UN
FALSO PROFESSIONISTA
Sigla di oggi - "The man who can't be moved"- The Script
Note: New entry: Sergio Di Verna
PROLOGO: Quanto è bella l'arte? Tanto, non è vero? Ma se in un circolo vizioso di sguardi, armi a doppio taglio e poche, davvero poche facce fidate si mescolano ambizioni, fame di gloria e poca voglia di aspettare ... l'arte lascia il posto ad un nuovo corso chiamato Orrore. Ma la distrazione a volte, può risultare fatale.
CAPITOLO
I – Ma chi diavolo sei?
Non so perché, ma
Flavio aveva sperimentato una passione per i sigari. Se ne stava a volte un
paio d’ore nel suo studio a fumare continuamente, rendendolo una ciminiera. Era
da poco che aveva quel vizietto. Probabilmente è vero il detto: “Tutti i grandi
uomini hanno almeno un vizio”. Vero, ma per quanto mi sforzassi non vedevo un
grande uomo all’orizzonte.
Spesso negli
ultimi giorni Flavio se ne stava bello appollaiato sulla sua scrivania a
fumare, guardare e riguardare tg e quiz televisivi e leggere vecchi quotidiani
che parlavano delle vecchie imprese ormai andate. Definirlo comportamento
depresso sarebbe stato usare un eufemismo.
Suo figlio era
tornato da poco. Fabio era un ragazzo abbastanza tranquillo. Nelle prime
mattine della sua permanenza si limitava ad uscire tranquillamente di casa,
rientrare per pranzo e studiare per tutto il pomeriggio sui libri di medicina.
Fabio andava abbastanza bene negli studi, ma non aveva la più che minima voglia
ed era incentivato da sua sorella e da suo padre a dedicare almeno tre-quattro
ore giornaliere all’università. Tuttavia mi aveva confessato che la medicina lo
affascinava, ma che a volte avrebbe voluto viaggiare e non fermarsi mai. Sono
solo sogni.
Ricordo bene quel
pomeriggio d’autunno. Le foglie ingiallite perse dagli alberi dipingevano i
viali di Torino di un arancio potente. Il cielo minacciava tempesta, anche se
c’erano quelli sprazzi di luce che ti faceva sperare per un sole caldamente
rivisitato in chiave nostalgica.
Suonò il
campanello. Bianca era indaffarata con i compiti, Andrea era in camera sua a
vedere i suoi programmi preferiti, mentre Flavio se ne stava nel suo studio
a(parole sue) “esaminare alcune bollette un po’ troppo dispendiose”. In quanto
a me, me ne stavo seduto sul divano e guardavo la tv anch’io. Mia madre aveva
telefonato la sera prima e mi aveva continuamente ripetuto le stesse cose da
mamma.
“Stai mangiando?”;
“Come ti trovi dai Moggelli?”; “Se vuoi venire in Giappone, ho già pronta la
stanza per te!”.
Insomma, una
qualunque mamma farebbe quelle domande. In realtà era stata abbastanza
tollerante con me. Mio fratello Stefano,dopo le superiori aveva proseguito la
carriera scolastica iscrivendosi alla facoltà di architettura a Roma. Io avevo
detto chiaramente a mia madre che prima di iscrivermi ad una qualunque
università, avrei voluto provare cosa significasse tentare il grande salto nel
grande sogno. Il grande salto era diventare professionista. Il grande sogno,
quello di diventarlo facendo quello che ben mi piaceva. Il detective. Aveva
rispettato questa scelta e l’ammiravo per questa, anche se a volte, con
battutine a doppio taglio, mi faceva chiaramente capire cosa pensasse della mia
situazione attuale. Insomma, alla fine
non ne potei più delle sue illazioni e scelsi, solo ed esclusivamente per
zittire mia madre, la facoltà di Sociologia. Per lei potevo anche diventare un
nuovo Holmes, una sorta di Poirot italiano, una frangia di Conan, ma nulla. Per
lei l’istruzione era importante ed era di gran lunga la cosa che avrebbe dovuto
accendere la fantasia dei giovani. Eravamo d’accordo però che non avrei
cominciato nemmeno ad aprire il libro se prima non avessi provato a compiere il
mio sogno. Non avevo proprio aperto i libri,davvero, nemmeno dal cellophane.
Erano nuovi e se li avessi venduti, mi avrebbero dato più soldi di quelli che
avevo speso per acquistarli. In più non ero mai andato alla sede della facoltà
alla quale mi ero iscritto, e in più non avevo mai visitato il sito. In poche parole,
l’iscrizione era una sorta di semaforo giallo verso mia madre, un modo per
dire: “ehi, guarda che sono iscritto ad una facoltà”, ma attenzione, non avrei
mai provato a studiare subito(avevo appena conseguito il diploma di ragioneria,
indirizzo programmatore informatico), se prima non avessi coronato il mio
sogno.
Andai ad aprire
mentre mi facevo decine di film mentali, decine di monologhi interiori. La
porta di mogano si spalancò. Lo sguardo dell’uomo di fronte a me si fece
cordiale.
«Buongiorno!» mi
disse sprezzante.
«Buongiorno a lei.
In che cosa posso esserle utile?»
«Ehm…forse ho
sbagliato indirizzo. Mi perdoni»
«Mi dica pure» lo
incitai.
«No, no, è
impossibile.»
«Ok,ma provi a
dirmi cosa cerca, magari posso esserle utile in qualche modo»
«Cercavo il signor
Moggelli, ma deve essersi trasferito.»
«No, è questa la
casa mi dica»
«M-ma allora lei
chi è? Un ladro! Un ladro! Un ladro!» urlò a squarciagola facendosi sentire da
ogni membro del vicinato.
«Si calmi! Ma che
ladro e ladro!» dissi cercando di rassicurarlo. Ma non mi ascoltò e urlò ancora
più forte chiamando Flavio e Bianca. «Flavio! Biancaaa! C’è un ladro!» Poi ebbe
un momento di smarrimento.
«Ah! Ho capito!
Sei uno sporco, volgare assassino ed hai ucciso Bianca e Flavio eh? Ma vedi che
ti farò!»
Così facendo
estrasse un coltellino, simile ad un punteruolo e me lo puntò contro.
«Ma cosa diavolo
sta facendo?» chiesi irritato.
«Io? Tu! Cosa stai
facendo qui? Cosa hai fatto ai Moggelli? Li hai bruciati? Dimmi dove sono i
cadaveri!»
«Ma quali cadaveri?»
dissi cercando di giustificarmi.
Vi giuro che stava
quasi per ferirmi. Mi aveva puntato contro un punteruolo ed avevo le spalle al
muro. Poi, un sussulto. La voce più bella che avrei mai potuto sentire. Ok,non
aveva un timbro femminile, ma quantomeno servì per salvarmi da una brutta
situazione.
«Ma cosa sta
succedendo qui dentro? Chi è lei? Si fermi!» Flavio era entrato nella stanza e
prima che il misterioso uomo si potesse voltare gli lanciò un vaso di vetro
alla testa colpendolo in pieno.
L’uomo cadde a
terra. Era di altezza appena superiore alla mia, appena robusto. Aveva capelli
neri pettinati verso il basso. I ciuffi lunghi sul davanti gli cadevano quasi
sugli occhi. La barba nera, portata in modo discretamente lunga completava il
tutto insieme a degli occhiali da vista senza dubbio modernissimi.
«Si può sapere
cosa succede? Sto studiando!» si lamentò Bianca entrando nel salotto. I rumori
e la dinamica del fatto attirarono anche Andrea.
«Bianca, che
succede?» vedendo l’uomo disteso si riparò dietro le gambe della ragazza, per
la cronaca più spaventata di lui.
«Cosa diamine hai
fatto?» dissi a Flavio.
«Ti ho salvato la
vita!»
«Ok. Ti ringrazio,
ma l’hai tolta a qualcun altro!».
Mentre Flavio si
avvicinava, vedevo la sua espressione cambiare radicalmente. Le sopracciglia si
aggrottarono, il viso si deformò sotto il colpo delle espressioni di
meraviglia.
«Ma questo è
Sergio!» disse stupito togliendogli gli occhiali da sole.
CAPITOLO
II – Sergio
«Sergio?» disse
Bianca avvicinandosi e chinandosi su di lui.
«Voi conoscete
questo folle?» chiesi spaventato.
«Ma quale folle e
folle! Questo è l’assistente di cui ti parlavo!» affermò Flavio.
«Il tuo assistente
è un aspirante omicida?»
«Certo che no! Ha
solo un carattere…particolare» disse Bianca. Per poi continuare con «portiamolo
in cucina e diamogli dell’acqua.»
Sollevammo di peso
l’uomo, o meglio, Sergio e lo portammo in cucina adagiandolo sul divanetto.
Bianca gli dette
dell’acqua. Pian piano riprendeva conoscenza. Ricordo che la prima parola che disse
fu:
«Ahia!». Dopo aver
sbattuto più volte gli occhi, presumibilmente appannati, continuò con «cosa
succede? Chi siete voi? Signor Moggelli! Bianca!» poi si girò verso di me. «Ci
sei ancora tu, cretino infame! Allora siamo in paradiso! Siamo tutti morti!
Ma-ma come fai anche tu ad essere in paradiso? Tu sei un assassino!» disse
tirandomi per la manica della maglietta e scuotendomi.
«Sergio…» tentò di
iniziare Flavio.
«Aspetti signor
Moggelli!»
«Sergio!» dicemmo
insieme.
«Questo non è il
paradiso, sei a casa nostra. E il tuo “assassino” in realtà è quel ragazzo che
è arrivato qui per il PSD. Ricordi? Il progetto ministeriale dei detective?» lo
calmò Bianca.
Guardò me con
un’espressione mista tra disprezzo e molto, molto dubbio.
«Tu?»
«Io»
«Quindi tu sei quello
del ministero?»
«Già»
Cercò di alzarsi.
Lo aiutai. Si mise di fronte a me e con aria incerta ed ancora barcollante mi
tese la mano.
«Sergio Di Verna,
assistente del detective Moggelli»
«Molto piacere»
Non feci in tempo
a sorridergli che svenne di nuovo. Quando si risvegliò era ora di cena, aveva
una vistosa benda alla testa dovuto al fatto di essere stato colpito in pieno
da un vaso di vetro, ed un aria molto evanescente.
Andrea lo svegliò
dolcemente. Lo invitò a sedersi e una volta fatto il tutto, guardò ancora me.
«Quindi tu, sei
quello del ministero»
«Sì»
«Tu?»
«Sì. Bianca, forse
è meglio farlo dormire. Mi sembra ancora stordito dalla botta»
«Ma cosa dici!
Guarda com’è pimpante!» sussurrò Flavio dandogli una violenta pacca sulla
spalla.
Sergio sobbalzò.
Poi prese parola, e dopo aver bevuto un sorso d’acqua fece cenno con la mano di
pazientare un momento.
«Senti scusami per
prima amico. Non avevo immaginato che tu fossi il ragazzo che…»
«Tutto passato,
tranquillo» lo rassicurai.
«No, no davvero.
Perdonami. Il fatto è che sapendo che questa fosse la casa di Bianca e
famiglia, ho pensato che tu fossi un ladro o peggio un assassino.»
«Sì, sì capisco. Allora
tu sei il ragazzo che si occupa di mettere in ordine pratiche e cose varie?»
«Esatto. E tu se i…
aspetta come ti chiami? Non dirmelo. Alex Medele … Alex Gedele…»
«Alex Fedele»
dissi ridendo.
«Giusto. Scusami
ancora Alex. E chi è quel bimbetto così adorabile?»
«Mi chiamo Andrea,
sono il fratello di Alex» disse ad alta voce.
La porta si aprì e
la voce di Fabio risuonò nell’aria.
«Sono tornato
papà.»
«Sei in ritardo
citrullo!» lo rimproverò il padre.
«Lo so, ma…»
entrando nella cucina vide Sergio. «Ohilà! Sergio è tornato!». I due si
abbracciarono. Davvero una bella scena.
«Allora come te la
passi?» chiese Sergio
«Non c’è male.
Come ti ho detto, ho cambiato città. Sono tornato a casa. A proposito. Cos’hai
fatto alla testa?»
«Oh, è una lunga
storia .Comunque hai fatto bene a
tornare. Davvero»
«Tanto sono io»
interruppe Flavio con fare sarcastico «che pago alla fine del mese».
Quella sera non
finimmo la cena. Il telefonò squillò. Non quello di casa, quello dell’ufficio.
Flavio scattò in
piedi come il migliore dei caporali. Lo sentimmo dire solo “Detective Moggelli,
parli pure!”. Poi chiuse la porta e si lanciò nell’interpretazione del
detective modello.
«Eh sì. Sempre
uguale il detective! E’ proprio un eroe!» sospirò Sergio.
Guardai con
perplessità Bianca. Lei mi fece uno sguardo ancora più stranito e deglutendo un
boccone disse «Ehm…non lo sai? Sergio è il fan numero uno di mio padre! Conosce
a memoria tutte le sue imprese da poliziotto e da ispettore»
Pensai un’unica
cosa. Che quel ragazzo aveva dei gusti davvero, davvero strani. Non avrei mai
osato chiedergli le sue preferenze in fatto di donne. Probabilmente ne sarei
rimasto inorridito. Mi limitai a sorridergli.
Flavio entrò dalla
porta abbottonandosi i bottoni della camicia. Abbassò lo sguardo, poi mi guardò
profondamente.
«Ragazzo, abbiamo
un caso! Muoviti e vieni con me!»
«Un caso? Chi è
morto?»
«Ancora nessuno.
Si tratta di una sorta di sorveglianza speciale. Poi ti spiegheranno meglio»
Presi la borsa a
tracollo seguii in salotto Flavio.
«Posso venire
anch’io?» la voce di Sergio abile e sprezzante.
«Ecco io… » sussurrò Flavio.
«La prego signor
Moggelli!»
«E dai, fallo
venire, guarda come te lo sta chiedendo ,diamine! » affermai.
«Ok.» disse
rassegnato.
«Uao! Vado a
prendere le mie cose di sopra. Aspettatemi in macchina»
Intanto io e il
mio presunto mentore ci stavamo dirigendo verso l’auto. Una volta entrati e
accomodatoci mi disse che non era stata propriamente una buona idea far venire
Sergio con noi.
«Sai ragazzo, a
volte si lascia trasportare dalle ali dell’entusiasmo»
«Ho visto»
«Allora rispondi.
Secondo te uno che si affida al novanta percento cuore e al dieci percento
cervello può venire su una scena di un delitto?»
«Be’…può essere
che sia cambiato con il tempo»
«Quindi secondo te
in circa tre settimane che è stato via è cambiato. Baggianate, sono solo
baggianate!»
Intanto il nostro
“nuovo collaboratore” era appena entrato in macchina. Ricordo che il viaggio in
macchina fu abbastanza piacevole. Sergio portò un cd dei Drowning Pool. Non era
propriamente il tipo di musica che ascoltavo solitamente, ma sicuramente era
una buona melodia di caricamento.
CAPITOLO
III – Je parle français
Arrivammo davanti
ad una residenza abbastanza umile ed inumidita dall’ambiente circa quindici
minuti dopo. Eravamo leggermente usciti da Torino. Eravamo diciamo, sulla via
che va verso la campagna. Prima di uscire dalla macchina dissi a Flavio:
«A proposito. Non
mi hai ancora parlato di cosa si tratta»
«Oh, è vero.
Ascolta. Il cliente è un pittore famoso a livello locale. Ha dipinto un quadro
che esporrà nella mostra di domattina. Il pittore dice di aver ricevuto varie
minacce telefoniche. E per questo ha chiesto una sorveglianza speciale sia a
lui stesso che al quadro fino a domattina alle otto.»
«Un maniaco, non è
vero?»
«Chi può dirlo?»
Davanti a quel
cancello di ferro ossidato, chiunque avrebbe giurato che, più che una residenza
di un artista si trattasse di quella di un mago o roba simile. Non so, ma
l’abitazione aveva un non so che di gotico. Poco in stile con quello che avevo
immaginato quando Flavio mi aveva parlato di arte. Non che mi aspettassi chissà
che, ma senza dubbio avevo le mie perplessità.
Sergio si prese la
briga di suonare il citofono. Rispose una voce femminile, probabilmente sulla
quarantina.
«Desiderate?»
«Sono il detective
Flavio Moggelli dell’agenzia. Ci avete chiamati poco fa, ricorda?»
«Oh certo signor
Moggelli. Aspetti, le apro»
Il cancello emise
un suono a scatto. Entrati nel giardino, ci accorgemmo di come fosse tenuto
male. C’erano sterpaglie ovunque, i cespugli erano molto poco curati e cosa
dire delle buche sul suolo? Probabilmente era zona di talpe. Ma insomma,
esistono i disinfestatori a questo mondo. La cosa certa è che se dipingevano
come si prendevano cura del giardino allora potevamo star tranquilli che quel
quadro non l’avrebbe rubato proprio nessuno.
Sulla soglia del
portoncino color scarlatto acceso, una donna, probabilmente quella che ci aveva
aperti il cancelletto, ci attendeva impaziente. Come avevo intuito vocalmente,
aveva un’età compresa tra i trentacinque ed i quarant’anni. I capelli castani
mossi le cadevano sulle spalle, mentre gli occhiali le contornavano ottimamente
gli occhi color smeraldo. Non c’è che dire. Una bellissima donna.
«Prego entrate»
disse sorridendo ad ognuno di noi. «Mi scuso per il giardino, ma non ho avuto
tempo di chiamare giardiniere e quant’altro. Sono desolata. Mi chiamo Penelope
Glocci. Ma tutti mi chiamano “Signora Gherardi”»
«Ah! Lei è dunque
la moglie del famosissimo pittore Jean Louis Gherardi? Onorato di conoscerla.
Per quanto riguarda il giardino … mi creda … c’è di peggio a questo mondo»
l’ironia tagliente di Flavio, che smorzò un mezzo sorriso alla donna.
Ci fu un momento
di silenzio. «Comunque» prese parola Flavio, «questi due ragazzi sono due miei
collaboratori. Quello a destra si chiama Alex ed è anch’esso un detective,
anche se non ci faccia troppo caso, è ancora un novellino» Gentile come al
solito non è vero?
«Quello a sinistra
mi aiuta con le pratiche e le parti burocratiche dei casi»
Salutammo in modo
educato con una stretta di mano. Poi la signora cominciò a camminare indicando
di seguirci.
«Non voglio farvi
perdere tempo, vi porto nello studio di mio marito.» Attraversammo la hall e ci
dirigemmo verso un lungo corridoio. Oltrepassammo tre porte sul versante
sinistro. Poi la donna, bussò alla porta e vide cosa avveniva in quella stanza
da uno speciale spioncino.
«Mi dica» le dissi
iniziando la conversazione in modo estremamente pacato.«Come mai è l’unica
porta ad avere uno spioncino?»
«Oh be’. Mio
marito è un vecchio fissato!» disse in modo scherzoso.
«Guarda che ti ho
sentito.» disse un uomo sulla sessantina aprendo la porta e carezzando Penelope
sui capelli color castani.
«Ma comunque»
continuò «non mi offendo. Essere eccentrici fa parte dei grandi artisti. Non è
vero garçon?»
«Ehm … si … certo».
Flavio mi spintonò
all’indietro fulminandomi con uno sguardo. Ok, mi aveva ripetuto tante volte
che non era mio compito fare domande. Spettava a lui. Io dovevo solo seguire le
indagini cercando di apprendere il più possibile dai suoi metodi investigativi.
Poi quando me lo chiedeva lui dovevo trarre una conclusione per verificare le
mie doti investigative. Ma non riuscivo a stare fermo. Non che contestassi
Flavio, per carità. Aveva fatto la sua carriera ed aveva un discreto senso
dell’intuito, ma parliamoci chiaro. Spesso aveva un po’ il metodo confuso.
Girovagava in giro per la scena del crimine, ma, forse per insicurezza, forse
per eccessiva minuziosità, non arrivava ad una conclusione in modo repentino.
Insomma, se a Holmes bastavano tre minuti per risolvere un caso, a Flavio ne
servivano trenta. Capite cosa intendo?
«Sono Flavio
Moggelli signor Gherardi. Onoratissimo.» disse porgendogli la mano, che venne
caldamente stretta dall’artista.
«Qui sont ces deux
gars qui sont sur le côté? Peut-être ses enfants?»
«Eh? Cosa?»
La signora scoppiò
in una fragorosa risata. «Oh, dovete scusarlo! Mio marito, come capirete dal
suo nome di battesimo, ha chiare origini marsigliesi ed ama introdurre frasi in
francese nel suo interloquire. E’ solo una delle sue tante manie, come la
collezione di fazzoletti di stoffa provenienti dalla Finlandia.»
«Comunque Flavio,
ti ha chiesto chi siamo noi due. La frase letterale è: “E chi sono questo due
ragazzi che le stanno dietro? Sono forse i suoi figli?»
«Très, très bon!»
si compiacque Ghirardi. «Tu hai studiato francese?»
«Si, a scuola.»
«Oh be’.» disse
Flavio «Comunque non sono i miei figli. Sono due miei assistenti, chiamiamoli
così.»
Ghirardi ci fece
entrare repentinamente nel suo studio. Sua moglie ci seguì a ruota.
«L’ho convocata,
detective Moggelli, perché come le ho spiegato al telefono, devo assolutamente
proteggere il mio ultimo capolavoro».
«Di cosa si
tratta?».
Ghirardi chiamò a
sé un ragazzo sui vent’anni. Doveva essere poco più grande di me. Probabilmente
gli faceva da garzone, da assistente.
«Manuel, va a prendere
la tela per favore. Mostriamola ai signori.»
Il ragazzo si
allontanò per circa cinque minuti. Era ben alto. Sfiorava il metro e novanta.
Aveva i capelli castani e gli occhi dello stesso colore. Il fisico era
indubbiamente scolpito in palestra. Non era un fascio di muscoli, ma aveva le
spalle di chi, lavorava con gli attrezzi.
Il ragazzo entrò
di scatto nella porta, e ci mostrò una tela coperta da uno straccio bianco.
Dispose, dunque, la tela su un cavalletto in finissimo legno pregiato.
«Scopri pure, Manuel»
affermò con fierezza Gherardi.
Il ragazzo eseguì.
Non mi sono mai inteso di arte. Né avevo mai amato studiarla. Ma devo dire che
quel Gherardi era davvero bravo nel dipingere. Il quadro raffigurava uno
stupendo paesaggio marino al tramonto. Ma il pittore aveva cercato di non
cadere nella banalità.
I colori forti
come l’arancione usato per il sole e per i riflessi sulle acque del mare,
contrastavano come botte violente di un auto sulla carrozzeria, con i delicati
e freddi colori dei fiori primaverili disposti in primo piano a destra.
Insomma, ragazzi. Era davvero una favola. Un gioiellino di arte locale.
«Vi piace?» chiese
sorridendo.
«Altroché! E’
magnifico!» disse urlando Sergio. Fino ad allora non aveva proferito parola.
«Oh-Oh! Sono
contento che vi piaccia!»
«Come si intitola
signor Gherardi?» chiesi ansioso.
«Ero molto incerto
sul nome. Alla fine ho deciso di dargli il nome di “Acqua rossa”.»
«Nome più che
azzeccato direi. Complimenti davvero.»
«Grazie mille»
«Be’ signor
Gherardi. Veniamo al momento della spiegazione del nostro incarico. Cosa
dovremmo fare?»
«Semplicemente
proteggere il quadro, dormendo una notte in questa casa.»
«Quindi, mi faccia
capire. Lei ci ha assunti per dormire una notte qui e sorvegliare il quadro?»
«Esattamente. E vi
pagherò bene per questo»
«Quanto bene?»
Flavio aveva la bava alla bocca. Ah, venalità!
«Come le ho detto
al telefono, se il quadro arriverà sano e salva alla mostra di domani alle
otto, lei avrà diecimila euro in contanti.»
«Scusi»
interruppi, forse maleducatamente. «Perché lo fa?»
«Cosa intendi dire
ragazzino?»
«Dico … perché lo
fa? Perché chiama gente come noi per sorvegliare un quadro? Perché ci paga
diecimila euro per un compito così semplice?»
«Be’ se il signor
Gherardi vuole pagarmi così tanto, evidentemente ne ha ben donde.!» disse
Flavio. Per poi aggiungere a denti stretti «chiudi la bocca.»
«Vedi ragazzino»
prese parola Gherardi. «L’arte è come un figlio . Devi curarlo, mantenerlo ogni
giorno della tua vita. Devi essere il suo punto di riferimento. E non posso
correre il rischio che mio figlio sia rapito, non credi?» disse in aria
provocatoria.
«No di certo … »
dissi perplesso.
Doveva tenerci
proprio tanto a quel piccolo capolavoro.
«Allora siamo
d’accordo mes enquêteurs?»
«Ehm…Oui, Oui»
rispose farneticando qualcosa alla fine Flavio. Le lingue non erano il suo
forte.
«Voi starete qui
stanotte. Vi accomoderete al piano di sopra. Ho già fatto preparare le vostre
stanze. Mi raccomando, sempre all’erta!»
«Stia tranquillo
signor Gherardi» interruppe Sergio. «Con noi può stare tranquillo!» disse in
tono trionfante suscitando qualche sguardo di perplessità.
Nel frattempo,
notai che Manuel, assistente di studio dell’artista se ne stava spesso in
disparte. Non c’era che dire. A forza di lavorare a contatto con gli artisti si
diventava bizzarri. Il ragazzo se ne stava a riordinare i colori, a coprire le
tele e a fare tutti quei lavori di garzone.
Tentai di legare
con lui. Non per un motivo in particolare, ma perché quando ti assumono è
meglio sapere un poco di tutti. Mi avvicinai ad un vecchio dipinto che aveva
l’aria di stare lì da un po’. Flavio e Sergio prendevano ulteriori dettagli
sull’incarico.
«Bello.» dissi
rivolgendomi a lui. «Assomiglia a quel quadro, quello famoso … come si chiama?
Ah si, “Terrazza del caffè la sera ad Ariès”. Mi pare fosse di…»
«Era di Monèt.»
«Sei sicuro?»
«Certo. Ho
studiato arte.»
«Capisco.»
Ero perplesso. Ma
non vi dirò adesso il perché.
Prendemmo un
caffè. Parlammo con Gherardi e sua
moglie, mentre Manuel era rimasto nello studio a riordinare gli attrezzi del
giorno dopo per la mostra. Voi non ci crederete, ma mi sorbì quasi due ore di
discorsi sull’arte in generale, non solo pittura. Svariò anche sull’architettura.
Disse che il suo stile preferito era il barocco, che apprezzava l’arte
orientale molto più di quella occidentale. Insomma, per chi come me, non ama
questo genere di cose, fu un vero strazio! Forse avrei dovuto fare un colpo di
telefono a mio fratello Stefano. D’altronde studiava architettura a Roma.
Quindi si sarebbe trovato a suo agio.
Verso le undici
della sera decidemmo di coricarci. La signora Gherardi ci portò di sopra.
Furono affidate ad ognuno di noi tre camere differenti. Non vidi quelle degli
altri, ma presumibilmente erano simili alla mia. Molto piccola, pareti
ricoperte da polverosa ed obsoleta carta da parati, letto ad una piazza e
scrittoio vecchio stile. Sembrava di essere tornati indietro di cinquant’anni.
Chissà se avrebbero definito arte anche questo?
La notte passò
tranquilla. La campagna torinese non aveva propriamente il fascino del
milleottocento che l’aveva resa famosa, ma si stava bene. La leggera frescura
garantiva un clima abbastanza inusuale per l’autunno. Si stava bene con le
finestre chiuse e le coperte. E pensare che in città sembrava ancora che ci
fosse uno stralcio di estate passeggera. L’aria pura fremeva le morbidi erbe
trascurate del giardino di casa Gherardi. Il silenzio la faceva da padrone. Il
rumore aveva la ghisa nei muscoli. Tutto taceva ed era francamente magico.
Chissà come sarebbe piaciuto ad Andrea e Bianca. Mio fratello amava la
tranquillità. Per essere un bimbo di cinque anni si comportava già
autonomamente. Doveva andare a scuola? Si preparava lo zainetto con
l’occorrente da solo. Doveva fare i compiti? Bene, li faceva. E subito, dopo
pranzo, senza nessuna esitazione. Bianca la conoscevo ormai da un po’. La
rivelazione che la signora Moggelli fosse morta mi aveva sconvolta e non ero
riuscito a dormire per tre o quattro notti. Forse, anzi, rettifico: Sicuramente
non erano affari miei. Ma dovevo sapere di più. Insomma, ero ospite di una
famiglia nella quale serbava un segreto così grande e oserei dire importante.
Forse sarebbe stato meglio parlarne. Anche per evitare fraintendimenti futuri.
A Bianca sarebbe piaciuta la campagna. Ma a chi non piaceva la campagna? Solo
gli stupidi potevano non apprezzare quella timida quiete che sfociava in ogni
tuo gemito di piacere per una carezza, per un sonno profondo, per una qualsiasi
sensazione che ti facesse sentire bene.
Non ne fui tanto
sicuro inizialmente. Ma mi sembrava che la quiete fosse stata rotta da qualcosa
o da qualcuno. Chissà. Aprì gli occhi nel sonno e vidi solo nero intorno a me.
Provai ad indirizzare la mia mano sull’interruttore della luce, ma c’era stato
un evidente blackout. Il blackout non faceva rumore. Lo facevano di più i
pensieri che ognuno di noi può covare dentro sé.
Poi un urlo, due,
tre, quattro. Il tonfo di una persona lasciatasi andare. Uscì a dare
un’occhiata, ma non vedevo assolutamente nulla. Più buio dico e più buio era.
Andai a sbattere contro Sergio, che come al solito diede fuori di testa troppo
prematuramente.
«Il ladro! Il
ladro!» cominciò ad urlare. Fortunatamente venne la luce e ci ritrovammo
entrambi a terra, uno di fronte all’altro a gambe incrociate, con un mio
sguardo pari a quello di un comico di cabarèt, misto di diffidenza e lezioni da
impartire.
«Falso allarme»
disse in tono trionfante. Flavio era già fuori dalla porta. Impugnava la sua
pistola, una Glock 21, vecchio stile, ma sempre potente. Scivolammo nei
corridoi, quatti, quatti, per paura di
essere visti o sentiti dal nostro speciale “enforcer”. Ma le urla che avevamo
sentito erano della signora. Scesi al piano di sotto, Flavio cominciò a tastare
il terreno.
«Signora! Signora
mi sente? Risponda se sta bene! Signora!»
Non potevo stare
lì ad aspettare che rispondesse, né che tutti aspettassero un passo falso del
probabile ladro. Così andai di corsa nel corridoio dal quale provenivano le
urla. Trovai la signora Gherardi pallidissima, sul punto di svenire, in preda a
papabili crisi nervose. Flavio mi ricoprì di insulti che per decenza non
includo nel racconto. Vi dico che le cose più carine erano “idiota” e “cretino”.
Trovai la donna
con la testa tra le mani. Piangeva come un’ossessa ed alla mia domanda più che
lecita di spiegarmi cosa fosse successo si limitò a puntare un dito contro lo
spioncino.
Non avrei mai
voluto guardare da lì. La sala da studio del signor Gherardi era in un lago di
sangue. Il pavimento pullulava di tracce ematiche e il corpo del pittore era
steso proprio lì, con la testa mozzata. Uno spettacolo orribile. Flavio arrivò
sulla scena, mi scansò. Guardò la signora e immediatamente disse:
«Dobbiamo entrare
dannazione! Signora, ha un duplicato di questa chiave?»
Non rispose.
Riformulammo la domanda. Non rispose ancora. Cominciai allora a prendere
spallate la porta.
«Cosa diamine stai
facendo!» urlò Flavio
«Se aspettiamo che
ce lo dice lei facciamo notte. Non vedi che è troppo sconvolta? Aiutami a buttare
già la porta!»
Acconsentì anche
se, si vedeva, contro la sua volontà. Dopo tre o quattro spallate davvero molto
potenti, la porta cadde giù e di fronte a noi si ripeteva lo stesso spettacolo
macabro di poco fa.
Mai vista una cosa
del genere. Ve lo posso assicurare. Solo una mente malata poteva uccidere una
persona. Ma una altrettanto malata poteva ucciderne una in quella maniera così
brutale.
Avvicinatosi al
corpo e tastato le vene del polso, anch’esse insanguinate, Flavio diede il
triste referto, ordinando poi a Sergio di chiamare la polizia.
Nemmeno a dirlo,
arrivò Ducato. La squadra omicidi era come noto, affidata a lui. Dall’aspetto
sembrava non fosse in servizio quella notte. I capelli erano mal pettinati, la
giacca stropicciata, la camicia sbottonata, segno che fosse stato preso di
sorpresa.
«Allora! Cosa
succede qui?»
«Ispettore Ducato.
Venga,le spiego tutto. Tu intanto Alex, cerca indizi e tu Sergio assisti la
povera signora.» disse Flavio.
Apparentemente la
scena del crimine non presentava nessuna anomalia. Il corpo, ormai tumefatto e
tranciato dal collo in su, non presentava nessun segno di forzatura, né di
colluttazione. Le mani della vittima sembravano in posizione normale. Insomma,
sembrava che ad agire fosse stato un fantasma. Nessuna impronta, nessuna strana
circostanza. Sembrava tutto così perfetto. Ma nella vita la perfezione non
esiste. Questo è un dato di fatto.
Al momento
dell’omicidio la porta era chiusa. E la cosa più strana è che la serratura
poteva essere inserita solo dall’interno. Un caso apparentemente senza
soluzione. Come aveva fatto l’omicida ad entrare? E soprattutto come aveva
fatto ad uscire dalla porta e poi a richiuderla pur stando fuori?. Insomma. Un
vero mistero.
«Trovato niente
Alex?» bisbigliò Flavio.
«Ancora nulla.
Apparentemente sembra un omicidio della camera chiusa.»
«Da cosa lo
deduci?»
«Non vedi la
serratura della porta? Indica che si può chiudere solo dall’interno.
L’assassino deve essere entrato nella stanza e aver commesso il delitto. Ma la
cosa più strana è: Come ha fatto ad uscire fuori e a richiudere la stanza?»
«Già. Un bel
mistero»
«Flavio!» urlò
Ducato. «Ho mandato Novato a ispezionare intorno all’abitazione. Forse il
signor Gherardi ha subìto un attacco esterno.»
«Non credo
ispettore.» interruppi. «La porta, come ho detto, si chiude solo dall’interno e
può essere aperta solo dall’interno. Ciò significa che forse la vittima ha
aperto al suo assassino. Inoltre, se fosse penetrato qualcuno di estraneo in
casa, non crede che avrebbe attirato l’attenzione al piano di sopra
dov’eravamo, io, Flavio e Sergio? Senza contare la signora e Manuel. No, non
può essere.»
L’ispettore fece
una faccia mista tra sorpresa e sfiducia. Poi si avvicinò a Flavio e bisbigliò,
cercando di non farsi sentire.
«Fa sempre così?»
«Già» disse in
tono disturbato.
«Ergo» continuai
«che abbiamo già due sospettati. La signora Gherardi e Manuel!»
CAPITOLO
IV – Chi è l’assassino?
Entrambi erano
dietro di me. La signora si era appena ripresa.
«Come ti permetti
ragazzino?»
«Signora, diffido di
tutti e di nessuno. Non la sto incolpando»
«Ma stai
sospettando di me!»
«Ascolti» dissi
sfoderando il mio sorriso migliore. «In questa casa non è né entrato, né uscito
nessuno. Le uniche persone che avrebbero potuto uccidere suo marito sono lei e
naturalmente Manuel.»
«Io ho un alibi»
disse il ragazzo con aria malinconica.
Ducato gli si
avvicinò e lo incitò a riferirglielo.
«Be’, ispettore …
io sono stato in camera mia fino per un po’. Poi sono sceso in cucina a
prendere un po’ di caffè, ma purtroppo ho sporcato il pigiama.»
«Quindi, la
macchia sarebbe il suo alibi?»
«Esattamente. E’
la prova che sono stato in cucina al momento del delitto. Quando ho sentito le
grida della signora sono stato il primo ad arrivare.»
«Confermi Flavio?»
«Confermo. In
effetti il ragazzo era già qui al momento, ma nessuno lo ha notato perché
comunque è un tipo abbastanza silenzioso.»
«E lei signora?»
domandò Ducato alla donna.
«Io ero in camera
mia qui di fianco. Ma non ho sentito nulla.»
«Ispettore scusi.
Possiamo vedere il pigiama del ragazzo? Sicuramente, era quello il tipo di
indumento che indossava» interruppi.
«Giusto. Ci porti
il pigiama.»
«Che cos’hai in
mente?» disse Flavio.
«Aspetta e vedrai»
Intanto l’agente
Novato aveva terminato il giro di ispezione e aveva portato la tanto attesa
verità sui fatti: nessuno si era introdotto in casa.
Il pigiama fu
portato da Manuel in persona che lo porse a un uomo della scientifica.
Quest’ultimo cominciò ad esaminarlo in un angolo della casa. Andai vicino a
lui.
«Mi scusi, trova
qualcosa di strano?».
«Non mi pare … la
macchia sembra naturale».
Poi notai un
piccolo dettaglio. «Ha notato che ci sono peli del pigiama tirati verso
l’alto?».
«Sì … è come se fossero stati strofinati. Forse si
è macchiato ed ha tentato di asciugare la macchia, non credi?». Non ricordo le
mie sensazioni dell’epoca. Ma ebbi un flashback. Le parole dell’agente della
scientifica, mi colpirono ed ebbi un’idea. Strappai letteralmente il pigiama
dalle mani dell’agente, che mi rincorse per pochi metri. Era vero. Aveva una
macchia di caffè sulla gamba sinistra. Andai in cucina, stesi il pantalone sul
tavolo della cucina e mentre lo ispezionai trovai finalmente ciò che cercava.
L’alibi dell’uomo non stava in piedi. Quella macchia non aveva nulla di
naturale.
«Dammi il pigiama
ragazzo!» disse inquietato l’agente.
«Mi scusi … è che avevo avuto un ‘idea … ».
«Ehi, cosa fai»
disse Sergio entrando in cucina. «Il signor Moggelli mi ha detto di volerti
parlare».
«Senti, Sergio.
Posso chiederti un favore?»
«Certo, chiedi
pure. E’ il minimo dopo l’aggressione di oggi pomeriggio»
«Bene. Allora va
da Manuel e chiedigli chi ha dipinto il ritratto “Mary Ann”. Chiaro?»
«Perché?» chiese
stupito?
«Tu fallo e basta.
Dì al signor Moggelli che arrivo tra pochi minuti.»
«Ok … » disse in modo
stupito.
Uscii fuori dalla
cucina e domandai alla signora Gherardi un particolare che avevo tralasciato.
«Signora. Mi dica.
Da quanto tempo Manuel lavorava per suo marito?»
«Erano circa
due-tre mesi.»
«Capisco.
Relativamente poco tempo. Non crede?»
«Sì … ma cosa sta
cercando di dirmi?»
«Oh, non
fraintenda. Nulla. Sto solo cercando di fare il mio lavoro.»
Andai di nuovo
nella stanza del delitto. Trovai Flavio chino ad osservare la serratura dalla
quale si apriva e chiudeva la porta.
«Davvero strano.»
«Cosa?» chiesi
candidamente.
«Il fatto che non
ci sia segno di forzatura.»
«Hai notato una
cosa?»
«Cosa?»
«Prova a far
scorrere tutta la serratura. Guarda.»
Flavio mi guardò
spazientito. Poi eseguì tenendo in mano un fazzoletto.
«Be’ ? Cosa c’è di
tanto strano?»
«Dannazione, non
vedi che tutta la serratura è coperta di sudiciume dovuto alla vecchiaia tranne
la parte iniziale?»
«Già! Hai ragione.
Bella mossa. Ma come può essere? Forse l’hanno pulita.»
«Non dire sciocchezze.
Se qualcuno dovesse pulire la serratura di una porta, la pulirebbe tutta. Non
credi?»
«In effetti … ma
allora … »
«Allora abbiamo a
che fare con un assassino distratto.»
«Vuoi dire … »
«Sì, ho una
teoria»
«Le teorie servono
in matematica … »
«Quelli sono i
teoremi … comunque ho anche delle prove inattaccabili. Stai tranquillo»
«Ah, certo. Un
diciottenne risolve un caso di omicidio e gioca a fare il piccolo detective e
io dovrei stare tranquillo? Lo sai che se sbagli, il mio onore e quello
dell’agenzia cadrà nel vuoto?»
«Cosa avrei dovuto
fare?»
«Forse attenerti
al PSD? Cioè seguire passo, passo le mie tecniche investigative e provare a
trovare una soluzione, non fare tutto da solo. Non ti pare?»
«Bah …
l’importante è che io impari il mestiere no? Anche dal punto di vista delle
pratiche. E su quel punto ci stai riuscendo benissimo.»
«Ah grazie. Ehi,
cosa stai cercando di dire? Che i miei metodi non ti piacciono?»
«Diciamo che non
mi aiutano. Preferisco fare da solo e chiedere a te solo piccole consulenze
quando serve.»
«Sei irrispettoso
lo sai? Te l’ho mai detto?»
«Sì, la prima
volta che ci siamo incontrati.»
«Appunto»
«Dai, non
prendertela! Il PDS consiste nel fatto che noi promesse del settore lavoriamo a
dei casi che vengono affidati a delle agenzie investigative che si mettono a
disposizione del ministero. Certo, dovrei seguire i tuoi metodi, ma se ho già i
miei, posso limitarmi a chiederti solo qualcosina. Dopotutto, è importante che
i casi vengano risolti, che io impari qualcosa, non che seguiamo le regole
passo, passo.»
«Le regole dicono
che a risolvere il caso dovresti essere tu, con la mia assistenza di almeno il
settanta percento.»
«Eh be’, allora?
Tu invece del settanta, me ne dai il sessanta! Ma basta che il caso sia risolto
no?»
«Già» disse poco
convinto.
In realtà, detto
tra noi, Flavio non mi era molto d’aiuto. Non mi era nemmeno d’intralcio. Aveva
molte qualità. Un ottimo poliziotto, incorruttibile, senso deduttivo discreto,
ma come detto, a volte si impantanava in situazioni. E, mi scusino dal
ministero, se io dovessi arrivare primo ad una soluzione, perché non chiudere
subito? Tanto con Flavio imparerò sicuramente qualcosa. Sia in ufficio, sia sul
campo. Ok, più in ufficio che sul campo. Ma avrei sicuramente imparato da lì a
quando l’esperienza sarebbe finita. Di certo non avevo come mentore un
incapace. Flavio era davvero impeccabile in certe situazioni. Aveva solo un po’
di difettucci qua e là, come il fatto di essere un po’ lento nel risolvere le
cose, ma per il resto era un ottimo detective. Diciamo che è un po’ lo stesso discorso
di quei cantanti che vanno ai reality show a gareggiare. Ce ne sono alcuni che
hanno una voce bellissima, eppure sono sotto la guida di un vocal coach che gli
insegna piccoli trucchetti per renderli più efficaci. Era il mio stesso
discorso. Avevo una buona capacità deduttiva, ma Flavio avrebbe sicuramente
recitato la sua parte nella mia formazione, se non sul campo, almeno dal punto
di vista dell’ufficio e del coordinamento dei lavori, che forse era la parte
più importante e più difficile da insegnare.
«Comunque, ho
risolto il caso» dissi. «Vuoi sentire la mia versione?»
«Certo. Ma attento
a non toppare.» disse ridendo.
Andai in
corridoio, mi appoggiai spalle al muro. Sergio mi riferì la risposta di Manuel
alla mia domanda. Non aveva studiato
quella parte di arte. Non si ricordava, il ragazzo.
«Be’ ispettore. La
smetta di fare domande. Probabilmente ho già risolto il caso.»
«Cosa? Dici
davvero?»
«Certo. Ascolti.
Ci troviamo di fronte ad un grande distrattone!»
La gente guardava
sbigottita.
«Un grande distrattone?
In cucina non c’era mica dell’alcol?»
«No, no. A parte
che sono quasi totalmente astemio. E poi, io non ho bevuto. Ho solo risolto il
caso d’omicidio del signor Gherardi.»
«Spiega tutto e
sii convincente»
«Come sempre
ispettore, come sempre. Sapete, quando io e Flavio abbiamo visto il cadavere,
la prima cosa che ci è venuta in mente è che non ci fosse nessuna anomalia
sulla scena del crimine. Nessuna forzatura, nessun segno di colluttazione.
Insomma, niente di niente. Ma. C’è un “ma”. Il nostro assassino ha adoperato
una maniera di uccidere veramente molto particolare. In più, deve sapere che,
seppur non ha lasciato tracce evidenti, ne ha dimenticate ben tre fondamentali.
Ma prima di tutto voglio spiegarvi come ha adoperato l’omicida. Dopo essere
arrivato di fronte alla porta dello studio, ha bussato e chiesto il permesso di
entrare. La vittima, essendo in buona fede e conoscendolo ha acconsentito.»
dissi portandomi le mani dietro la testa.
«Quindi?» chiese
la signora Gherardi.
«Quindi, mia cara
signora, una volta entrato, l’omicida ha approfittato della distrazione della
vittima per mozzargli il capo, senza alcuna pietà!»
«E l’assassino
sarebbe? Dicci chi ha ucciso mio marito!» urlò la signora Gherardi
strattonandomi.
«Ve lo dirà lui
stesso … vero Manuel? Lei deve confessare! E’ con le spalle al muro! E’ in
trappola! E’ incastrato!»
Lo sguardo del
ragazzo, fino ad allora tenue e poco caloroso, si fece immediatamente acceso e
pieno di ferocia. Cominciò ad urlare come un forsennato.
«Ma come ti permetti?
Non hai la minima idea di cosa stai affermando!» scalpitò urlando.
«Prima cosa, non
si permetta di urlare. C’è un cadavere di fronte a lei, porti rispetto e si
comporti con ritegno. Se ritiene sia opportuno difendersi lo faccia pure, ma
con l’educazione e il garbo che si addicono a questa spiacevole circostanza»
Non rispose,
continuò a guardarmi di fuoco.
«Sa, lei è stato
astuto, ma contemporaneamente molto distratto. Si è condannato praticamente da
solo. Cominciamo dal momento focale, cioè dall’omicidio. Ha chiesto al signor
Gherardi di entrare, teneva probabilmente l’arma dietro la schiena. Ha
approfittato della distrazione della vittima e l’ha barbaramente uccisa!
Dopodiché si è recato vicino alla porta, ha legato qualcosa al pomo del cardine,
cioè alla parte che si usa per far scorrere la serratura, e ha fatto passare
questo qualcosa nella fessura della porta adoperata da tutti come spioncino.
Non ha fatto altro che uscire e tirare l’altra estremità dei fazzoletti per
chiuder la porta anche dall’esterno.»
«I fazzoletti?»
disse Ducato.
«Sì, ispettore,
proprio così. La vittima aveva molte manie, come quella di collezionare
fazzoletti di stoffa molto delicati. Chi avrebbe immaginato che sarebbero
diventati il trucco con il quale sarebbe stato possibile farlo fuori?»
«Mi spieghi adesso
come avrei fatto a chiudere una porta con dei fazzoletti! Abbia il coraggio!»
«Semplicissimo.
Bastava usare il cervello. Guardi, non sono un’idiota. Lei ha legato uno con
l’altro i fazzoletti fino a formare una fune abbastanza lunga e sottile da
farla passare nello spioncino. Una volta fatto come ho detto prima, è uscito ed
ha tirato i fazzoletti verso sinistra, in modo che da dentro il pomo agisse
contro il cardine e facesse chiudere la serratura. Poi ha dato uno strattone
alla fune e ha sciolto il nodo che la teneva legata al pomo della serratura.»
«Non ha prove di
questa fantasia»
«Ah davvero?
Agente Novato. Per favore, osservi la serratura. Non il pomo, la vera e propria
serratura. E’ tutta macchiata di olio e ruggine, tranne la parte iniziale. Ergo
che prima di collegare la fune di fazzoletti al pomo avesse provato a
collegarla al cardine vero e proprio, cioè alla serratura. Non riuscendoci, ha
optato per il pomo. Ma ha dimenticato che la serratura era sporca. La sporcizia
ha macchiato anche i fazzoletti, che venendo legati al pomo hanno sicuramente
lasciato qualche traccia di ruggine. Controlli, io non l’ho fatto, ma sono
sicuro che ci siano delle macchie su quella parte della porta.»
«E’ vero
ispettore!» disse uno stupito ed estasiato Novato.
Flavio, in
silenzio fino a quel momento prese parola. «Tutto qui? Tutto ciò che hai
scoperto è questo?»
«No di certo
Flavio. Per quanto riguarda la macchia sul pigiama … chissà a quanto risale!»
«Non è possibile!»
disse la signora Gherardi.
«Oh, invece sì
signora. Quando ho portato la macchia in cucina, ho notato che era asciutta. Se
si fosse macchiato poco fa dovrebbe essere ancora fresca. Inoltre, quella
macchia odora di detergente, segno che è stata già lavata. Senza contare che la
parte dove c’è la macchia è usurata. Ciò significa che il pigiama è stato
lavato a mano dal signor Manuel che però non è riuscito a togliere nulla.»
«Non dica
sciocchezze investigatore da quattro soldi! » Manuel sbatté un pugno sul muro.
«Perché si arrabbia?
E’ nervoso? Comprensibile, le ho appena elencato nei minimi dettagli cosa ha
fatto. Ma non è finita qui. Mi dica la verità. Lei non è qui per l’arte vero? A
lei l’arte non interessa affatto! Non menta mi raccomando.»
«Cosa? Ecco
un’altra baggianata!Io vivo per l’arte!»
«Lei dovrebbe
vivere per la recitazione. Meriterebbe un oscar per come sta gestendo la cosa.
Può ingannare una platea, ma non la ragione.»
«Cosa vuoi dire
Alex?» chiese Ducato.
«Voglio dire,
ispettore, che il ragazzo di arte non sa un bel niente. Non l’ha studiata. Se
l’avesse fatto, saprebbe che “Terrazza del caffè la sera ad Ariès” l’ha dipinto
Van Gogh, non Monèt. Inoltre Sergio, vuoi dirmi che risposta ha dato alla mia
domanda?»
«Sergio, di cosa
sta parlando?» Flavio era letteralmente basito.
«Alex, mi ha
chiesto di domandare a Manuel chi avesse dipinto il ritratto “Mary Ann”. Io
l’ho fatto, ma lui ha risposto che non lo ricordava.»
«Non lo ricordava,
Flavio. Manuel, studente della facoltà di Arte, amante dei ritratti e della
pittura, non sapeva chi avesse composto un simile capolavoro! Capisci adesso?»
poi mi rivolsi al ragazzo «L’ha dipinto Robert Henri, corrente impressionismo.
Impari amico.» In questo momento non finirò mai di ringraziare quel mio
severissimo professore di arte alle medie.
«Non ricordo le
cose. Verissimo. E allora? Le basta questo per incolparmi?»
«No di certo.
Quindi lei afferma che non ha ucciso Gherardi?»
«Lo affermo
eccome!» disse convinto con gli occhi di sangue.
«Ok»
«Come ok?»
«Io le credo.»
«Ma allora tutta
questa confusione … per nulla!»
«Esatto»
CAPITOLO
V – Trionfa il bene
Descrivervi gli
sguardi di Flavio e di Ducato sarebbe riduttivo. Immaginate un folle omicida.
Mi guardavano così.
«Non posso
incolparla di qualcosa che non ha fatto Manuel, figuriamoci. Glielo chiedo per
l’ultima volta. Non ha ucciso lei con un’arma da taglio il signor Gherardi? Ne
è sicuro? Lo giura?»
Stufato ormai
dalla circostanza e sicuro di averla fatta franca, Manuel rispose quasi con
disprezzo alla mia domanda.
«Giuro di non aver
ucciso Jean Louis Gherardi con quell’ascia».
Seguì un momento
di silenzio.
«Ispettore, ha
sentito cosa ha detto? Ha detto “di non aver ucciso Jean Louis Gherardi con
quell’ascia”.»
«E allora?» chiese
Ducato.
«Allora ispettore.
L’arma del delitto non è mai stata nominata qui. E’ scritta solo nel referto
della polizia! Io ho parlato di arma da taglio! Come fa Manuel a sapere che si
tratta di un’ascia?»
«Giusto! Ragazzo,
lei ci deve delle spiegazioni!»
Il sudore
pervadeva ogni angolo del corpo del colpevole. Le mani tremavano, la lingua era
secca, come se non bevesse da anni. Era fritto.
«Mi dica signor
Manuel. Lei è arrivato sulla scena del delitto per primo. Scommetto che non ha
ancora buttato i fazzoletti non è vero? Li ha in tasca. Voleva sbarazzarsene
quando la polizia se ne sarebbe andata! Dica la verità!»gli intimai faccia a
faccia.
Non mi ascoltava
più. Crollò sbattendo le spalle vicino al muro.
«Hai vinto
ragazzino» disse estraendo I fazzoletti e facendoli cadere a terra.
«Perché l’hai
fatto? Perché? Mio marito aveva fiducia in te!» la signora Gherardi era un
fascio di nervi.
«Mi sono fatto
assumere spacciandomi per esperto di arte. Il signor Gherardi ha avuto una
relazione extraconiugale con mia sorella per un anno. Un giorno ci fu una
tremenda lite. Lui la picchiò selvaggiamente e l’abbandono. Lei fece in tempo a
scrivere una pagina di diario risalente alla questione. Lo faceva tutti i
giorni. Diceva che l’aiutava. La mattina dopo mia sorella morì per i troppi
pugni ricevuti al cranio. Non sapevamo a cosa fosse dovuto. Ma circa due
settimane dopo trovai il diario e capì tutto. Non potevo fargliela passare
liscia! Capisce ora detective?» disse strattonando la mia camicia e
appoggiandosi a me per alzarsi.
«Mi dispiace per
sua sorella Manuel, ma lei ha commesso un crimine e deve essere punito. Non
appena trovato le prove della colpevolezza del signor Gherardi lei avrebbe
dovuto portare quel diario alla polizia e sporgere denuncia. Ma lei ha
preferito agire per vendetta personale, sbagliando.»
«Il crimine non ha
“ma”, né “però”. Come ha detto Alex, doveva rivolgersi a noi. Stia sicuro che
il colpevole sarebbe stato condannato. Mi dica. Sua sorella sarebbe fiera di
ciò che fatto?» Ducato e le sue parole mentre ammanettava Manuel.
«Probabilmente no
ispettore. Ma se vuole saperlo non mi pento.»
«Un giorno lo
farà» disse Flavio. «Quando si compiono scelte sbagliate alla fine ci si pente
sempre. Lei ha un cuore come tutti Manuel. Un cuore capace di farsi rispettare.
E le assicuro che lo farà, un giorno lontano.»
Il criminale fu
arrestato e ammanettato. Un solerte Novato ci salutò e si mise alla guida del
cellulare della polizia. Eravamo sconcertati, ma non era una novità di fronte
ad un delitto.
«Dì un po’. Come
hai fatto a farlo confessare? Intendo, come sapevi che si sarebbe tradito?»
disse Sergio
«Oh, è stato
facile. Quando parlava con qualcuno aveva sempre gli occhi che guardavano in
basso, segno che stava dicendo bugie. Inoltre, considerando l’alto numero di
indizi da distratto che si è lasciato dietro, ho avuto l’intuizione che forse
si sarebbe tradito da solo. E per fortuna è stato così.»
«Capisco. Be’ sei
una forza!» disse con entusiasmo
«Ma così mi metti
in imbarazzo. E’ stata solo fortuna»
«Fortuna? Hai
ricostruito le cose minuziosamente!»
«E’ anche merito
del PSD e di Flavio. A proposito, cosa ne pensi?» dissi rivolgendomi a lui
«Avevo cominciato
a capire qualcosa dalla serratura. Probabilmente è da lì che è scattato
qualcosa. Tuttavia, devo ammettere che sei stato abbastanza in gamba. Ma non
montarti la testa, non sei nulla in confronto a
me!» disse con entusiasmo.
«Viva la modestia
… non è vero?»
«Cosa vorresti
dire?»
«Niente, niente.
Non farci caso.»
Sulla via di casa,
Sergio insisté per mettere ancora un cd dei Drowning Pool. Flavio tentennò, poi,
viste le richieste esasperanti del ragazzo, dovette cedere.
E così ritornammo
a casa, con la stessa colonna sonora con la quale ce n’eravamo andati. Andati
per proteggere un quadro, ritornati dopo aver condannato un mostro.
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