IL
PAZIENTE UCCISO
PROLOGO: Flavio è ferito e Alex lo porta in ospedale. Anche un luogo però tranquillo può rivelarsi trappola per topi. E se quella trappola scatta ...
CAPITOLO
I – Il ferito
Arrivammo a Torino in mattinata.
Avevo guidato così tanto che ormai non sentivo più le gambe e avevo il collo
tutto intorpidito a causa della posizione statica nella quale ero stato per
almeno un quattro o cinque ore buone. Flavio aveva dormito tutto il tempo e la
sua mano era rimasta tesa, forte e raggrinzita per tenersi la gamba ferita.
Vidi il sole aprirsi al cielo e
le persone cominciare la propria giornata come in un film.
«Siamo arrivati» dissi svegliandolo
freneticamente. «Ora potranno curarti».
«Già, ma cerca di essere più
gentile quando svegli qualcuno, dannazione» acconsentì insonnolito. Poi si aprì
in un grande sbadiglio e guardandomi fisso mi disse:
«Hai già chiamato Bianca, non è
vero?».
«No, non ne ho avuto il tempo»
risposi dopo un tentennamento.
«Non vorrai farlo, non è vero?».
Lo guardai per un attimo. Aveva
il viso tutto sporco di sangue e le unghie delle mani erano ormai luride.
«Certo che sì. Sei diventato matto?».
«Vuoi farla preoccupare? E’ una
ragazza».
«E’ una ragazza alla quale hanno
ferito suo padre. Cosa gli dirai quando ritornerai a casa con una gamba fuori
uso?».
«Che mi ha investito un camion?».
«Hai già detto delle bugie ai
tuoi figli, anche solo per proteggerli, e ricordi com’è finita?».
«Ok, messaggio ricevuto» asserì
con la mano. «Sbrighiamoci ad entrare però. Il dolore è insopportabile».
Fu una gran fatica, davvero.
Dovetti trasportarlo per tutto il percorso che portava all’ospedale. Rifiutò di
farsi sollevare e allora lo portai a braccetto. Sembravamo una coppia di gay
indaffarati o forse solo padre e figlio, ma non avrei mai potuto immaginare che
mi fossi trovato in quella situazione.
Entrammo in ospedale, una vecchia
struttura che chissà quante volte aveva assistito a scene di quel genere e mi
ritrovai subito di fronte un’infermiera sulla trentina. Aveva lunghissimi
capelli biondo ramati raccolti in un pregevole chignon e il fisico di una
fotomodella. Chissà, forse avrei fatto bene a farmi ricoverare anch’io per un
po’.
«Mi aiuti, la prego. Quest’uomo è
ferito».
«Le chiamo subito il personale
autorizzato. Resista» disse rivolgendosi a Flavio.
«Hai fatto cilecca» mi disse
quest’ultimo.
«Eh?».
«Ho visto come la guardavi. Sono
stato ragazzo pure io, non scordartelo. Ma la tua giovinezza non può nulla
contro il mio fascino eterno».
«Vabbè, stai delirando. Spero si
sbrighino con il personale».
Furono davvero veloci. Sembrava
fosse l’ospedale più efficiente del mondo e subito Flavio fu caricato, seppur
bellicoso, su una sedia a rotelle. Erano arrivati un paio di infermieri e c’era
anche un dottore con la puzza sotto il naso.
Intanto Flavio fu portato in una
stanzetta per accertamenti e io mi diressi verso l’uscita dell’ospedale per
avvertire Bianca e Fabio. Chi avrei dovuto chiamare prima? Forse Fabio. Era
diventato come un fratello per me in quel periodo difficile e forse mi sarebbe
stato più facile comunicargli la notizia. Non so cosa mi prese, ma schiacciai
sul nome di Bianca e prima che me ne accorgessi la sua voce mi stava già riempiendo
le orecchie.
«Pronto?».
«Bianca,sono Alex».
«Ah, ciao … ma che cosa c’è? Non vi fate sentire più? Ho
chiamato tre volte da ieri sera!».
«Sì … cioè no …» dissi confuso
toccandomi i capelli. «Devo dirti una cosa … ascoltami bene».
Non rispose.
«C’è stata una complicazione col
caso e adesso … Flavio è ricoverato in ospedale ma …».
«Papà?!» disse mentre già era nel
panico.
«No, no, non agitarti. Non è
nulla di grave, niente di irreparabile».
«Com’è successo?» riuscì a
domandare tra i singhiozzi che già le invadevano la voce dolce e melodiosa.
«Non … non posso spiegarti
adesso. Vieni in ospedale e ne parliamo, ok?».
«Ok. Sono da voi in un attimo»
ultimò sbattendomi il telefono in faccia.
Era così difficile. Parlare con
Bianca intendo. Ormai ci conoscevamo da un po’, ma non era questo il punto. La
mia vita è stata sempre caratterizzata da una cauta razionalità. Ero capace di
ragionare sui problemi e di rimuginare su di essi per giorni, mesi, anni,
finché magari non trovavo soluzioni, formule fintamente magiche che potessero
risolverli. Ma anche quando sentivo di aver trovato la chiave, mi mancava
sempre quell’impulso che mi avrebbe permesso di metterla in gioco. Solo nei
casi riuscivo a mostrare più ferocia a livello di convinzione. No, non ero un
insicuro. L’insicuro è chi ha paura di dire la sua, chi non riesce a far capire
agli altri come la pensa, chi non esprime la sua opinione. Io non ero così. Ero
un tipo troppo razionale a volte. Rimuginavo su problemi come fossero quesiti
interminabili e questo mi deteriorava dentro.
Nei casi era un’altra storia. Ero
nato col dono dell’intuito, il cervello era allenato e quindi riuscivo
rapidamente a convincermi che la mia tesi fosse quella giusta. Ma nella vita di
tutti i giorni mi precludevo determinate cose e lo facevo perché raramente mi
fidavo della gente, mentre la gente spesso si fidava di me.
CAPITOLO
II – Sussurri nel vento
La vidi arrivare guardando dalle
porte trasparenti dell’entrata principale. Arrivò con il suo scooter, un
Piaggio Liberty Elle di colore rosa, alla velocità della luce. Non gli mise
nemmeno il cavalletto, lo scaraventò a terra con violenza e stizza e,
slacciandosi il casco, vidi che aveva ancora le guancie inumidite dalle
lacrime. Intanto dietro di lei era già arrivata l’auto di Fabio, una 500 nuovo
modello di colore nera metallizzata. Insieme a loro c’era Andrea, vestito su di
un piumotto color verde militare.
«Cosa è successo?» mi chiese in
apprensione Bianca. Mi guardava con gli occhi lucidi e l’aria di chi ha tutto
da perdere e non riusciva a frenare lo scorrere delle sue lacrime.
«C’è stata una complicazione del
…».
«Ma quale complicazione!?» disse
infuriata. Era stizzita, frustrata dalla situazione paradossale. Quando sua
madre morì, lei lo seppe all’ultimo e visse la situazione in una sorta di
campana di vetro creata ad hoc da suo padre. Per giorni interi Flavio non aveva
risposto mai alle domande di Bianca e Fabio, anzi, era diventato a volte
“crudele” punendoli, oppure cercando di distoglierli dalla situazione nella
quale si trovavano. Bianca non aveva mai potuto piangere sul letto d’ospedale
della madre. Poco tempo prima mi aveva confessato che lei e Fabio erano stati
presenti al funerale solo per pochi minuti. Poi loro padre li aveva trascinati
e li aveva riportati a casa, evitando sempre di dar loro la spiegazione per la
quale era morta la madre dei suoi figli.
La voce le si era rotta causa i
numerosi singhiozzi dovuti al pianto e i lunghi e lucidi capelli castani erano
arruffati e disordinati in tutt’uno con l’anima.
«Stai calma» le dissi mentre
l’abbracciavo. Fu inizialmente riluttante, ma poi si lasciò andare tra le mie
braccia. Fabio si toccava i capelli castani chiari e pareva quasi imbarazzato.
Rivolse uno sguardo a Andrea e lesse nei suoi occhi l’innocenza del bambino.
Bianca si staccò dal mio torace e
andò a sedersi nella saletta d’aspetto portandosi dietro Andrea.
«Allora, cos’è successo?» mi
chiese Fabio. Non lo mostrava, forse non amava farlo, ma aveva anche lui un
pizzico di emozione nelle pupille e questo lo si notava dal volto marcato dai
segni della preoccupazione.
«Un incidente con il caso di
Baselli … sai del caso, no?».
«Sì, mi ha accennato qualcosa
Bianca».
«Praticamente dovevamo ritrovare
sua moglie e invece è stata una trappola congeniata nei minimi dettagli. Lo
hanno sparato ad una gamba». Pronunciando queste parole vidi Bianca abbassare
lo sguardo e stringere ancora più forte la piccola e delicata manina di Andrea.
Adesso mio fratello non mi era mai sembrato così uomo.
«Cosa vuoi dire?».
«La donna non esiste e per quanto
riguarda quel’idiota, è un membro del Fuoco Re».
«Maledetti …».
«Io e tuo padre ci siamo fatti la
promessa di collaborare alla cattura di queste persone, lo sai?».
«Sono migliaia, lo sai?» ribatté
«Hanno espansione mondiale e possono distruggere chiunque».
«Basta prendere i pesci grandi,
con i piccoli non ci si sazia. Comunque sarà difficile, ma è una questione … come dire, di onore e di orgoglio,
capisci?».
«Non completamente».
«Per esempio?».
«E’ acqua passata, Alex. Ok,
hanno tolto a te un padre e a me una madre ma …».
«Ma cosa?» gli domandai
fissandolo negli occhi con rabbia «quei bastardi devono pagare e soffrire
almeno il doppio di quanto hanno fatto soffrire le tante vittime che hanno
ammazzato. Non ci sto a mollare a passarci sopra solo perché sono potenti…».
«Ma c’è la polizia per questo.
Voi siete privati, capisci?».
«Per niente. E’ una questione che
mi tocca personalmente molto da vicino e … » mi fermai un attimo tenendo lo
sguardo basso e nascondendo gli occhi «il senso di morale e giustizia me lo
impedisce».
«Il senso di morale e di giustizia?»
mi domandò dubbioso.
Alzai rapidamente la testa
facendo fluttuare nell’aria i capelli «Sì,» risposi fiero «hai presente quella
sensazione tosta, dura, che ti impedisce di fare determinate cose? Mi sento
così ogni volta che risolvo un caso. E la parola “fine” un giorno verrà scritta
anche sul Fuoco Re, te l’assicuro. Se non da me, da qualcun altro».
Mi guardò fisso negli occhi e
forse per la prima volta mi sentii talmente forte da abbattere una montagna a
mani nude. Se ne accorse anche lui, perché il suo viso si slanciò in un sorriso
compassionevole e allo stesso tempo di incitazione.
«Comunque» aggiunsi mentre
raggiungevamo Bianca e Andrea «è strano».
«Cosa?».
«Come facevano a sapere che
avevamo deciso di collaborare alla loro cattura?».
«Forse avevano piazzato
telecamere in casa».
«No, il giorno dopo abbiamo
controllato minuziosamente tutta la casa insieme a Sergio e non abbiamo trovato
nulla da nessuna parte. Non può essere».
Intanto il dottore di poco prima
uscì con Flavio su una sedia a rotelle. Gli avevano coperto le gambe con una
coperta termica.
«Papà!» urlò Bianca.
«Piccola mia» disse deglutendo
una chissà quale medicina. «come stai?».
«Io bene! Tu come ti senti?».
«Il dottore ha detto che non è
nulla di grave. Basterà medicare la ferita e … dottore, vuole continuare?».
«Certo signor Moggelli. In
pratica» continuò l’uomo «il proiettile l’ha colpito soltanto di striscio ed ha
preso una parte fortunatamente più forte tra le tante delle gambe. Lo stinco
infatti è più resistente di un adduttore o magari di un quadricipite, ma non è
questo il punto» affermò guardando la cartellina dall’alto dei suoi
occhialetti.
«Il signor Moggelli non subirà
nessun danno permanente. Ha solo una piccolissima ferita che gli rimargineremo
immediatamente. Poi porterà un tutore per una ventina di giorni, una fasciatura
leggera e dopodiché sarà come nuovo».
«Grazie a Dio!» esclamò Bianca.
Poi continuò rivolgendosi allo stesso Flavio «quanto mi sono preoccupata! Non
puoi nemmeno immaginarlo!».
Invece di rispondere a sua figlia
Flavio si rivolse al dottore.
«Dottore, tra quando potrò
camminare normalmente?».
«Una decina di giorni al massimo.
Poi,come ho detto, ne seguiranno altri dieci di … “assestamento” … chiamiamolo
così. Per il momento dovrà fare uso delle stampelle».
«Che cosa?! Ma … ma un uomo come
me non può portare le stampelle! Dannazione, ha capito chi sono io? Sono il
detective Moggelli, faccio una vita che …».
«O le stampelle, o la sedia a
rotelle, decida lei».
«Stampelle» affermò Flavio
rassegnato.
«Sarà meglio che rimanga qui per
almeno quattro o cinque giorni» osservò il Dottore. Aveva un cartellino
attaccato al taschino del camice che lo identificava come Attilio Berloni.
Fu preparato tutto il necessario
per il ricovero di Flavio. Fabio corse a casa Moggelli per i cambi e le cose di
ordinaria amministrazione e fu avvisato Sergio, lontano da Torino a causa di un
convegno a Parma.
Forse ciò che sto per scrivervi
vi sembrerà abbastanza strano, ma credetemi … a Flavio bastò un giorno per fare
conoscenze in ospedale. Ormai le infermiere lo conoscevano a menadito e si era
permesso anche il lusso di stringere amicizia con tre persone che abitualmente
frequentavano l’ambiente. Il primo era anch’esso un ricoverato che stava
proprio nella stanza accanto a Flavio. Aveva una cinquantina d’anni e le tempie
tutte imbiancate. Aveva detto di chiamarsi Pino Scerini e di aver fatto il
carpentiere per tutta la vita. Era ricoverato in ospedale ormai da almeno tre
mesi buoni in quanto soffriva di una rara malattia chiamata “granulomatosi di
Wegener”. La malattia interessava prevalentemente il sistema respiratorio e in
parte anche i reni. Ricordo di come quell’uomo fosse sempre febbricitante,
magro e secco e soprattutto di come si affaticasse per un nonnulla. Dovevano
essere i sintomi della malattia. Inoltre non ci vedeva molto bene.
Poi avevamo conosciuto due suoi
amici che venivano costantemente a fargli visita e che rimanevano con lui per tutta
la giornata. Giovanni Valdherièn era un tipo simpatico. Aveva occhi azzurri e
una cascata di capelli biondi ricci che gli cadevano sulle spalle. Era di
origine marsigliese e ogni qualvolta parlava si notava in modo non del tutto
impercettibile. Poi c’era una donna davvero avvenente. Si chiamava Samantha
Moschi ed aveva un’ età compresa tra i venti e i trent’anni. Anche lei aveva i
capelli ricci, ma a lei erano nero catrame. Aveva subito un’operazione alle
labbra e se le era fatte gonfiare all’inverosimile come quelle soubrette che si
vedono in tv. Siccome l’operazione era stata eseguita da poco, continuava a
toccarsi il labbro inferiore e puntualmente si sporcava i polpastrelli di
rossetto. Si era mostrata solare, simpatica, allegra e disponibile e sembrava
essere l’unica persona con la quale Scerini andasse d’accordo. Non ne fui molto
sicuro, ma notai certamente dei toni tesi tra Scerini e il francesino.
I giorni passarono piuttosto in
fretta e quasi non ce ne accorgemmo. Flavio continuava a lamentarsi sul menù
dell’ospedale e del fatto che, complice dei lavori edili nel parcheggio, non si
riusciva a riposare bene al cento per cento. Non vedeva l’ora di lasciare quel
posto. Dal canto mio, non vedevo l’ora di ritornare alla solita vita. Il fatto
è che l’ospedale lo rendeva ancora più bisbetico del solito e noi eravamo
costretti a sopportarlo e ad acconsentirlo in ogni richiesta. Chiese di avere
tutte le riviste che trattassero di golf esistenti sul mercato e le ebbe;
Chiese il suo pc tablet in quanto voleva controllare la posta elettronica e
chiese ogni piccola o grande cosa che potesse davvero infastidirci.
Il quinto giorno non volevo più
andarmene. Pino Scerini era morto nella sua camera d’ospedale, ma non in modo
naturale. Era stato ritrovato disteso a terra, a pancia in giù, davanti al
balconcino che dava sull’esterno della struttura ospedaliera. Il suo capo
presentava una vistosa ferita sulla parte destra e l’idea è che fosse davvero
impattato contro qualcosa di pesante. Non appena Flavio seppe la notizia,
impugnò stampelle e cose varie e andò subito a vedere. Sul posto c’era già
Ducato.
«Flavio … ma … che ci fai qui? Si
può sapere?» disse rivolgendo uno sguardo stupito alla stampella.
«E’ una lunga storia ispettore,
non ci faccia caso».
Ducato guardò me e in pochi
minuti dovetti spiegargli tutto, ma proprio tutto. Dal caso a Baselli, fino ad
arrivare al viaggio ad Udine e passando anche per la sparatoria nella baracca.
Dal canto suo si lisciò il pizzetto e con i suoi occhi mi rimproverò duramente.
Non disse nemmeno una parola, ma ebbi la netta sensazione che mi sarei portato
dietro quello sguardo per tutta la vita.
«La vittima» iniziò a parlare
Giuseppe Novato «è Pino Scerini. Aveva cinquantuno anni ed era ricoverato in
ospedale da circa tre mesi per una malattia chiamata granulomatosi di Wegener.
Il suo corpo è stato ritrovato circa quindici minuti fa, verso le tre e mezza
del pomeriggio, da Samantha Moschi, una sua amica. A giudicare
dall’irrigidimento del corpo il decesso è avvenuto circa un’ora fa. Sul corpo è
stata riscontrata una profonda ferita alla testa e si sospetta sia morto per
aver ricevuto un colpo molto violento proprio lì».
Rimanemmo tutti per un attimo in
silenzio e Bianca e Andrea, unici presenti della famiglia, se ne stavano
riposti in un angoletto ad osservare la scena. Il corpo della povera vittima fu
coperta con un telone. Mentre i responsabili della scientifica compievano
questa azione, Samanta Moschi e Giuseppe Valdherièn piangevano consolandosi
l’una con l’altro.
C’era nettamente qualcosa che non
andava. Perché l’uomo era stato ritrovato in quella posizione? E perché poi
vicino al balconcino? Mi avvicinai alla finestra del balcone e vidi che sul
vetro erano presenti delle incrinature. In un nanosecondo Novato aggiunse:
«Su quella parte del vetro
incrinata, quella che sta guardando Alex» affermò indicandomi «sono state
rilevate delle tracce ematiche quasi impercettibili».
Buono a sapersi. Ora almeno
potevamo portare avanti un’ipotesi e cioè che la vittima avesse sbattuto
violentemente il capo contro quel vetro e per questo lo avesse leggermente
incrinato.
«Strano che lo schienale del letto sia così avanti, non trovate?» esordì
Bianca. Si era avvicinata lentamente vicino alla scena del delitto e adesso
guardava con curiosità e innocenza il letto d’ospedale. In effetti era vero, lo
schienale era troppo per sembrare in una posizione normale. Tenendo conto che
la vittima aveva problemi anche ai reni, non poteva essere stata posizionata
così dal paziente. Inoltre la stampella che serviva alla vittima per aiutarsi
nel camminare era riversa a terra, quasi in segno di disprezzo.
«Già, effettivamente è molto
strano» osservò Flavio.
«Signori» cominciò a parlare
Ducato «il signor Scerini è stato palesemente ammazzato e le uniche persone che
avevano accesso a questa stanza oltre che il personale eravate proprio voi due,
quindi il campo si restringe …».
«Non penserà mica che possiamo
essere stati noi, non è vero?» disse Samantha alzando il tono di voce. I suoi
occhi erano gonfi e nettamente arrabbiati con il mondo e dalla sua bocca
uscivano parolacce di ogni genere che ne dissolvevano la femminilità mostrata
fino ad allora.
«Ispettore, è semplicemente
assurdo» aggiunse Giovanni in modo pacato e benevolo. «Non avevamo nessun
motivo per ucciderlo, è stupido incolparci solo per questo».
Ducato si fece passare dei fogli
stropicciati e cominciò a leggerli indossando i suoi occhialini. Era così buffo
che avrei potuto scoppiargli a ridere in faccia. Certo, dopo avrei dovuto
correre per giorni per non farmi prendere, ma d’altronde era questo il bello di
Vincenzo Ducato.
«Eh … non è proprio così vera
questa sua affermazione. Lei per esempio, risulta creditore del signor Scerini
per una somma di circa trentamila euro … si può sapere cosa ha fatto con quei
soldi?».
L’uomo abbassò lo sguardo al
suolo «Ho … ho avuto delle spese per la mia società».
«Ma non ha più restituito quel
denaro, non è vero?» chiese Novato.
«No … ma stavo per farlo! La
società è in forte ascesa e glieli avrei ridati da un momento all’altro!».
«Che tipo di società gestisce?»
domandai in aria innocente.
«Mi occupo di articoli sportivi
per corsa e attività motorie in generale».
«In quanto a lei signorina
Moschi» riprese a leggere Ducato «Non è forse vero che rifiutava la vittima in
amore, costantemente?».
La donna parve leggermente
imbarazzata e le sue lacrime si arrestarono immediatamente. Rivolse lo sguardo
in basso e annuì con leggerezza. Poi disse: «Sì, ma non avrei potuto ucciderlo,
siamo seri».
Il quadro era davvero complicato.
Un uomo che soffre di una gravissima patologia ritrovato a pancia in giù vicino
ad un balcone, morto per un colpo in testa; tracce ematiche presenti sulle
incrinature del vetro della porta finestra del balcone; una stampella riversata
a terra e un letto inverosimilmente troppo avanti per garantire comodità ad un
ricoverato. Cosa voleva dire? Notai delle piccole tracce rosse sulle stampelle
e cominciai a farmi un’idea delineata di ciò che forse era accaduto. Era forse
sangue o …
Intanto guardai Samantha
zoppicare. Le si era staccato un tacco.
«Come è successo?» le domandai
imperturbabile.
«A che ti riferisci?».
«Al tacco no?» dissi indicandolo
«come se lo è rotto?».
«Oh!» esclamò quasi imbarazzata
«è … è successo nel parcheggio quando ... ho pensato di aver perso il mio portachiavi
lì».
«L’ha ritrovato?».
«Che cosa?».
«Ma sì, il portachiavi, no?».
«Ah, sì! Certo!».
Mentre parlavo con lei notai
delle piccole bruciature sul pavimento. Erano come se fossero state causate da
una forza che strusciasse con tutta la forza che aveva in corpo. Ormai era
palese, il colpevole dell’omicidio era lei!
CAPITOLO
III – Deduzioni per distruggere
«Mi dica, si è divertita?» le
domandai alzando il tono di voce.
«Che … che cosa?».
«Suvvia, deve essere stato
divertente per un mostro come lei … uccidere una persona!» mi fermai per un
attimo che sembrò un millennio «Perché è lei l’assassino di Scerini, non è
vero?».
Rimase a guardarmi un attimo, poi
abbassò lo sguardo e cominciò a provocarmi.
«Mi avevano detto che avevi
risolto parecchi casi … ma a quanto pare stavolta hai proprio toppato. Non hai
prove contro di me, ragazzino» mi disse facendosi sventolare i lunghi capelli.
La gente nella stanza mi guardava. Novato e Ducato erano immobili come statue
di cera e Flavio si era appoggiato al muro e si sentiva naturalmente debole per
gli antibiotici.
«Ricostruiamo passo per passo
come sono andati i fatti. Innanzitutto, lei è venuta qui ed ha preparato tutto.
Ispettore, come ha detto Bianca poco fa, lo schienale del letto è davvero
troppo avanti perché il malato stesse comodo. E’ palese dunque che qualcuno
l’abbia manomesso».
«Spiegati meglio, Alex. Non
capisco cosa vuoi dire».
«Vede quella stampella? Quella a
terra? La usava il malato per sorreggersi. La malattia lo sfiancava e gli
provocava debolezza e spossatezza, ma guarda caso al momento del ritrovamento
del corpo è stata ritrovata a terra. Le pare che una persona che abbia
necessità della stampella la metterebbe mai a terra mentre è a letto? E’ come
se Flavio dovesse alzarsi senza di essa. Non ci riuscirebbe mai dato il colpo
che ha subito e di conseguenza rimarrebbe inchiodato nella posizione in cui si
trova».
«E quindi? Continua!».
Mi strofinai gli occhi
appoggiandomi verso il muro che volgeva a ovest della stanzetta.
«La stampella è a terra perché è
stata messa all’interno del meccanismo che serve per regolare l’altezza dello
schienale del letto! Guardi meglio, c’è uno spazio ovale che permette
l’incastro! La signorina Samantha ha incastrato quella stampella nel meccanismo
che può vedere alla sinistra del letto e ha predisposto lo schienale in una posizione anomala facendo così in modo
che la vittima fosse invogliata dal regolarlo. E così è stato. Scerini voleva
regolare l’altezza del letto, ma si è accorto che il meccanismo era troppo duro
da smuovere. Non vedendoci bene, deve aver pensato ad un malfunzionamento e
così ha fatto forza … senza sapere che così avrebbe certamente firmato la sua
condanna».
«Cosa vuoi dire?».
«Ispettore, prenda un oggetto
fragile di un certo peso. Si faccia recapitare un’anguria e simuliamo come è
andata».
E così fece. Novato preparò tutto
come gli avevo indicato. Flavio e Bianca mi guardavano quasi come fossi un
idiota e Andrea invece continuava a sorridermi. Che tipetto, mio fratello.
«Ecco, è tutto pronto, ora cosa
dobbiamo fare?» mi chiese Ducato.
«Provi a fare forza sul
meccanismo per alzare lo schienale del letto, su, provi».
L’ispettore parve un po’
impaurito, ma poi fece come gli avevo detto.
«Non si smuove» disse nello
sforzo.
«Suvvia, spinga con tutto sé stesso,
immagini di fare una gara a braccio di ferro».
E alla fine il miracolo si compì.
L’anguria fu sbalzata in avanti e finì dritta in frantumi sul vetro della porta
finestra del balcone. Tutti la guardavano stupita.
«Ora capisco! E’ stata utilizzata
la forza d’inerzia!» esclamò Flavio.
«Esattamente» acconsentii
«Abbiamo un vincitore!» ironizzai.
«Vuoi dirmi che … la vittima è
stata sbalzata verso la porta finestra?».
«Certo che sì … e come vede è
possibilissimo. L'inerzia è descritta dal primo principio della dinamica,
il principio di inerzia, o prima
legge di Newton, che afferma che un corpo permane nel suo stato di quiete o
di moto rettilineo uniforme a meno che non intervenga una forza esterna a
modificare tale stato. In poche parole, la vittima, essendo debole, ha provato
a fare forza nel meccanismo. Inizialmente lo schienale è andato leggermente
indietro, ma poi l’incastro della stampella è prevalso sulla forza dell’uomo e
lo schienale è ritornato in avanti in modo repentino. Essendo la vittima
debilitata nel fisico, e molto leggera, deve essere stato un gioco da ragazzi
buttarlo in avanti e scaraventarlo a terra».
«Ora comprendo tutto!» esclamò
Ducato.
«E allora? Grazie per la lezione
di fisica, ma la mia amica non c’entra nulla!» mi rimproverò duramente
Giuseppe.
«Davvero? E allora mi spieghi come
mai ci sono delle tracce di rossetto sulla stampella. Glielo dico io perché. La
sua amica ha per indole naturale quella di toccarsi il labbro superiore. Questa
abitudine è forzata dal fatto di aver subìto da poco un’operazione chirurgica.
Peccato che deve aver toccato le sue belle labbra anche mentre preparava il suo
piano diabolico».
«Hai solo questa prova?» mi
chiese ancora.
«Oh no, tranquillo. Ragioniamo,
ok? Lei non era in rapporti amabili con la vittima. E per quanto ne so io,
accompagnava la sua amica per una semplice funzione di cortesia in quanto in
questi giorni di ricovero della vittima lei non è mai stato nella stanza per
più di cinque minuti!».
«E questo cosa vuol dire?»
domandò incredulo.
«Vuol dire molto. Perché la
vittima avrebbe dovuto permettere ad una persona che non sopporta nemmeno, di
venire a rovistare nella sua camera d’ospedale? Mi dia retta, non le avrebbe
permesso di spostarle il letto o di regolarglielo. Così, quando ha visto il
letto troppo indietro, deve aver pensato che la sua amata Samantha glielo aveva
regolato in quel modo per sbaglio. Così le ha chiesto di metterglielo più
avanti mentre era fuori per i controlli quotidiani. Ed è lì che la sua amica ha
architettato il suo diabolico piano. Non può certo aver pensato a lei quando
…».
«Sei solo un ciarlatano!» mi urlò
in faccia Samantha. Socchiusi per un attimo gli occhi, poi li riaprii
lentamente.
«Buon dentifricio» commentai.
Vidi Bianca fare un risolino. «Si ostina a negare? Vogliamo parlare del suo
tacco?».
«Gliel’ho già detto! Mi si è rotto
nel parcheggio!».
«Ma Samantha, ragioni» le dissi
guardandola con aria di sfida «dov’è la calce? Dov’è la polvere?».
«Ma a cosa ti riferisci?».
«Lo vede? Talmente che è nervosa
ed agitata, ha dimenticato i lavori edili che si stanno svolgendo nel parcheggio
da almeno tre giorni. Se lei fosse andata davvero in quel parcheggio oggi, sui
suoi vestiti ci dovrebbero essere per forza tracce di polvere o di calce.
Insomma, la scientifica analizzando i suoi vestiti, potrà confermare se lei sia
stata davvero in quel posto, non è d’accordo? E ora mi spieghi» affermai
riprendendo fiato «cos’è quella bruciatura fresca accanto al letto? Sembra come
se qualcuno avesse strofinato qualcosa su quel pavimento, non ho ragione?».
Non rispose. Flavio era in preda
all’eccitazione e mi chiese di spiegarmi meglio.
«Molto semplice a mio avviso.
Quella bruciatura è il segno evidente che la signorina ha lasciato mettendo
forza nell’incastrare la stampella nel meccanismo che serviva per regolare il
letto! E’ per questo che il tacco si è spezzato! E se ho ragione, sulla parte
inferiore del tacco, dovrebbero esserci anche altre bruciature che corrispondono
perfettamente a quelle sul pavimento!» conclusi trionfante.
«Non puoi permetterti di …»
iniziò Giovanni.
«Lascia stare … l’ho ucciso io …»
si arrese la donna.
«Ma perché? Perché l’hai fatto?».
«Voi non lo conoscevate come lo
conoscevo io. In realtà Scerini si nascondeva sotto i panni di carpentiere e
invece era semplicemente un usuraio che commerciava droga. E’ colpa sua se mio
fratello è morto drogandosi! Quel bastardo! Quel maledetto!».
«Lei è una stupida signorina»
intervenni.
«Co – cosa?».
«Ha capito benissimo. Mi spiace
molto per suo fratello, ma la droga è stata una sua scelta sbagliata ed è morto
per colpa sua, non per lo spaccio della vittima. Non ci si droga mai. La colpa
ricade sempre su se stessi in quanto la droga è uno strumento autolesionista ed
ingiustificabile».
Rimase a fissarmi per cinque
secondi circa, poi comprese che avevo ragione e scoppiò in lacrime. La donna fu
arrestata e condannata per omicidio premeditato.
Flavio fu dimesso dall’ospedale
la mattina dopo e quando pensavamo che avesse finito le lamentele, ricominciò
di nuovo. Stavolta lo assillava il tremendo dolore che ancora gli permaneva
sullo stinco. Era in ospedale e si lamentava, stava fuori e si lamentava per il
dolore e perché non aveva nulla da fare. Si sarebbe lamentato anche in
compagnia di Marilyn Monroe?
ANTICIPAZIONE EPISODIO 41: Che cos'è la paura? Per tanti è il timore di perdere le cose che ami, per altri è non avere la libertà. Per i nostri è una lettera. Già, una lettera fittizia nella quale all'apparenza c'è un caso molto interessante. Destinazione Toscana, dunque, terra di grandi poemi e d'arte. Ci sarà da divertirsi tra vecchie e nuove conoscenze e con un cervello da definire malato. ALEX FEDELE EPISODIO 41 - GITA IN TOSCANA(1°Parte). SOLO QUI A PARTIRE DAL 9 Giugno 2012! NON PERDETELO PER NESSUNA RAGIONE!!!
Nessun commento:
Posta un commento
Commenta qui e dimmi che ne pensi!