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sabato 10 settembre 2011

Alex Fedele: Un falso professionista (stagione 1; episodio 4)


UN FALSO PROFESSIONISTA




Note: New entry: Sergio Di Verna


PROLOGO: Quanto è bella l'arte? Tanto, non è vero? Ma se in un circolo vizioso di sguardi, armi a doppio taglio e poche, davvero poche facce fidate si mescolano ambizioni, fame di gloria e poca voglia di aspettare ...  l'arte lascia il posto ad un nuovo corso chiamato Orrore. Ma la distrazione a volte, può risultare fatale.




CAPITOLO I – Ma chi diavolo sei?

Non so perché, ma Flavio aveva sperimentato una passione per i sigari. Se ne stava a volte un paio d’ore nel suo studio a fumare continuamente, rendendolo una ciminiera. Era da poco che aveva quel vizietto. Probabilmente è vero il detto: “Tutti i grandi uomini hanno almeno un vizio”. Vero, ma per quanto mi sforzassi non vedevo un grande uomo all’orizzonte.
Spesso negli ultimi giorni Flavio se ne stava bello appollaiato sulla sua scrivania a fumare, guardare e riguardare tg e quiz televisivi e leggere vecchi quotidiani che parlavano delle vecchie imprese ormai andate. Definirlo comportamento depresso sarebbe stato usare un eufemismo.
Suo figlio era tornato da poco. Fabio era un ragazzo abbastanza tranquillo. Nelle prime mattine della sua permanenza si limitava ad uscire tranquillamente di casa, rientrare per pranzo e studiare per tutto il pomeriggio sui libri di medicina. Fabio andava abbastanza bene negli studi, ma non aveva la più che minima voglia ed era incentivato da sua sorella e da suo padre a dedicare almeno tre-quattro ore giornaliere all’università. Tuttavia mi aveva confessato che la medicina lo affascinava, ma che a volte avrebbe voluto viaggiare e non fermarsi mai. Sono solo sogni.
Ricordo bene quel pomeriggio d’autunno. Le foglie ingiallite perse dagli alberi dipingevano i viali di Torino di un arancio potente. Il cielo minacciava tempesta, anche se c’erano quelli sprazzi di luce che ti faceva sperare per un sole caldamente rivisitato in chiave nostalgica.
Suonò il campanello. Bianca era indaffarata con i compiti, Andrea era in camera sua a vedere i suoi programmi preferiti, mentre Flavio se ne stava nel suo studio a(parole sue) “esaminare alcune bollette un po’ troppo dispendiose”. In quanto a me, me ne stavo seduto sul divano e guardavo la tv anch’io. Mia madre aveva telefonato la sera prima e mi aveva continuamente ripetuto le stesse cose da mamma.
“Stai mangiando?”; “Come ti trovi dai Moggelli?”; “Se vuoi venire in Giappone, ho già pronta la stanza per te!”.
Insomma, una qualunque mamma farebbe quelle domande. In realtà era stata abbastanza tollerante con me. Mio fratello Stefano,dopo le superiori aveva proseguito la carriera scolastica iscrivendosi alla facoltà di architettura a Roma. Io avevo detto chiaramente a mia madre che prima di iscrivermi ad una qualunque università, avrei voluto provare cosa significasse tentare il grande salto nel grande sogno. Il grande salto era diventare professionista. Il grande sogno, quello di diventarlo facendo quello che ben mi piaceva. Il detective. Aveva rispettato questa scelta e l’ammiravo per questa, anche se a volte, con battutine a doppio taglio, mi faceva chiaramente capire cosa pensasse della mia situazione attuale.  Insomma, alla fine non ne potei più delle sue illazioni e scelsi, solo ed esclusivamente per zittire mia madre, la facoltà di Sociologia. Per lei potevo anche diventare un nuovo Holmes, una sorta di Poirot italiano, una frangia di Conan, ma nulla. Per lei l’istruzione era importante ed era di gran lunga la cosa che avrebbe dovuto accendere la fantasia dei giovani. Eravamo d’accordo però che non avrei cominciato nemmeno ad aprire il libro se prima non avessi provato a compiere il mio sogno. Non avevo proprio aperto i libri,davvero, nemmeno dal cellophane. Erano nuovi e se li avessi venduti, mi avrebbero dato più soldi di quelli che avevo speso per acquistarli. In più non ero mai andato alla sede della facoltà alla quale mi ero iscritto, e in più non avevo mai visitato il sito. In poche parole, l’iscrizione era una sorta di semaforo giallo verso mia madre, un modo per dire: “ehi, guarda che sono iscritto ad una facoltà”, ma attenzione, non avrei mai provato a studiare subito(avevo appena conseguito il diploma di ragioneria, indirizzo programmatore informatico), se prima non avessi coronato il mio sogno.
Andai ad aprire mentre mi facevo decine di film mentali, decine di monologhi interiori. La porta di mogano si spalancò. Lo sguardo dell’uomo di fronte a me si fece cordiale.
«Buongiorno!» mi disse sprezzante.
«Buongiorno a lei. In che cosa posso esserle utile?»
«Ehm…forse ho sbagliato indirizzo. Mi perdoni»
«Mi dica pure» lo incitai.
«No, no, è impossibile.»
«Ok,ma provi a dirmi cosa cerca, magari posso esserle utile in qualche modo»
«Cercavo il signor Moggelli, ma deve essersi trasferito.»
«No, è questa la casa mi dica»
«M-ma allora lei chi è? Un ladro! Un ladro! Un ladro!» urlò a squarciagola facendosi sentire da ogni membro del vicinato.
«Si calmi! Ma che ladro e ladro!» dissi cercando di rassicurarlo. Ma non mi ascoltò e urlò ancora più forte chiamando Flavio e Bianca. «Flavio! Biancaaa! C’è un ladro!» Poi ebbe un momento di smarrimento.
«Ah! Ho capito! Sei uno sporco, volgare assassino ed hai ucciso Bianca e Flavio eh? Ma vedi che ti farò!»
Così facendo estrasse un coltellino, simile ad un punteruolo e me lo puntò contro.
«Ma cosa diavolo sta facendo?» chiesi irritato.
«Io? Tu! Cosa stai facendo qui? Cosa hai fatto ai Moggelli? Li hai bruciati? Dimmi dove sono i cadaveri!»
«Ma quali cadaveri?» dissi cercando di giustificarmi.
Vi giuro che stava quasi per ferirmi. Mi aveva puntato contro un punteruolo ed avevo le spalle al muro. Poi, un sussulto. La voce più bella che avrei mai potuto sentire. Ok,non aveva un timbro femminile, ma quantomeno servì per salvarmi da una brutta situazione.
«Ma cosa sta succedendo qui dentro? Chi è lei? Si fermi!» Flavio era entrato nella stanza e prima che il misterioso uomo si potesse voltare gli lanciò un vaso di vetro alla testa colpendolo in pieno.
L’uomo cadde a terra. Era di altezza appena superiore alla mia, appena robusto. Aveva capelli neri pettinati verso il basso. I ciuffi lunghi sul davanti gli cadevano quasi sugli occhi. La barba nera, portata in modo discretamente lunga completava il tutto insieme a degli occhiali da vista senza dubbio modernissimi.
«Si può sapere cosa succede? Sto studiando!» si lamentò Bianca entrando nel salotto. I rumori e la dinamica del fatto attirarono anche Andrea.
«Bianca, che succede?» vedendo l’uomo disteso si riparò dietro le gambe della ragazza, per la cronaca più spaventata di lui.
«Cosa diamine hai fatto?» dissi a Flavio.
«Ti ho salvato la vita!»
«Ok. Ti ringrazio, ma l’hai tolta a qualcun altro!».
Mentre Flavio si avvicinava, vedevo la sua espressione cambiare radicalmente. Le sopracciglia si aggrottarono, il viso si deformò sotto il colpo delle espressioni di meraviglia.
«Ma questo è Sergio!» disse stupito togliendogli gli occhiali da sole.

CAPITOLO II – Sergio

«Sergio?» disse Bianca avvicinandosi e chinandosi su di lui.
«Voi conoscete questo folle?» chiesi spaventato.
«Ma quale folle e folle! Questo è l’assistente di cui ti parlavo!» affermò Flavio.
«Il tuo assistente è un aspirante omicida?»
«Certo che no! Ha solo un carattere…particolare» disse Bianca. Per poi continuare con «portiamolo in cucina e diamogli dell’acqua.»
Sollevammo di peso l’uomo, o meglio, Sergio e lo portammo in cucina adagiandolo sul divanetto.
Bianca gli dette dell’acqua. Pian piano riprendeva conoscenza. Ricordo che la prima parola che disse fu:
«Ahia!». Dopo aver sbattuto più volte gli occhi, presumibilmente appannati, continuò con «cosa succede? Chi siete voi? Signor Moggelli! Bianca!» poi si girò verso di me. «Ci sei ancora tu, cretino infame! Allora siamo in paradiso! Siamo tutti morti! Ma-ma come fai anche tu ad essere in paradiso? Tu sei un assassino!» disse tirandomi per la manica della maglietta e scuotendomi.
«Sergio…» tentò di iniziare Flavio.
«Aspetti signor Moggelli!»
«Sergio!» dicemmo insieme.
«Questo non è il paradiso, sei a casa nostra. E il tuo “assassino” in realtà è quel ragazzo che è arrivato qui per il PSD. Ricordi? Il progetto ministeriale dei detective?» lo calmò Bianca.
Guardò me con un’espressione mista tra disprezzo e molto, molto dubbio.
«Tu?»
«Io»
«Quindi tu sei quello del ministero?»
«Già»
Cercò di alzarsi. Lo aiutai. Si mise di fronte a me e con aria incerta ed ancora barcollante mi tese la mano.
«Sergio Di Verna, assistente del detective Moggelli»
«Molto piacere»
Non feci in tempo a sorridergli che svenne di nuovo. Quando si risvegliò era ora di cena, aveva una vistosa benda alla testa dovuto al fatto di essere stato colpito in pieno da un vaso di vetro, ed un aria molto evanescente.
Andrea lo svegliò dolcemente. Lo invitò a sedersi e una volta fatto il tutto, guardò ancora me.
«Quindi tu, sei quello del ministero»
«Sì»
«Tu?»
«Sì. Bianca, forse è meglio farlo dormire. Mi sembra ancora stordito dalla botta»
«Ma cosa dici! Guarda com’è pimpante!» sussurrò Flavio dandogli una violenta pacca sulla spalla.
Sergio sobbalzò. Poi prese parola, e dopo aver bevuto un sorso d’acqua fece cenno con la mano di pazientare un momento.
«Senti scusami per prima amico. Non avevo immaginato che tu fossi il ragazzo che…»
«Tutto passato, tranquillo» lo rassicurai.
«No, no davvero. Perdonami. Il fatto è che sapendo che questa fosse la casa di Bianca e famiglia, ho pensato che tu fossi un ladro o peggio un assassino.»
«Sì, sì capisco. Allora tu sei il ragazzo che si occupa di mettere in ordine pratiche e cose varie?»
«Esatto. E tu se i… aspetta come ti chiami? Non dirmelo. Alex Medele … Alex Gedele…»
«Alex Fedele» dissi ridendo.
«Giusto. Scusami ancora Alex. E chi è quel bimbetto così adorabile?»
«Mi chiamo Andrea, sono il fratello di Alex» disse ad alta voce.
La porta si aprì e la voce di Fabio risuonò nell’aria.
«Sono tornato papà.»
«Sei in ritardo citrullo!» lo rimproverò il padre.
«Lo so, ma…» entrando nella cucina vide Sergio. «Ohilà! Sergio è tornato!». I due si abbracciarono. Davvero una bella scena.
«Allora come te la passi?» chiese Sergio
«Non c’è male. Come ti ho detto, ho cambiato città. Sono tornato a casa. A proposito. Cos’hai fatto alla testa?»
«Oh, è una lunga storia .Comunque  hai fatto bene a tornare. Davvero»
«Tanto sono io» interruppe Flavio con fare sarcastico «che pago alla fine del mese».
Quella sera non finimmo la cena. Il telefonò squillò. Non quello di casa, quello dell’ufficio.
Flavio scattò in piedi come il migliore dei caporali. Lo sentimmo dire solo “Detective Moggelli, parli pure!”. Poi chiuse la porta e si lanciò nell’interpretazione del detective modello.
«Eh sì. Sempre uguale il detective! E’ proprio un eroe!» sospirò Sergio.
Guardai con perplessità Bianca. Lei mi fece uno sguardo ancora più stranito e deglutendo un boccone disse «Ehm…non lo sai? Sergio è il fan numero uno di mio padre! Conosce a memoria tutte le sue imprese da poliziotto e da ispettore»
Pensai un’unica cosa. Che quel ragazzo aveva dei gusti davvero, davvero strani. Non avrei mai osato chiedergli le sue preferenze in fatto di donne. Probabilmente ne sarei rimasto inorridito. Mi limitai a sorridergli.
Flavio entrò dalla porta abbottonandosi i bottoni della camicia. Abbassò lo sguardo, poi mi guardò profondamente.
«Ragazzo, abbiamo un caso! Muoviti e vieni con me!»
«Un caso? Chi è morto?»
«Ancora nessuno. Si tratta di una sorta di sorveglianza speciale. Poi ti spiegheranno meglio»
Presi la borsa a tracollo seguii in salotto Flavio.
«Posso venire anch’io?» la voce di Sergio abile e sprezzante.
«Ecco io…  » sussurrò Flavio.
«La prego signor Moggelli!»
«E dai, fallo venire, guarda come te lo sta chiedendo ,diamine! » affermai.
«Ok.» disse rassegnato.
«Uao! Vado a prendere le mie cose di sopra. Aspettatemi in macchina»
Intanto io e il mio presunto mentore ci stavamo dirigendo verso l’auto. Una volta entrati e accomodatoci mi disse che non era stata propriamente una buona idea far venire Sergio con noi.
«Sai ragazzo, a volte si lascia trasportare dalle ali dell’entusiasmo»
«Ho visto»
«Allora rispondi. Secondo te uno che si affida al novanta percento cuore e al dieci percento cervello può venire su una scena di un delitto?»
«Be’…può essere che sia cambiato con il tempo»
«Quindi secondo te in circa tre settimane che è stato via è cambiato. Baggianate, sono solo baggianate!»
Intanto il nostro “nuovo collaboratore” era appena entrato in macchina. Ricordo che il viaggio in macchina fu abbastanza piacevole. Sergio portò un cd dei Drowning Pool. Non era propriamente il tipo di musica che ascoltavo solitamente, ma sicuramente era una buona melodia di caricamento.


CAPITOLO III – Je parle français

Arrivammo davanti ad una residenza abbastanza umile ed inumidita dall’ambiente circa quindici minuti dopo. Eravamo leggermente usciti da Torino. Eravamo diciamo, sulla via che va verso la campagna. Prima di uscire dalla macchina dissi a Flavio:
«A proposito. Non mi hai ancora parlato di cosa si tratta»
«Oh, è vero. Ascolta. Il cliente è un pittore famoso a livello locale. Ha dipinto un quadro che esporrà nella mostra di domattina. Il pittore dice di aver ricevuto varie minacce telefoniche. E per questo ha chiesto una sorveglianza speciale sia a lui stesso che al quadro fino a domattina alle otto.»
«Un maniaco, non è vero?»
«Chi può dirlo?»
Davanti a quel cancello di ferro ossidato, chiunque avrebbe giurato che, più che una residenza di un artista si trattasse di quella di un mago o roba simile. Non so, ma l’abitazione aveva un non so che di gotico. Poco in stile con quello che avevo immaginato quando Flavio mi aveva parlato di arte. Non che mi aspettassi chissà che, ma senza dubbio avevo le mie perplessità.
Sergio si prese la briga di suonare il citofono. Rispose una voce femminile, probabilmente sulla quarantina.
«Desiderate?»
«Sono il detective Flavio Moggelli dell’agenzia. Ci avete chiamati poco fa, ricorda?»
«Oh certo signor Moggelli. Aspetti, le apro»
Il cancello emise un suono a scatto. Entrati nel giardino, ci accorgemmo di come fosse tenuto male. C’erano sterpaglie ovunque, i cespugli erano molto poco curati e cosa dire delle buche sul suolo? Probabilmente era zona di talpe. Ma insomma, esistono i disinfestatori a questo mondo. La cosa certa è che se dipingevano come si prendevano cura del giardino allora potevamo star tranquilli che quel quadro non l’avrebbe rubato proprio nessuno.
Sulla soglia del portoncino color scarlatto acceso, una donna, probabilmente quella che ci aveva aperti il cancelletto, ci attendeva impaziente. Come avevo intuito vocalmente, aveva un’età compresa tra i trentacinque ed i quarant’anni. I capelli castani mossi le cadevano sulle spalle, mentre gli occhiali le contornavano ottimamente gli occhi color smeraldo. Non c’è che dire. Una bellissima donna.
«Prego entrate» disse sorridendo ad ognuno di noi. «Mi scuso per il giardino, ma non ho avuto tempo di chiamare giardiniere e quant’altro. Sono desolata. Mi chiamo Penelope Glocci. Ma tutti mi chiamano “Signora Gherardi”»
«Ah! Lei è dunque la moglie del famosissimo pittore Jean Louis Gherardi? Onorato di conoscerla. Per quanto riguarda il giardino … mi creda … c’è di peggio a questo mondo» l’ironia tagliente di Flavio, che smorzò un mezzo sorriso alla donna.
Ci fu un momento di silenzio. «Comunque» prese parola Flavio, «questi due ragazzi sono due miei collaboratori. Quello a destra si chiama Alex ed è anch’esso un detective, anche se non ci faccia troppo caso, è ancora un novellino» Gentile come al solito non è vero?
«Quello a sinistra mi aiuta con le pratiche e le parti burocratiche dei casi»
Salutammo in modo educato con una stretta di mano. Poi la signora cominciò a camminare indicando di seguirci.
«Non voglio farvi perdere tempo, vi porto nello studio di mio marito.» Attraversammo la hall e ci dirigemmo verso un lungo corridoio. Oltrepassammo tre porte sul versante sinistro. Poi la donna, bussò alla porta e vide cosa avveniva in quella stanza da uno speciale spioncino.
«Mi dica» le dissi iniziando la conversazione in modo estremamente pacato.«Come mai è l’unica porta ad avere uno spioncino?»
«Oh be’. Mio marito è un vecchio fissato!» disse in modo scherzoso.
«Guarda che ti ho sentito.» disse un uomo sulla sessantina aprendo la porta e carezzando Penelope sui capelli color castani.
«Ma comunque» continuò «non mi offendo. Essere eccentrici fa parte dei grandi artisti. Non è vero garçon
«Ehm … si … certo».
Flavio mi spintonò all’indietro fulminandomi con uno sguardo. Ok, mi aveva ripetuto tante volte che non era mio compito fare domande. Spettava a lui. Io dovevo solo seguire le indagini cercando di apprendere il più possibile dai suoi metodi investigativi. Poi quando me lo chiedeva lui dovevo trarre una conclusione per verificare le mie doti investigative. Ma non riuscivo a stare fermo. Non che contestassi Flavio, per carità. Aveva fatto la sua carriera ed aveva un discreto senso dell’intuito, ma parliamoci chiaro. Spesso aveva un po’ il metodo confuso. Girovagava in giro per la scena del crimine, ma, forse per insicurezza, forse per eccessiva minuziosità, non arrivava ad una conclusione in modo repentino. Insomma, se a Holmes bastavano tre minuti per risolvere un caso, a Flavio ne servivano trenta. Capite cosa intendo?
«Sono Flavio Moggelli signor Gherardi. Onoratissimo.» disse porgendogli la mano, che venne caldamente stretta dall’artista.
«Qui sont ces deux gars qui sont sur ​​le côté? Peut-être ses enfants?»
«Eh? Cosa?»
La signora scoppiò in una fragorosa risata. «Oh, dovete scusarlo! Mio marito, come capirete dal suo nome di battesimo, ha chiare origini marsigliesi ed ama introdurre frasi in francese nel suo interloquire. E’ solo una delle sue tante manie, come la collezione di fazzoletti di stoffa provenienti dalla Finlandia.»
«Comunque Flavio, ti ha chiesto chi siamo noi due. La frase letterale è: “E chi sono questo due ragazzi che le stanno dietro? Sono forse i suoi figli?»
«Très, très bon!» si compiacque Ghirardi. «Tu hai studiato francese?»
«Si, a scuola.»
«Oh be’.» disse Flavio «Comunque non sono i miei figli. Sono due miei assistenti, chiamiamoli così.»
Ghirardi ci fece entrare repentinamente nel suo studio. Sua moglie ci seguì a ruota.
«L’ho convocata, detective Moggelli, perché come le ho spiegato al telefono, devo assolutamente proteggere il mio ultimo capolavoro».
«Di cosa si tratta?».
Ghirardi chiamò a sé un ragazzo sui vent’anni. Doveva essere poco più grande di me. Probabilmente gli faceva da garzone, da assistente.
«Manuel, va a prendere la tela per favore. Mostriamola ai signori.»
Il ragazzo si allontanò per circa cinque minuti. Era ben alto. Sfiorava il metro e novanta. Aveva i capelli castani e gli occhi dello stesso colore. Il fisico era indubbiamente scolpito in palestra. Non era un fascio di muscoli, ma aveva le spalle di chi, lavorava con gli attrezzi.
Il ragazzo entrò di scatto nella porta, e ci mostrò una tela coperta da uno straccio bianco. Dispose, dunque, la tela su un cavalletto in finissimo legno pregiato.
«Scopri pure, Manuel» affermò con fierezza Gherardi.
Il ragazzo eseguì. Non mi sono mai inteso di arte. Né avevo mai amato studiarla. Ma devo dire che quel Gherardi era davvero bravo nel dipingere. Il quadro raffigurava uno stupendo paesaggio marino al tramonto. Ma il pittore aveva cercato di non cadere nella banalità.
I colori forti come l’arancione usato per il sole e per i riflessi sulle acque del mare, contrastavano come botte violente di un auto sulla carrozzeria, con i delicati e freddi colori dei fiori primaverili disposti in primo piano a destra. Insomma, ragazzi. Era davvero una favola. Un gioiellino di arte locale.
«Vi piace?» chiese sorridendo.
«Altroché! E’ magnifico!» disse urlando Sergio. Fino ad allora non aveva proferito parola.
«Oh-Oh! Sono contento che vi piaccia!»
«Come si intitola signor Gherardi?» chiesi ansioso.
«Ero molto incerto sul nome. Alla fine ho deciso di dargli il nome di “Acqua rossa”.»
«Nome più che azzeccato direi. Complimenti davvero.»
«Grazie mille»
«Be’ signor Gherardi. Veniamo al momento della spiegazione del nostro incarico. Cosa dovremmo fare?»
«Semplicemente proteggere il quadro, dormendo una notte in questa casa.»
«Quindi, mi faccia capire. Lei ci ha assunti per dormire una notte qui e sorvegliare il quadro?»
«Esattamente. E vi pagherò bene per questo»
«Quanto bene?» Flavio aveva la bava alla bocca. Ah, venalità!
«Come le ho detto al telefono, se il quadro arriverà sano e salva alla mostra di domani alle otto, lei avrà diecimila euro in contanti.»
«Scusi» interruppi, forse maleducatamente. «Perché lo fa?»
«Cosa intendi dire ragazzino?»
«Dico … perché lo fa? Perché chiama gente come noi per sorvegliare un quadro? Perché ci paga diecimila euro per un compito così semplice?»
«Be’ se il signor Gherardi vuole pagarmi così tanto, evidentemente ne ha ben donde.!» disse Flavio. Per poi aggiungere a denti stretti «chiudi la bocca.»
«Vedi ragazzino» prese parola Gherardi. «L’arte è come un figlio . Devi curarlo, mantenerlo ogni giorno della tua vita. Devi essere il suo punto di riferimento. E non posso correre il rischio che mio figlio sia rapito, non credi?» disse in aria provocatoria.
«No di certo … » dissi perplesso.
Doveva tenerci proprio tanto a quel piccolo capolavoro.
«Allora siamo d’accordo mes enquêteurs
«Ehm…Oui, Oui» rispose farneticando qualcosa alla fine Flavio. Le lingue non erano il suo forte.
«Voi starete qui stanotte. Vi accomoderete al piano di sopra. Ho già fatto preparare le vostre stanze. Mi raccomando, sempre all’erta!»
«Stia tranquillo signor Gherardi» interruppe Sergio. «Con noi può stare tranquillo!» disse in tono trionfante suscitando qualche sguardo di perplessità.
Nel frattempo, notai che Manuel, assistente di studio dell’artista se ne stava spesso in disparte. Non c’era che dire. A forza di lavorare a contatto con gli artisti si diventava bizzarri. Il ragazzo se ne stava a riordinare i colori, a coprire le tele e a fare tutti quei lavori di garzone.
Tentai di legare con lui. Non per un motivo in particolare, ma perché quando ti assumono è meglio sapere un poco di tutti. Mi avvicinai ad un vecchio dipinto che aveva l’aria di stare lì da un po’. Flavio e Sergio prendevano ulteriori dettagli sull’incarico.
«Bello.» dissi rivolgendomi a lui. «Assomiglia a quel quadro, quello famoso … come si chiama? Ah si, “Terrazza del caffè la sera ad Ariès”. Mi pare fosse di…»
«Era di Monèt.»
«Sei sicuro?»
«Certo. Ho studiato arte.»
«Capisco.»
Ero perplesso. Ma non vi dirò adesso il perché.
Prendemmo un caffè. Parlammo con Gherardi  e sua moglie, mentre Manuel era rimasto nello studio a riordinare gli attrezzi del giorno dopo per la mostra. Voi non ci crederete, ma mi sorbì quasi due ore di discorsi sull’arte in generale, non solo pittura. Svariò anche sull’architettura. Disse che il suo stile preferito era il barocco, che apprezzava l’arte orientale molto più di quella occidentale. Insomma, per chi come me, non ama questo genere di cose, fu un vero strazio! Forse avrei dovuto fare un colpo di telefono a mio fratello Stefano. D’altronde studiava architettura a Roma. Quindi si sarebbe trovato a suo agio.
Verso le undici della sera decidemmo di coricarci. La signora Gherardi ci portò di sopra. Furono affidate ad ognuno di noi tre camere differenti. Non vidi quelle degli altri, ma presumibilmente erano simili alla mia. Molto piccola, pareti ricoperte da polverosa ed obsoleta carta da parati, letto ad una piazza e scrittoio vecchio stile. Sembrava di essere tornati indietro di cinquant’anni. Chissà se avrebbero definito arte anche questo?
La notte passò tranquilla. La campagna torinese non aveva propriamente il fascino del milleottocento che l’aveva resa famosa, ma si stava bene. La leggera frescura garantiva un clima abbastanza inusuale per l’autunno. Si stava bene con le finestre chiuse e le coperte. E pensare che in città sembrava ancora che ci fosse uno stralcio di estate passeggera. L’aria pura fremeva le morbidi erbe trascurate del giardino di casa Gherardi. Il silenzio la faceva da padrone. Il rumore aveva la ghisa nei muscoli. Tutto taceva ed era francamente magico. Chissà come sarebbe piaciuto ad Andrea e Bianca. Mio fratello amava la tranquillità. Per essere un bimbo di cinque anni si comportava già autonomamente. Doveva andare a scuola? Si preparava lo zainetto con l’occorrente da solo. Doveva fare i compiti? Bene, li faceva. E subito, dopo pranzo, senza nessuna esitazione. Bianca la conoscevo ormai da un po’. La rivelazione che la signora Moggelli fosse morta mi aveva sconvolta e non ero riuscito a dormire per tre o quattro notti. Forse, anzi, rettifico: Sicuramente non erano affari miei. Ma dovevo sapere di più. Insomma, ero ospite di una famiglia nella quale serbava un segreto così grande e oserei dire importante. Forse sarebbe stato meglio parlarne. Anche per evitare fraintendimenti futuri. A Bianca sarebbe piaciuta la campagna. Ma a chi non piaceva la campagna? Solo gli stupidi potevano non apprezzare quella timida quiete che sfociava in ogni tuo gemito di piacere per una carezza, per un sonno profondo, per una qualsiasi sensazione che ti facesse sentire bene.
Non ne fui tanto sicuro inizialmente. Ma mi sembrava che la quiete fosse stata rotta da qualcosa o da qualcuno. Chissà. Aprì gli occhi nel sonno e vidi solo nero intorno a me. Provai ad indirizzare la mia mano sull’interruttore della luce, ma c’era stato un evidente blackout. Il blackout non faceva rumore. Lo facevano di più i pensieri che ognuno di noi può covare dentro sé.
Poi un urlo, due, tre, quattro. Il tonfo di una persona lasciatasi andare. Uscì a dare un’occhiata, ma non vedevo assolutamente nulla. Più buio dico e più buio era. Andai a sbattere contro Sergio, che come al solito diede fuori di testa troppo prematuramente.
«Il ladro! Il ladro!» cominciò ad urlare. Fortunatamente venne la luce e ci ritrovammo entrambi a terra, uno di fronte all’altro a gambe incrociate, con un mio sguardo pari a quello di un comico di cabarèt, misto di diffidenza e lezioni da impartire.
«Falso allarme» disse in tono trionfante. Flavio era già fuori dalla porta. Impugnava la sua pistola, una Glock 21, vecchio stile, ma sempre potente. Scivolammo nei corridoi, quatti, quatti,  per paura di essere visti o sentiti dal nostro speciale “enforcer”. Ma le urla che avevamo sentito erano della signora. Scesi al piano di sotto, Flavio cominciò a tastare il terreno.
«Signora! Signora mi sente? Risponda se sta bene! Signora!»
Non potevo stare lì ad aspettare che rispondesse, né che tutti aspettassero un passo falso del probabile ladro. Così andai di corsa nel corridoio dal quale provenivano le urla. Trovai la signora Gherardi pallidissima, sul punto di svenire, in preda a papabili crisi nervose. Flavio mi ricoprì di insulti che per decenza non includo nel racconto. Vi dico che le cose più carine erano “idiota”  e “cretino”.
Trovai la donna con la testa tra le mani. Piangeva come un’ossessa ed alla mia domanda più che lecita di spiegarmi cosa fosse successo si limitò a puntare un dito contro lo spioncino.
Non avrei mai voluto guardare da lì. La sala da studio del signor Gherardi era in un lago di sangue. Il pavimento pullulava di tracce ematiche e il corpo del pittore era steso proprio lì, con la testa mozzata. Uno spettacolo orribile. Flavio arrivò sulla scena, mi scansò. Guardò la signora e immediatamente disse:
«Dobbiamo entrare dannazione! Signora, ha un duplicato di questa chiave?»
Non rispose. Riformulammo la domanda. Non rispose ancora. Cominciai allora a prendere spallate la porta.
«Cosa diamine stai facendo!» urlò Flavio
«Se aspettiamo che ce lo dice lei facciamo notte. Non vedi che è troppo sconvolta? Aiutami a buttare già la porta!»
Acconsentì anche se, si vedeva, contro la sua volontà. Dopo tre o quattro spallate davvero molto potenti, la porta cadde giù e di fronte a noi si ripeteva lo stesso spettacolo macabro di poco fa.
Mai vista una cosa del genere. Ve lo posso assicurare. Solo una mente malata poteva uccidere una persona. Ma una altrettanto malata poteva ucciderne una in quella maniera così brutale.
Avvicinatosi al corpo e tastato le vene del polso, anch’esse insanguinate, Flavio diede il triste referto, ordinando poi a Sergio di chiamare la polizia.
Nemmeno a dirlo, arrivò Ducato. La squadra omicidi era come noto, affidata a lui. Dall’aspetto sembrava non fosse in servizio quella notte. I capelli erano mal pettinati, la giacca stropicciata, la camicia sbottonata, segno che fosse stato preso di sorpresa.
«Allora! Cosa succede qui?»
«Ispettore Ducato. Venga,le spiego tutto. Tu intanto Alex, cerca indizi e tu Sergio assisti la povera signora.» disse Flavio.
Apparentemente la scena del crimine non presentava nessuna anomalia. Il corpo, ormai tumefatto e tranciato dal collo in su, non presentava nessun segno di forzatura, né di colluttazione. Le mani della vittima sembravano in posizione normale. Insomma, sembrava che ad agire fosse stato un fantasma. Nessuna impronta, nessuna strana circostanza. Sembrava tutto così perfetto. Ma nella vita la perfezione non esiste. Questo è un dato di fatto.
Al momento dell’omicidio la porta era chiusa. E la cosa più strana è che la serratura poteva essere inserita solo dall’interno. Un caso apparentemente senza soluzione. Come aveva fatto l’omicida ad entrare? E soprattutto come aveva fatto ad uscire dalla porta e poi a richiuderla pur stando fuori?. Insomma. Un vero mistero.
«Trovato niente Alex?» bisbigliò Flavio.
«Ancora nulla. Apparentemente sembra un omicidio della camera chiusa.»
«Da cosa lo deduci?»
«Non vedi la serratura della porta? Indica che si può chiudere solo dall’interno. L’assassino deve essere entrato nella stanza e aver commesso il delitto. Ma la cosa più strana è: Come ha fatto ad uscire fuori e a richiudere la stanza?»
«Già. Un bel mistero»
«Flavio!» urlò Ducato. «Ho mandato Novato a ispezionare intorno all’abitazione. Forse il signor Gherardi ha subìto un attacco esterno.»
«Non credo ispettore.» interruppi. «La porta, come ho detto, si chiude solo dall’interno e può essere aperta solo dall’interno. Ciò significa che forse la vittima ha aperto al suo assassino. Inoltre, se fosse penetrato qualcuno di estraneo in casa, non crede che avrebbe attirato l’attenzione al piano di sopra dov’eravamo, io, Flavio e Sergio? Senza contare la signora e Manuel. No, non può essere.»
L’ispettore fece una faccia mista tra sorpresa e sfiducia. Poi si avvicinò a Flavio e bisbigliò, cercando di non farsi sentire.
«Fa sempre così?»
«Già» disse in tono disturbato.
«Ergo» continuai «che abbiamo già due sospettati. La signora Gherardi e Manuel!»

CAPITOLO IV – Chi è l’assassino?

Entrambi erano dietro di me. La signora si era appena ripresa.
«Come ti permetti ragazzino?»
«Signora, diffido di tutti e di nessuno. Non la sto incolpando»
«Ma stai sospettando di me!»
«Ascolti» dissi sfoderando il mio sorriso migliore. «In questa casa non è né entrato, né uscito nessuno. Le uniche persone che avrebbero potuto uccidere suo marito sono lei e naturalmente Manuel.»
«Io ho un alibi» disse il ragazzo con aria malinconica.
Ducato gli si avvicinò e lo incitò a riferirglielo.
«Be’, ispettore … io sono stato in camera mia fino per un po’. Poi sono sceso in cucina a prendere un po’ di caffè, ma purtroppo ho sporcato il pigiama.»
«Quindi, la macchia sarebbe il suo alibi?»
«Esattamente. E’ la prova che sono stato in cucina al momento del delitto. Quando ho sentito le grida della signora sono stato il primo ad arrivare.»
«Confermi Flavio?»
«Confermo. In effetti il ragazzo era già qui al momento, ma nessuno lo ha notato perché comunque è un tipo abbastanza silenzioso.»
«E lei signora?» domandò Ducato alla donna.
«Io ero in camera mia qui di fianco. Ma non ho sentito nulla.»
«Ispettore scusi. Possiamo vedere il pigiama del ragazzo? Sicuramente, era quello il tipo di indumento che indossava» interruppi.
«Giusto. Ci porti il pigiama.»
«Che cos’hai in mente?» disse Flavio.
«Aspetta e vedrai»
Intanto l’agente Novato aveva terminato il giro di ispezione e aveva portato la tanto attesa verità sui fatti: nessuno si era introdotto in casa.
Il pigiama fu portato da Manuel in persona che lo porse a un uomo della scientifica. Quest’ultimo cominciò ad esaminarlo in un angolo della casa. Andai vicino a lui.
«Mi scusi, trova qualcosa di strano?».
«Non mi pare … la macchia sembra naturale».
Poi notai un piccolo dettaglio. «Ha notato che ci sono peli del pigiama tirati verso l’alto?».
«Sì …  è come se fossero stati strofinati. Forse si è macchiato ed ha tentato di asciugare la macchia, non credi?». Non ricordo le mie sensazioni dell’epoca. Ma ebbi un flashback. Le parole dell’agente della scientifica, mi colpirono ed ebbi un’idea. Strappai letteralmente il pigiama dalle mani dell’agente, che mi rincorse per pochi metri. Era vero. Aveva una macchia di caffè sulla gamba sinistra. Andai in cucina, stesi il pantalone sul tavolo della cucina e mentre lo ispezionai trovai finalmente ciò che cercava. L’alibi dell’uomo non stava in piedi. Quella macchia non aveva nulla di naturale.
«Dammi il pigiama ragazzo!» disse inquietato l’agente.
«Mi scusi …  è che avevo avuto un ‘idea … ».
«Ehi, cosa fai» disse Sergio entrando in cucina. «Il signor Moggelli mi ha detto di volerti parlare».
«Senti, Sergio. Posso chiederti un favore?»
«Certo, chiedi pure. E’ il minimo dopo l’aggressione di oggi pomeriggio»
«Bene. Allora va da Manuel e chiedigli chi ha dipinto il ritratto “Mary Ann”. Chiaro?»
«Perché?» chiese stupito?
«Tu fallo e basta. Dì al signor Moggelli che arrivo tra pochi minuti.»
«Ok … » disse in modo stupito.
Uscii fuori dalla cucina e domandai alla signora Gherardi un particolare che avevo tralasciato.
«Signora. Mi dica. Da quanto tempo Manuel lavorava per suo marito?»
«Erano circa due-tre mesi.»
«Capisco. Relativamente poco tempo. Non crede?»
«Sì … ma cosa sta cercando di dirmi?»
«Oh, non fraintenda. Nulla. Sto solo cercando di fare il mio lavoro.»
Andai di nuovo nella stanza del delitto. Trovai Flavio chino ad osservare la serratura dalla quale si apriva e chiudeva la porta.
«Davvero strano.»
«Cosa?» chiesi candidamente.
«Il fatto che non ci sia segno di forzatura.»
«Hai notato una cosa?»
«Cosa?»
«Prova a far scorrere tutta la serratura. Guarda.»
Flavio mi guardò spazientito. Poi eseguì tenendo in mano un fazzoletto.
«Be’ ? Cosa c’è di tanto strano?»
«Dannazione, non vedi che tutta la serratura è coperta di sudiciume dovuto alla vecchiaia tranne la parte iniziale?»
«Già! Hai ragione. Bella mossa. Ma come può essere? Forse l’hanno pulita.»
«Non dire sciocchezze. Se qualcuno dovesse pulire la serratura di una porta, la pulirebbe tutta. Non credi?»
«In effetti … ma allora … »
«Allora abbiamo a che fare con un assassino distratto.»
«Vuoi dire … »
«Sì, ho una teoria»
«Le teorie servono in matematica … »
«Quelli sono i teoremi … comunque ho anche delle prove inattaccabili. Stai tranquillo»
«Ah, certo. Un diciottenne risolve un caso di omicidio e gioca a fare il piccolo detective e io dovrei stare tranquillo? Lo sai che se sbagli, il mio onore e quello dell’agenzia cadrà nel vuoto?»
«Cosa avrei dovuto fare?»
«Forse attenerti al PSD? Cioè seguire passo, passo le mie tecniche investigative e provare a trovare una soluzione, non fare tutto da solo. Non ti pare?»
«Bah … l’importante è che io impari il mestiere no? Anche dal punto di vista delle pratiche. E su quel punto ci stai riuscendo benissimo.»
«Ah grazie. Ehi, cosa stai cercando di dire? Che i miei metodi non ti piacciono?»
«Diciamo che non mi aiutano. Preferisco fare da solo e chiedere a te solo piccole consulenze quando serve.»
«Sei irrispettoso lo sai? Te l’ho mai detto?»
«Sì, la prima volta che ci siamo incontrati.»
«Appunto»
«Dai, non prendertela! Il PDS consiste nel fatto che noi promesse del settore lavoriamo a dei casi che vengono affidati a delle agenzie investigative che si mettono a disposizione del ministero. Certo, dovrei seguire i tuoi metodi, ma se ho già i miei, posso limitarmi a chiederti solo qualcosina. Dopotutto, è importante che i casi vengano risolti, che io impari qualcosa, non che seguiamo le regole passo, passo.»
«Le regole dicono che a risolvere il caso dovresti essere tu, con la mia assistenza di almeno il settanta percento.»
«Eh be’, allora? Tu invece del settanta, me ne dai il sessanta! Ma basta che il caso sia risolto no?»
«Già» disse poco convinto.
In realtà, detto tra noi, Flavio non mi era molto d’aiuto. Non mi era nemmeno d’intralcio. Aveva molte qualità. Un ottimo poliziotto, incorruttibile, senso deduttivo discreto, ma come detto, a volte si impantanava in situazioni. E, mi scusino dal ministero, se io dovessi arrivare primo ad una soluzione, perché non chiudere subito? Tanto con Flavio imparerò sicuramente qualcosa. Sia in ufficio, sia sul campo. Ok, più in ufficio che sul campo. Ma avrei sicuramente imparato da lì a quando l’esperienza sarebbe finita. Di certo non avevo come mentore un incapace. Flavio era davvero impeccabile in certe situazioni. Aveva solo un po’ di difettucci qua e là, come il fatto di essere un po’ lento nel risolvere le cose, ma per il resto era un ottimo detective. Diciamo che è un po’ lo stesso discorso di quei cantanti che vanno ai reality show a gareggiare. Ce ne sono alcuni che hanno una voce bellissima, eppure sono sotto la guida di un vocal coach che gli insegna piccoli trucchetti per renderli più efficaci. Era il mio stesso discorso. Avevo una buona capacità deduttiva, ma Flavio avrebbe sicuramente recitato la sua parte nella mia formazione, se non sul campo, almeno dal punto di vista dell’ufficio e del coordinamento dei lavori, che forse era la parte più importante e più difficile da insegnare.
«Comunque, ho risolto il caso» dissi. «Vuoi sentire la mia versione?»
«Certo. Ma attento a non toppare.» disse ridendo.
Andai in corridoio, mi appoggiai spalle al muro. Sergio mi riferì la risposta di Manuel alla mia domanda.  Non aveva studiato quella parte di arte. Non si ricordava, il ragazzo.
«Be’ ispettore. La smetta di fare domande. Probabilmente ho già risolto il caso.»
«Cosa? Dici davvero?»
«Certo. Ascolti. Ci troviamo di fronte ad un grande distrattone!»
La gente guardava sbigottita.
«Un grande distrattone? In cucina non c’era mica dell’alcol?»
«No, no. A parte che sono quasi totalmente astemio. E poi, io non ho bevuto. Ho solo risolto il caso d’omicidio del signor Gherardi.»
«Spiega tutto e sii convincente»
«Come sempre ispettore, come sempre. Sapete, quando io e Flavio abbiamo visto il cadavere, la prima cosa che ci è venuta in mente è che non ci fosse nessuna anomalia sulla scena del crimine. Nessuna forzatura, nessun segno di colluttazione. Insomma, niente di niente. Ma. C’è un “ma”. Il nostro assassino ha adoperato una maniera di uccidere veramente molto particolare. In più, deve sapere che, seppur non ha lasciato tracce evidenti, ne ha dimenticate ben tre fondamentali. Ma prima di tutto voglio spiegarvi come ha adoperato l’omicida. Dopo essere arrivato di fronte alla porta dello studio, ha bussato e chiesto il permesso di entrare. La vittima, essendo in buona fede e conoscendolo ha acconsentito.» dissi portandomi le mani dietro la testa.
«Quindi?» chiese la signora Gherardi.
«Quindi, mia cara signora, una volta entrato, l’omicida ha approfittato della distrazione della vittima per mozzargli il capo, senza alcuna pietà!»
«E l’assassino sarebbe? Dicci chi ha ucciso mio marito!» urlò la signora Gherardi strattonandomi.
«Ve lo dirà lui stesso … vero Manuel? Lei deve confessare! E’ con le spalle al muro! E’ in trappola! E’ incastrato!»
Lo sguardo del ragazzo, fino ad allora tenue e poco caloroso, si fece immediatamente acceso e pieno di ferocia. Cominciò ad urlare come un forsennato.
«Ma come ti permetti? Non hai la minima idea di cosa stai affermando!» scalpitò urlando.
«Prima cosa, non si permetta di urlare. C’è un cadavere di fronte a lei, porti rispetto e si comporti con ritegno. Se ritiene sia opportuno difendersi lo faccia pure, ma con l’educazione e il garbo che si addicono a questa spiacevole circostanza»
Non rispose, continuò a guardarmi di fuoco.
«Sa, lei è stato astuto, ma contemporaneamente molto distratto. Si è condannato praticamente da solo. Cominciamo dal momento focale, cioè dall’omicidio. Ha chiesto al signor Gherardi di entrare, teneva probabilmente l’arma dietro la schiena. Ha approfittato della distrazione della vittima e l’ha barbaramente uccisa! Dopodiché si è recato vicino alla porta, ha legato qualcosa al pomo del cardine, cioè alla parte che si usa per far scorrere la serratura, e ha fatto passare questo qualcosa nella fessura della porta adoperata da tutti come spioncino. Non ha fatto altro che uscire e tirare l’altra estremità dei fazzoletti per chiuder la porta anche dall’esterno.»
«I fazzoletti?» disse Ducato.
«Sì, ispettore, proprio così. La vittima aveva molte manie, come quella di collezionare fazzoletti di stoffa molto delicati. Chi avrebbe immaginato che sarebbero diventati il trucco con il quale sarebbe stato possibile farlo fuori?»
«Mi spieghi adesso come avrei fatto a chiudere una porta con dei fazzoletti! Abbia il coraggio!»
«Semplicissimo. Bastava usare il cervello. Guardi, non sono un’idiota. Lei ha legato uno con l’altro i fazzoletti fino a formare una fune abbastanza lunga e sottile da farla passare nello spioncino. Una volta fatto come ho detto prima, è uscito ed ha tirato i fazzoletti verso sinistra, in modo che da dentro il pomo agisse contro il cardine e facesse chiudere la serratura. Poi ha dato uno strattone alla fune e ha sciolto il nodo che la teneva legata al pomo della serratura.»
«Non ha prove di questa fantasia»
«Ah davvero? Agente Novato. Per favore, osservi la serratura. Non il pomo, la vera e propria serratura. E’ tutta macchiata di olio e ruggine, tranne la parte iniziale. Ergo che prima di collegare la fune di fazzoletti al pomo avesse provato a collegarla al cardine vero e proprio, cioè alla serratura. Non riuscendoci, ha optato per il pomo. Ma ha dimenticato che la serratura era sporca. La sporcizia ha macchiato anche i fazzoletti, che venendo legati al pomo hanno sicuramente lasciato qualche traccia di ruggine. Controlli, io non l’ho fatto, ma sono sicuro che ci siano delle macchie su quella parte della porta.»
«E’ vero ispettore!» disse uno stupito ed estasiato Novato.
Flavio, in silenzio fino a quel momento prese parola. «Tutto qui? Tutto ciò che hai scoperto è questo?»
«No di certo Flavio. Per quanto riguarda la macchia sul pigiama … chissà a quanto risale!»
«Non è possibile!» disse la signora Gherardi.
«Oh, invece sì signora. Quando ho portato la macchia in cucina, ho notato che era asciutta. Se si fosse macchiato poco fa dovrebbe essere ancora fresca. Inoltre, quella macchia odora di detergente, segno che è stata già lavata. Senza contare che la parte dove c’è la macchia è usurata. Ciò significa che il pigiama è stato lavato a mano dal signor Manuel che però non è riuscito a togliere nulla.»
«Non dica sciocchezze investigatore da quattro soldi! » Manuel sbatté un pugno sul muro.
«Perché si arrabbia? E’ nervoso? Comprensibile, le ho appena elencato nei minimi dettagli cosa ha fatto. Ma non è finita qui. Mi dica la verità. Lei non è qui per l’arte vero? A lei l’arte non interessa affatto! Non menta mi raccomando.»
«Cosa? Ecco un’altra baggianata!Io vivo per l’arte!»
«Lei dovrebbe vivere per la recitazione. Meriterebbe un oscar per come sta gestendo la cosa. Può ingannare una platea, ma non la ragione.»
«Cosa vuoi dire Alex?» chiese Ducato.
«Voglio dire, ispettore, che il ragazzo di arte non sa un bel niente. Non l’ha studiata. Se l’avesse fatto, saprebbe che “Terrazza del caffè la sera ad Ariès” l’ha dipinto Van Gogh, non Monèt. Inoltre Sergio, vuoi dirmi che risposta ha dato alla mia domanda?»
«Sergio, di cosa sta parlando?» Flavio era letteralmente basito.
«Alex, mi ha chiesto di domandare a Manuel chi avesse dipinto il ritratto “Mary Ann”. Io l’ho fatto, ma lui ha risposto che non lo ricordava.»
«Non lo ricordava, Flavio. Manuel, studente della facoltà di Arte, amante dei ritratti e della pittura, non sapeva chi avesse composto un simile capolavoro! Capisci adesso?» poi mi rivolsi al ragazzo «L’ha dipinto Robert Henri, corrente impressionismo. Impari amico.» In questo momento non finirò mai di ringraziare quel mio severissimo professore di arte alle medie.
«Non ricordo le cose. Verissimo. E allora? Le basta questo per incolparmi?»
«No di certo. Quindi lei afferma che non ha ucciso Gherardi?»
«Lo affermo eccome!» disse convinto con gli occhi di sangue.
«Ok»
«Come ok?»
«Io le credo.»
«Ma allora tutta questa confusione … per nulla!»
«Esatto»

CAPITOLO V – Trionfa il bene

Descrivervi gli sguardi di Flavio e di Ducato sarebbe riduttivo. Immaginate un folle omicida. Mi guardavano così.
«Non posso incolparla di qualcosa che non ha fatto Manuel, figuriamoci. Glielo chiedo per l’ultima volta. Non ha ucciso lei con un’arma da taglio il signor Gherardi? Ne è sicuro? Lo giura?»
Stufato ormai dalla circostanza e sicuro di averla fatta franca, Manuel rispose quasi con disprezzo alla mia domanda.
«Giuro di non aver ucciso Jean Louis Gherardi con quell’ascia».
Seguì un momento di silenzio.
«Ispettore, ha sentito cosa ha detto? Ha detto “di non aver ucciso Jean Louis Gherardi con quell’ascia”.»
«E allora?» chiese Ducato.
«Allora ispettore. L’arma del delitto non è mai stata nominata qui. E’ scritta solo nel referto della polizia! Io ho parlato di arma da taglio! Come fa Manuel a sapere che si tratta di un’ascia?»
«Giusto! Ragazzo, lei ci deve delle spiegazioni!»
Il sudore pervadeva ogni angolo del corpo del colpevole. Le mani tremavano, la lingua era secca, come se non bevesse da anni. Era fritto.
«Mi dica signor Manuel. Lei è arrivato sulla scena del delitto per primo. Scommetto che non ha ancora buttato i fazzoletti non è vero? Li ha in tasca. Voleva sbarazzarsene quando la polizia se ne sarebbe andata! Dica la verità!»gli intimai faccia a faccia.
Non mi ascoltava più. Crollò sbattendo le spalle vicino al muro.
«Hai vinto ragazzino» disse estraendo I fazzoletti e facendoli cadere a terra.
«Perché l’hai fatto? Perché? Mio marito aveva fiducia in te!» la signora Gherardi era un fascio di nervi.
«Mi sono fatto assumere spacciandomi per esperto di arte. Il signor Gherardi ha avuto una relazione extraconiugale con mia sorella per un anno. Un giorno ci fu una tremenda lite. Lui la picchiò selvaggiamente e l’abbandono. Lei fece in tempo a scrivere una pagina di diario risalente alla questione. Lo faceva tutti i giorni. Diceva che l’aiutava. La mattina dopo mia sorella morì per i troppi pugni ricevuti al cranio. Non sapevamo a cosa fosse dovuto. Ma circa due settimane dopo trovai il diario e capì tutto. Non potevo fargliela passare liscia! Capisce ora detective?» disse strattonando la mia camicia e appoggiandosi a me per alzarsi.
«Mi dispiace per sua sorella Manuel, ma lei ha commesso un crimine e deve essere punito. Non appena trovato le prove della colpevolezza del signor Gherardi lei avrebbe dovuto portare quel diario alla polizia e sporgere denuncia. Ma lei ha preferito agire per vendetta personale, sbagliando.»
«Il crimine non ha “ma”, né “però”. Come ha detto Alex, doveva rivolgersi a noi. Stia sicuro che il colpevole sarebbe stato condannato. Mi dica. Sua sorella sarebbe fiera di ciò che fatto?» Ducato e le sue parole mentre ammanettava Manuel.
«Probabilmente no ispettore. Ma se vuole saperlo non mi pento.»
«Un giorno lo farà» disse Flavio. «Quando si compiono scelte sbagliate alla fine ci si pente sempre. Lei ha un cuore come tutti Manuel. Un cuore capace di farsi rispettare. E le assicuro che lo farà, un giorno lontano.»
Il criminale fu arrestato e ammanettato. Un solerte Novato ci salutò e si mise alla guida del cellulare della polizia. Eravamo sconcertati, ma non era una novità di fronte ad un delitto.
«Dì un po’. Come hai fatto a farlo confessare? Intendo, come sapevi che si sarebbe tradito?» disse Sergio
«Oh, è stato facile. Quando parlava con qualcuno aveva sempre gli occhi che guardavano in basso, segno che stava dicendo bugie. Inoltre, considerando l’alto numero di indizi da distratto che si è lasciato dietro, ho avuto l’intuizione che forse si sarebbe tradito da solo. E per fortuna è stato così.»
«Capisco. Be’ sei una forza!» disse con entusiasmo
«Ma così mi metti in imbarazzo. E’ stata solo fortuna»
«Fortuna? Hai ricostruito le cose minuziosamente!»
«E’ anche merito del PSD e di Flavio. A proposito, cosa ne pensi?» dissi rivolgendomi a lui
«Avevo cominciato a capire qualcosa dalla serratura. Probabilmente è da lì che è scattato qualcosa. Tuttavia, devo ammettere che sei stato abbastanza in gamba. Ma non montarti la testa, non sei nulla in confronto a  me!» disse con entusiasmo.
«Viva la modestia … non è vero?»
«Cosa vorresti dire?»
«Niente, niente. Non farci caso.»
Sulla via di casa, Sergio insisté per mettere ancora un cd dei Drowning Pool. Flavio tentennò, poi, viste le richieste esasperanti del ragazzo, dovette cedere.
E così ritornammo a casa, con la stessa colonna sonora con la quale ce n’eravamo andati. Andati per proteggere un quadro, ritornati dopo aver condannato un mostro.


 ANTICIPAZIONE EPISODIO 5: Un delitto inspiegabile in un ristorante a cinque stelle. La vittima è un tizio che sedeva al tavolo di fronte ai nostri eroi. Nulla è come sembra, e spesso la logica viene sovrastata dall'odio umano. E quando sembra che hai sconfitto tutti, arriva chi ti mette con le spalle al muro!
ALEX FEDELE EPISODIO 5-. IL MISTERO DEL SUPREMO! 

Solo su questo blog a partire dal 17 Settembre 2011! 






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