duro con tuo padre» le dissi sorseggiando la mia aranciata.
«Che fai? Gli dai
anche ragione?» chiese irritata.
Mai contraddire
una donna, imparate.
«No, non gli do
ragione, ma Flavio è di solito una persona molto seria e disciplinata … non
posso credere che se ne sia andato senza dire nulla a nessuno.Insomma, voglio
dire, se si è alzato alle tre ed ha preso la macchina con un mazzo di fiori in
mano alle quattro del mattino ci sarà pure un motivo valido».
Mi guardò storto.
E Andrea, mio fratello, pure. Fabio si limitò a sorseggiare e a ridacchiare.
Simpaticone.
«Ok, lasciamo
stare». In realtà non finii quella frase, perché le porte di vetro poste alla
nostra sinistra si spalancarono improvvisamente lasciando la scena ad un tizio
sui cinquant’anni, calvo, con profondi e sofferti occhi grigi che gridavano
vendetta verso chi sa di aver fatto male. Il corpo era protratto verso una
strana posizione ed impugnava una pistola Browning, una di quelle che si
vendono clandestinamente vicino ai porti o nelle baracche abbandonate dove
vengono seviziate le povere vittime della mafia. Teneva nella mano destra
l’arma e con la sinistra accarezzava la canna. Gli occhi avevano perso quel che
di bello avevano mantenuto. Non conoscevo quell’uomo,ma i suoi occhi rivelavano
tutto di lui. Era assurdo.
«State fermi o
faccio una strage!» urlò ripetutamente sbraitando e dimenandosi con quell’arma
in mano. Inutile dire che la sala fu avvolta da fasci di urla incontrastate,
falsi gemiti di eroismo e molta, molta tensione. Bianca se ne stava con lo
sguardo sbarrato a guardare la canna della pistola dalla quale poteva partire
un colpo mortale. Andrea si era avvicinato al petto di Fabio, ma quest’ultimo
aveva la fronte imperlata di sudore e ben poco di istinto protettivo.
Un donna sui
trent’anni si mosse per raggiungere suo figlio ancora in fasce dentro la
carrozzina, ma l’uomo con la Browning non ammetteva scuse. Voleva l’attenzione
e la voleva di tutti.
«Sta ferma
ragazza, sta ferma! Sta ferma se non vuoi che faccia saltare in aria il tuo
bambino!» parole crude, dipinte dall’odio.
Poi prese fiato,
guardò Luigi paralizzato dalla paura che prendeva la cassa.
«Non voglio i
soldi, razza di pezzente» disse rivolgendosi all’uomo. Luigi si pietrificò.
«L’unica cosa che
voglio» disse arieggiando l’arma in aria «è la vostra attenzione. La stessa
attenzione che chiedete quando fate qualcosa di importante». Si avvicinò ad un
uomo che sorseggiava un caffè corretto e gli puntò la pistola alla tempia.
«Dimmi perché sto
facendo questo ragazzo».
«Ma .. »
Lo guardò male,
poi gli urlò in faccia testuali parole: «Dimmelo, altrimenti ti faccio saltare
in aria il cervello, rifiuto umano!».
«Perché fai
questo?» disse la povera vittima piagnucolando.
La Browning si
tolse dalla tempia del ragazzo e l’uomo spiegò che lo faceva solo perché gli
andava.
«Già è proprio
così» ribadì. «Sono entrato in questo fottuto bar perché mi va di spaventare la
gente con questa pistola. No, non scherzo» disse ridendo a metà tra un
protagonista di film horror e un regista in fallimento perché non si è potuto
concedere al grande palcoscenico.
«E’ che la vita è
strana sapete?» disse camminando e posizionandosi vicino a Luigi.
«La vita è molto,
molto strana. Non ti da mai una seconda occasione, non te la da mai. O almeno a
me non l’ha mai data. Sapete che mi è successo? Ve lo racconto, poi uccido
qualcuno e poi mi tolgo la vita io, così la vita non offrirà opportunità a
nessuno, contenti?». Pronunciò queste frasi con uno stupido sorriso sul volto.
Le donne avevano
paura, Bianca aveva cominciato a gemere di paura e di rabbia. Il ragazzo del
caffè corretto tremava come una foglia.
«L’altro giorno …
mia moglie Elena e mia figlia Vanessa, sono andate a fare la spesa. Tutto bello
no? Volevano comprare gli ingredienti per il tiramisù, a chi non piace il
tiramisù? A chi non piace?!» disse urlando in faccia a Luigi.
«Sulla via del
ritorno, in quella strada che non è mai stata asfaltata dal comune, che sta
aperta ai lati per via della natura che ci circonda» continuò in tono
psichedelico arieggiando l’arma «un furgone di consegne, uno di quelli alti
come una fottuta montagna … va addosso alle persone più importanti della mia
vita e le scaraventa in quel fossato. Volete sapere dove sono ora?»
Nessuno rispose.
«Ve lo dico io.
Sono in una stupida bara di legno! Sono morte per colpa di un idiota che aveva
fretta. E la polizia non l’ha nemmeno arrestato! Vi rendete conto? La legge fa
schifo!».
Si diresse poi
verso un tavolo più esterno al bancone di Luigi e rovesciò a terra un tè
freddo.
«Hai voglia di
picchiarmi vero amico?» disse in tono sbruffone al ragazzo che era seduto. «Ma
non puoi farlo. E sai perché? Perché basta un “clic” e ti faccio fuori.
Capisci? Capite? La potenza è nelle mie mani adesso! Posso essere tutto ciò che
voglio con una pistola in mano, posso essere colui che decide le sorti della vita e della morte, posso essere quello che
può risparmiarvi tutti e quello che invece può mettere fine alle vostre
patetiche vite da molluschi».
Confesso che
sudavo freddo anch’io. I suoi occhi sprizzavano odio da tutti i pori. Il dramma
familiare che aveva purtroppo vissuto, lo aveva scosso profondamente.
Quell’uomo era normale fino a poco tempo prima, ma adesso non lo era più. Sono
sempre stato un tipo che ha creduto nella Giustizia con la “G” maiuscola.
Ovvero, niente corruzioni, niente conflitto di interessi, niente scandali
falsati per far fuori i più forti. La Giustizia esisteva ancora? Non lo so, e
non lo sapevo nemmeno allora. Ma non ero a Torino in villeggiatura, ero a
Torino per offrire la mia competenza giovanile al servizio della Giustizia.
Dovevo fare il detective, e al PSD, ci avevano detto che per un detective
vivere era importante, ma era molto meglio morire da eroe.
«Sai cosa non
sarai mai con quell’arma in mano ?» dissi non riuscendo a tenere a freno la
lingua. Bianca mi guardò con aria inviperita, Fabio era tremendamente nervoso,
Andrea sollevò il capo per un momento.
Avevo gli sguardi
su di me. L’uomo si voltò con la velocità di un ghepardo, accelerò il passo e
mi arrivò ad un centimetro dal viso, spingendo la Browning contro il mio
stomaco con tutta la forza possibile.
Sobbalzai.
«Cosa non posso
essere ragazzo? Abbi le palle di dirlo adesso».
«Vuoi davvero
saperlo?» dissi fingendo di non aver paura. In questi momenti se mostri di aver
paura è finita.
«Tel’ho chiesto
io. Parla. Oppure te la sei già fatta addosso?».
«Per niente. Non
sarai mai un bravo padre o un bravo marito amico».
«Che cosa?» disse
urlando. Sollevò l’arma repentinamente ed ebbi l’impressione di aver ultimato
la mia umile esistenza, quando il grido di Bianca ruppe l’attesa.
Si voltò. Andò da
Bianca, le carezzò in modo folle i capelli e poi le chiuse la bocca con la
mano.
«Che ne dici se
faccio saltare in aria la tua fidanzatina, sbarbatello?»
«Non toccarla!»
urlai a squarciagola.
CAPITOLO
III – Calma e sangue freddo
«Ah, vedo che ti
fa male, quando si dicono le cose in faccia, razza di … ».
«Dannazione, non
capisci che così non fai del tuo meglio? Stai solo peggiorando le cose! Non
farmi ripetere cose da film, ma pensi davvero che tua moglie e tua figlia torneranno
indietro se ammazzi quella ragazza?».
«No, non sono mica
pazzo» disse baciando la canna dell’arma in un fare da matti. «Io so che non
torneranno, ma voglio dar loro compagnia». Rise di gusto, una risata sadica.
Cattiva. Inerme alle provocazioni.
«Ed ora tesoro»
disse rivolgendosi a Bianca «dì addio ai tuoi amici». Fabio non riusciva a
parlare. Andrea non guardava. Dovevo fare qualcosa. L’unico modo per
distoglierlo da Bianca era quello di colpirlo
sulle sue due persone più importanti nella sua vita. Sua moglie e sua
figlia.
«Sai che
direbbero?» lo interruppi.
«Chi?»
«Tua moglie e tua
figlia, di là, in paradiso».
«Se le nomini
ancora è finita … »
«Direbbero: “Che
imbecille papà, non è vero?».
Questa mia frase
lo rese una belva. Tolse la pistola dalla tempia di Bianca e la pose sulla mia.
Non era ciò che volevo. Ero stato accontentato al cinquanta percento. Volevo
che lasciasse stare Bianca, ma mi aspettavo si sarebbe buttato in una lotta a
mani nude. Troppo ottimismo non fa mai bene.
«Mi sa che noi due
ci salutiamo qui, amico».
«Aspetta» dissi
socchiudendo gli occhi. Sapete com’è, volevo evitare di vedermi schizzare il
cervello fuori.
«Cosa vuoi? Hai un
ultimo desiderio?».
«Se qualcuno
avesse sparato a tua moglie, se qualcuno avesse preso in ostaggio tua figlia …
tu cosa avresti fatto?».
Sguardi attoniti
scrutavano la scena mentre cercavo di temporeggiare sulla lunghissima
circostanza che si era venuta a creare. Volevo solo prendere tempo. Forse
dall’esterno qualcuno si sarebbe accorto che dal bar non entrava nessuno, né
usciva nessuno e si sarebbe insospettito.
«Che domande sono
queste eh idiota? Che domande sono?!» disse urlandomi a due centimetri dalla
faccia.
«Solo una domanda,
solo quello che ho detto» risposi ad occhi chiusi. «Ok, te lo dico io cosa
avresti fatto amico, te lo dico io. Tu avresti abbassato la testa, te ne
saresti fottuto dell’orgoglio e saresti in qualche sorta di bar lugubre a bere
tequila e birra finché la bile non diventerebbe un tutt’uno con la lingua. Mi
capisci amico? Capisci cosa ti sto dicendo?».
«Brutto bastardo.
Così giovane e già così bastardo. Ma io ti levo dal mondo, dannato
sbarbatello!».
«E allora perché
non lo fai? Eh? Perché non lo fai? Te lo dico io perché. Perché hai paura di
quell’arma!».
I suoi occhi sbarrati perlustravano ogni piccolo centimetro della
mia pelle, le nostre pupille si erano incrociate oltre l’inverosimile.
«Io non ho paura
di niente … io …»
«Tu cosa? Hai
avuto l’occasione di far fuori almeno tre o quattro persone da quando sei qui dentro
e non l’hai fatto. Sai perché? Perché non sai nemmeno sparare con una pistola,
ecco perché. Scommetto che è la prima volta che ne usi una, non è vero?».
Non rispose.
«Sì, fammi
indovinare. Tu sei uno più alla “fucili da caccia” non è vero? Dimmi la verità
… sei appassionato di caccia vero?».
«Cosa te lo fa
pensare?» disse con la voce vibrante ed il sudore che gli imperlava la fronte.
«Vuoi davvero
saperlo?»
«Dimmelo,
dannazione, dimmelo!» disse irritato. Si asciugò il sudore con la mano
sinistra.
«Ok,non scaldarti.
Quando sei entrato ed hai cominciato a far casino, ho notato che tenevi la
pistola nella mano destra e con la sinistra accarezzavi la canna dell’arma. I
cacciatori, quando stanno per sparare, posizionano una mano per tenere la
maggior parte dell’arma, mentre l’altra, quella opposta al senso di tiro, viene
messo a sorreggere la canna. Una persona che ha usato già una pistola, o che
ancora meglio ha avuto occasione di sparare qualche colpo al poligono di tiro,
sa benissimo che con la mano opposta deve reggere la parte inferiore della
pistola. Ma tu, no. Tu hai effettuato la mossa tipica dei cacciatori. E dicci
la verità amico … non hai la più pallida idea di come si spari con quella
vero?».
Il volto dell’uomo
con in mano la Browning, impallidì. Le labbra erano diventate secche
improvvisamente. Il sudore correva a frotte e l’impressione è che stessi
davvero rischiando troppo. Forse non sapeva tirare al poligono, ma sicuramente
non ci voleva una laurea per colpirmi in fronte con il calcio della pistola.
«Cosa vuoi fare
adesso saputello? Dimmi» chiese con un fil di voce, quasi come se avesse paura
del suo stesso tono. Aveva commesso un reato, ma probabilmente non era stato
lui. Non era lui l’uomo che mi puntava una pistola alla tempia e che sotto le
mie parole dal gusto strafottente, stava per crollare. Uomo fragile, l’avrebbero
apostrofato gli indiani sioux.
«Tu cosa vuoi
fare?» gli ribattei. «Vuoi continuare a mantenere in ostaggio venti persone in
un bar della periferia torinese per il semplice motivo che tua figlia e tua
moglie sono state ammazzate da un idiota che non è stato nemmeno trattenuto
dalla polizia … oppure vuoi fare la cosa giusta?».
«E qual è la cosa
giusta?!» disse urlando e abbozzando una sensazione di pianto.
«Non ci arrivi
amico? Se uccidi qualcuno, nessuno riporterà indietro i tuoi angeli. Se uccidi
qualcuno, anche loro, da lassù, ti vedranno come un perdente e tu ai loro occhi
non sarai più l’uomo che sei sempre stato. Vuoi renderti conto che premere quel
grilletto significherebbe aprirsi la strada verso il baratro? Perciò, te lo
chiedo a nome di tutti, te lo chiedo da ragazzino. Molla quella pistola».
Era incerto. Non
era mica stupido. Sapeva che tutto ciò che gli avevo detto in faccia, con
un’arma fissata alla tempia in procinto di farmi fuori, era la triste e cruda
verità. Ora stava a lui decidere. Sarebbe stato l’assassino che compare nei tg
e che viene etichettato come mostro, oppure semplicemente un uomo che preso da
un gesto di follia causato dalla sua estrema fragilità si sarebbe ravveduto? A
lui la scelta.
«Dì un po’
ragazzo» mi chiese con un fil di voce.«Tu cosa faresti? Non intendo con l’arma.
Tu cosa faresti nella mia circostanza?» il tono pareva essersi affievolito, la
bocca forse aveva avuto una nuova connessione col cervello e gli occhi miravano
in basso.
«Mi stai chiedendo
una cosa molto, molto difficile. Io non potrei mai essere un tipo che entra con
una pistola in mano in un luogo pubblico minacciando gli innocenti. No, non
potrei mai. Mi dispiace per ciò che ti è successo, ma devi confidare nelle
forze dell’ordine. Nelle stesse forze dell’ordine che l’hanno lasciato andare,
ma che possono anche tranquillamente riaprire il caso come omicidio colposo. Tu
hai detto che lui andava di fretta. Come lo hai saputo?».
«Al pronto
soccorso» disse con le lacrime agli occhi «mia figlia era ancora viva. L’ultima
cosa che mi disse fu: “papà, suonava il clacson come un matto, voleva
sorpassarci a tutti i costi. E’ un bastardo papà”. Capisci ora?».
«Io capisco. E tu
capisci che devi mollare l’arma e darti da fare in modo legale?».
«Se mollo l’arma
chiamerai la polizia non è vero?».
«Non mi va di
mentirti. Sì. Ma anche se tu mi facessi fuori adesso, la gente al di fuori del
bar si insospettirebbe di sentire uno sparo. Scommetto che non conoscendo bene
quella pistola, non gli hai messo nemmeno il silenziatore. Si vede anche ad
occhio nudo. Dammi retta,molla l’arma».
«No, no» disse in
tono frastornato e confuso.
«Su, non fare
l’irragionevole. Non sei convinto di sparare, non sai usare l’arma, non hai il
silenziatore, non vuoi uccidere e sai il discorsetto morale. Vai solo a
perderci. Così te la cavi con un mesetto se fai anche lavori sociali, se uccidi
dì pure addio alla Giustizia che ti spetta».
Quest’ultima frase
lo fece crollare al suolo. La pistola lenta in mano, gli scivolò senza che lui
potesse fare nulla. Scoppiò in un pianto dilagante, straziante, avvilente. Non
avevo mai visto un uomo in quelle condizioni. Di solito gli uomini, passano per
i freddi, coloro che non provano emozioni. Se avreste visto anche voi quella
scena, non l’avreste mai e poi mai pensata così. Un uomo che aveva perso tutto
era in ginocchio e piangeva di fronte alla realtà più dura che avrebbe mai
potuto capitargli. Pochi fronzoli, dal giorno dopo iniziava un nuovo capitolo
della sua vita.
Luigi chiamò la
polizia, che venne dopo circa quindici minuti. In quei quindici minuti, l’uomo
con la Browning disse di chiamarsi Giovanni Togni, di avere cinquant’anni e di
lavorare presso una compagnia edile come operaio. L’avevo intuito dalle mani
rovinate. Quelle mani avevano sollevato chissà quanti sacchetti di cemento e
inchiodato chissà quanti chiodi al muro, solo per sfamare la sua famiglia.
Spiegai tutto al
poliziotto. Del sequestro, della morte della famiglia di quell’uomo e di come
era avvenuto tutto ciò. Spifferai tutto per voler mio e per voler di Giovanni.
Forse, un’anima pia gli avrebbe garantito giustizia.
La paura era
passata. Luigi non finiva più di ripetermi che avrei avuto la colazione pagata
per i prossimi cinque anni.
«Sei stato
coraggioso» mi sussurrò Bianca, mentre Fabio era andato ad accompagnare Andrea
in bagno. La gente continuava a darmi pacche sulle spalle, segni di
incoraggiamento e sorrisini ambiziosi. Non era male.
«Grazie mille» mi
limitai a rispondere arrossendo.
«Lo sai che quando
arrossisci diventi di un bel colorito?» mi disse facendomi arrossire ancor di
più.
«Ehm … io non sono
arrossito. E’ che purtroppo l’agitazione a volte dilata i vasi sanguigni e … ».
«Ok, ok. Come non
detto» mi stoppò subito dilatando un sorriso.
«Grande Alex»
disse dandomi un buffetto Fabio. Mio fratello mi abbracciò. Lo presi in
braccio. «Abbiamo ancora il problema di papà da risolvere però» continuò
Bianca.
«Vero».
«Ascolta,
andiamo a casa e perlustriamo la sua
agenda. Sicuramente non l’ha portata via».
«Ok».
A quel punto era
l’unica cosa da fare. Ma la domanda era: Dov’era Flavio?
ANTICIPAZIONE EPISODIO 12: Rancore e paura è il binomio perfetto per creare situazioni spiacevoli. La verità è unica e quando Flavio si ritroverà con le spalle al muro, si troverà costretto a dire la sua. Si scontrano l'alba e il tramonto, si scontrano Alex e Flavio!
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