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sabato 17 marzo 2012

Alex Fedele Great Enigma #1: Il ponte del diavolo


IL PONTE DEL DIAVOLO

PROLOGO: Un incontro in un club di medicina diventa il pretesto per una strage macabra e inarrestabile. Ma chi è il dottore del ... male?

Sigla di oggi: "These days" by Bon Jovi






Non c’erano neanche i biscotti. Accidenti a Flavio. Toccava a lui fare la spesa e come al solito se n’era dimenticato. Ma cos’aveva in testa? Il risultato era che per colazione al massimo avrei potuto mordermi le mani. Vagavo nella casa ancora insonnolito in cerca di qualsiasi cosa fosse commestibile. La sera prima non avevo ancora cenato. Che ci volete fare? Ero stato preso da un appassionante giallo che trasmettevano sul canale 9. Era praticamente un kolossal del giallo. Un film dedicato a Sherlock Holmes dalla durata di tre ore e cinquanta. Spettacolare. Per tutta la sera dovetti sorbirmi le domande di Bianca, Andrea e Fabio. Mi chiedevano qualcosa sulla storia del film, dialogavano tra loro di patatine e pop corn e parlavano di varie cose disinteressandosi completamente. Ma dico io, stai guardando un film giallo, devi assolutamente zittirti! Non puoi perdere nemmeno una battuta del film, altrimenti non capisci più niente. Ma a loro non importava. Aspettavano che Holmes cominciasse il suo show di deduzioni, mentre io cercavo di anticiparlo e di svelare qualcosa prima di lui. Presuntuoso? Sì, leggermente.
«Ehilà, come andiamo stamattina?» Bianca era scesa dal piano superiore con un’energia che non avrei mai potuto avere nemmeno se fossi stato un bambino. Era prima mattina e già sprizzava euforia da tutti i pori. Valla a capire.
«Potrebbe andare meglio».
«Come mai?» disse versandosi del latte.
«Non ho trovato i biscotti … Flavio … ».
«Si è scordato di nuovo di fare la spesa!» concluse in modo seccato.
«Ehm … sì, ma non è il caso … ».
«Ma dove diamine ha la testa? Ora vado a dirgliene quattro!».
«E calmati dai … ». L’afferrai per le spalle e la girai verso di me. I nostri occhi si incontrarono e ci fu un momento in cui mi parve che il tempo del mondo si fermasse. I suoi capelli le cadevano candidi sul viso e la sua espressione non lasciava intravedere nessun sentimento certo. Sono certo che passarono solo pochi secondi, ma furono i più incerti della mia vita ed ebbi l’impressione che avrei potuto passare anni e anni solo a fissarla negli occhi. Ok, con Bianca si era venuto a creare un rapporto speciale che si era instaurato dopo giorni e giorni di scherzi, battutine e conversazioni. Era quel che si diceva “rapporto complicato”.
«O-ok … » sussurrò imbarazzata. Ci scollammo dalle nostre posizioni e dopo un attimo di soggezione fortemente serrata cominciai a parlare cercando di smorzare i toni.
«E Flavio dov’è finito?».
«Non lo so …» continuò tenendo lo sguardo basso.
«Forse è il caso che vada a vestirmi … sembro un pensionato con questa maglietta grigia e questi pantaloni della tuta … ».
«Già, sei buffo» disse facendo un risolino.
Mi diressi al piano di sopra e notai che mio fratello si era già svegliato.
«Già in piedi? Sono solo le otto, di solito la Domenica dormi almeno fino alle dieci».
«Lo so fratellone, ma il fatto è che avevo mal di pancia … ».
«Mal di pancia?».
«Già … ».
«E dimmi un po’, non saranno per caso quei torroncini che ieri pomeriggio hai divorato? Quelli inviati dalla nonna di Bianca?».
«Non credo … » rispose con una risatina in faccia che lasciava presagire tutto il contrario a quanto da lui sostenuto.
«Io credo di sì invece …» affermai carezzandogli la testa. «Dai che passa tutto. Quando scendi giù ti do qualcosa per fartelo passare, ma la prossima volta non mangiare così tante schifezze, d’accordo?».
«Sì fratellone».
«Bene, ora vai a vestirti, marinaio!» gli dissi scherzando.
«Fratellone?».
«Sì?».
«Tu sei bravo a risolvere gli indovinelli giusto?».
« Perchè?».
«Perché ieri alla televisione hanno fatto un indovinello e se lo risolvevi vincevi una macchina bellissima!».
«Uao! E com’è questo indovinello?».
«Ce l’ho scritto in cameretta. Lo vado a prendere».
Mio fratello camminò a piccoli passi verso la sua cameretta. Cominciava ad abituarsi a Torino. Sia al clima, che alla gente. Per non parlare poi dell’atmosfera frenetica. Diceva che Torino era una “città per i grandi” e allora si era … adeguato all’idea.
«Eccolo!» mi disse porgendomi un bigliettino.
Lo aprii delicatamente, poi cominciai a leggere.
«”Si hanno quattro palline che sono uguali nell'aspetto, ma una di esse ha un peso diverso. Si deve individuare questa pallina avendo a disposizione una bilancia a due piatti. Qual è il numero minimo di pesate che occorre effettuare per risolvere il problema?”».
«Vero che è difficile?».
«Be’, non è così facile … ma basta concentrarsi un po’ …  » affermai portandomi una mano al mento.
«Allora?» domandò impaziente mio fratello.
«Per risolvere il problema sono sufficienti due pesate secondo me. Denominiamo le palline con A, B, C e D. Per individuare quella diversa si fa così: nella prima pesata si mettono a confronto A e B, e si annota se si è avuto equilibrio oppure no; Nella seconda pesata invece si toglie una pallina,ad esempio B, e la si sostituisce con un'altra, cioè si confronta A con C, ed anche in questo caso si controlla se c'è o meno equilibrio. A questo punto, a seconda degli esiti delle due pesate si possono avere quattro diversi casi, in ognuno dei quali è possibile individuare la pallina di peso diverso».
«E cioè?».
«In sintesi è come se avessimo questa tabella … ». Impugnai la matita e cominciai a disegnare una tabellina per spiegare meglio il concetto.

PESATA 1
PESATA 2
PALLINA DIVERSA
EQUILIBRIO
EQUILIBRIO
D
EQUILIBRIO
SQUILIBRIO
C
SQUILIBRIO
EQUILIBRIO
B
SQUILIBRIO
SQUILIBRIO
A

Mio fratello rimase a guardarmi come un alieno e vidi che teneva lo sguardo fisso dietro le mie spalle. Mi girai e vidi Bianca che stava osservando tutta la scena. Aveva gli occhi vispi e un sorriso luminoso dipinto sul volto.
«Mi spiegherai un giorno come fai, vero?».
«Ah ah ah! A fare cosa?».
«A risolvere questi … enigmi in così poco tempo. Dimmi la verità, hai un trucco non è vero?».
«Ma quale trucco? E’ solo questione di allenamento … ».
«Cioè?».
«Non so … a volte mi viene naturale … che ne so … contare ad esempio il numero di gradini su una scala, oppure creare codici segreti, risolverli da me … insomma, esercizi di questo genere».
«Grazie fratellone! Sono sicuro che vincerò!» interruppe mio fratello.
«Lo penso anch’io, ma la macchina non potrai guidarla fino a diciotto anni però … poi non fare i capricci, mi raccomando».
«Perché devo aspettare diciotto anni? E’ questa la macchinina che dicevo prima» affermò estraendo un volantino dove era disegnata un modellino di una Porsche 911.
«Che cosa? E’ quella la macchina che dicevi?!» dissi incredulo. Per un attimo avevo pensato si trattasse di una macchina vera. Che stupido.
«Ah ah ah! Il grande detective incastrato da un ragazzino!» cominciò a ridere Bianca.
«Non è divertente …».
«Ah, eccome se lo è! Dovresti vedere la tua faccia! Ah ah ah!».
Insomma, in sintesi avevo Andrea che sghignazzava nell’orecchio sinistro e Bianca che invece rideva approfittando del mio orecchio destro. Ed io ero al centro della scena come l’idiota al quale hanno detto di non vestirsi a Carnevale e poi tutti i suoi amici sono vestiti e lui fa la figura del tonto.
Andai a vestirmi, ma mentre ero in procinto di mettermi la mia felpa preferita sentii la voce di Flavio che mi chiamava e quella di Fabio che lo aiutava a chiamarmi. Chissà cosa diamine volevano.
Scesi giù in soggiorno e notai che tutta la famiglia era riunita sul divano. Erano tutti vestiti e 9 se ne stavano belli che rilassati. Insomma, una pacchia. Scendendo giù per le scale, rallentai per un attimo il passo.
«Qualunque cosa sia successo … non è colpa mia» tentai di giustificarmi, ma Bianca mi venne a prendere e mi trascinò su di una poltrona.
«Perché pensi che ce l’abbiamo con te?» domandò Flavio.
«Chiamalo sesto senso … ».
«Hai toppato amico» intervenne Fabio. «Vi ho fatti venire tutti qui perché volevo domandarvi una cosa. Di recente ho incontrato alcuni amici dell’università e mi hanno chiesto di andare con loro in una località di montagna. Hanno fondato un club dedicato alla medicina e allora volevano discutere con me di alcune questioni della medicina moderna».
«Hai capito il mio figliolo! Non è che c’è di mezzo qualche ragazza?».
«Per niente! Lo sai che ho un … diciamo un rapporto speciale con Martina» rispose questi quasi adirato.
«Ok, ok. Non scaldarti, che permaloso … ».
«La riunione» continuò Fabio «si terrà domani a Borgo a Mozzano, una piccola località toscana».
«Borgo a Mozzano?» interruppe Sergio. Sergio era praticamente invisibile nelle lunghe giornate in ufficio. Si sedeva alla sua scrivania, svolgeva le solite pratiche ed era capace di stare in silenzio per ore. Non che fosse apatico, sia chiaro, ma sicuramente non era esattamente un tipo loquace. Era goffo, esaltato riguardo ad alcune cose, ma sicuramente non era un tipo loquace.
«Già, perché?».
«Non è … non è quella località dove c’è … dove c’è “Il ponte del diavolo”?».
«Ha ragione» commentò Flavio «anni fa raccontarono di quella leggenda in un programma televisivo».
«E’ vero, ma ne esistono varie versioni» intervenni.
«Di cosa state parlando?» domandò Fabio a suo padre.
«Ma sì, quella leggenda che gira da un sacco di anni. Il sinistro nome di ponte del diavolo è dovuto a una leggenda di cui esistono varie versioni. Quella che conosco io è quella nella quale si narra che il compito di edificare il ponte fu affidato a S. Giuliano l'Ospitaliere. L'opera si rivelò fin dall'inizio, di difficile realizzazione. Il capomastro, resosi conto che non avrebbe completato il ponte per la scadenza prevista era nella disperazione, ma una sera, mentre sedeva da solo sulla sponda del Serchio a guardare il lavoro, gli apparve il diavolo a proporre un patto. Il maligno avrebbe terminato il ponte in una sola notte, ma ad una condizione: avrebbe preso la prima anima che avesse attraversato il ponte. Il patto fu siglato e  in una sola notte il diavolo con la sua forca sollevò la grande campata del ponte. Il costruttore, pieno di rimorso, andò a confessarsi da un religioso che gli disse di rispettare il patto, ma di aver premura che il primo ad attraversare il ponte fosse un maiale. Il giorno successivo, il capomastro impedì l'accesso, e fece attraversare per primo il ponte alla bestia. La leggenda vuole che il diavolo, inferocito per la beffa, si gettò giù dal ponte nelle acque del Serchio, e non si fece rivedere mai più da quelle parti».
«Insomma finisce bene» disse quasi rasserenata Bianca.
«Non direi … secondo altre voci si dice che il ponte è tuttora maledetto e che se il diavolo dovesse trovare un’anima che gli possa interessare … sarebbe la fine» aggiunsi.
«Insomma, perché devi mettermi paura?!» urlò Bianca stringendomi il braccio in una morsa.
«Ahi! Ma che paura e paura?! E’ una leggenda!».
«N- non lo sai che le leggende hanno anche un fondo di verità?».
«Storie! Se questa storia fosse reale lo sai quanta gente sarebbe morta passando per quel ponte?» intervenne Flavio.
«Quoto tuo padre … » aggiunsi.
«E’ perché avete tutte e due la stessa fissa! Credete solo a ciò che vedete!» rimproverò Bianca.
«Insomma» intervenne Fabio «volete venire con me a quel raduno?».
«Cosa? E perché dovremmo?» domandò Flavio.
«Io ci voglio andare!» disse mio fratello.
«Be’, non vi piacerebbe vedere la Toscana, il famoso ponte … e poi detto tra noi papà … in Toscana si mangia benissimo … ».
Ecco la parolina magica. Flavio divorava praticamente di tutto. Vederlo a tavola era come assistere ad una strage alimentare.
«Improvvisamente mi sento coinvolto nel fantastico mondo della medicina!» affermò facendosi una grassa risata.
Sì, come no.
Poi continuò «Ti serve un portafoglio disposto a scucire, non è vero figliolo?».
«Che grande intuito mio padre!» commentò Fabio in una risata tragicomica.
«Andrete senza di me allora … io ho paura di quel ponte e non voglio certo vederlo da vicino …» disse Bianca.
«Figliola, se tu rimani qui anche io devo farlo e … con tutto il rispetto … non ho nessuna voglia di rinunciare ad una bella bistecca toscana!».
«Ci rimango qui io con lei» commentai a voce bassa.
«Cosa?».
«Be’ che vuoi? Se proprio non vuole venire … ci rimango io con lei … ».
«Non posso lasciarvi soli. Per due motivi. Uno perché non mi piace che due adolescenti siano soli in casa e due perché pur essendo maggiorenne, il PSD prevede che io debba portarti sempre con me e trattarti negli obblighi quasi come un minorenne».

Tre ore dopo, alle tredici e ventidue, eravamo in viaggio in treno, destinazione Toscana. Il comune di Borgo a Mozzano era descritto sui depliant e su internet in modo esauriente e coscienzioso. Aveva più di 7000 abitanti ed era famoso principalmente per quella vecchia leggenda del ponte maledetto. Era in provincia di Lucca e se ne stava ad un’altitudine di ben 97 metri sul livello del mare.
Nel corso del viaggio ognuno di noi si occupò delle cose che più gli piacevano. Flavio cominciò a leggere ogni qualsivoglia quotidiano di provenienza italiana. Alla fine, quando finirono, cominciò a leggere anche quelli specializzati in economia che provenivano da altri paesi. Fabio smanettava con il suo cellulare in modo insistente e quasi fastidioso. Una volta arrivava un messaggino da Martina, un’altra volta si attaccava ai giochini scaricati in rete ed ancora, navigava e consultava siti a più non posso. Medicina? Sì, gli piaceva parlare di questo argomento, ma il problema era proprio quello. Gli piaceva solo parlarne. Certo, la buona volontà c’era sicuramente visto che aveva acquistato libri su libri della facoltà per studiarli. Ma era iscritto ormai da due anni ed aveva dato solo un esame. Nel frattempo aveva lavorato però in modo ininterrotto. Non gli piaceva stare con la testa sui libri. Prima di trasferirsi di nuovo a Torino fece il barista. Una volta arrivato in Piemonte cominciò un periodo di praticantato in ospedale. Era un praticantato molto particolare stipulato dal comune. Era riservato agli studenti in medicina e permetteva, sotto pagamento di una piccolo indennizzo, di ricevere mensilmente uno stipendio proporzionale alle ore che nelle quali si lavorava. Era un po’ come un pagamento a gettone per intenderci. Quando voleva dare una mano, chiamava il centralino e il giorno dopo andava a farsi le sue quattro o cinque ore di praticantato. E veniva cospicuamente retribuito. In questo contesto io e Fabio avevamo qualcosa in comune. Ve lo confesso, non ho mai amato studiare. Ok, andavo a scuola, facevo interrogazioni su interrogazioni, compiti su compiti a casa e riuscivo a cavarmela in tutte le materie. Ma non mi piaceva, che ci potevo fare? Se per prendere otto dovevo lavorare quattro ore, preferivo lavorare per due e prendere un sette. Capito la mia filosofia? Sono sempre stato del parere che i voti non classificano l’intelligenza di una persona e che chi lo pensa è solo una capra. La scuola di oggi è totalmente corrotta ed imprescindibilmente sporca al di là di ogni pregiudizio morale. La maggior parte dei professori attua un violento ma indolore piano  per mettere in evidenza chi vuole e lasciare indietro magari lo studente più dotato o magari più volenteroso, o magari possessore di entrambe le caratteristiche. Io, dal canto mio, la scuola l’avevo sempre vista come un intoppo. Sapevo che era importante e probabilmente non saprei nemmeno scrivervi queste parole se non l’avessi frequentata con costanza e regolarità, ma ero e sono convinto che sia corrotta e che alla base di tutto ci sia un circolo vizioso di preferenze, soldi, mazzette e corruzione socio politica. Insomma, prendevo ottimi voti, mi impegnavo discretamente perché dovevo farlo, ma non mi piaceva per niente. E quando mio madre seppe del mio trasferimento a Torino per il PSD, decisi di non iscrivermi a nessuna facoltà. Solo in seguito decisi di iscrivermi a sociologia. Lo feci solo per tranquillizzarla. Non voleva che se il PSD fosse andato male, mi fossi ritrovato senza nulla a cui aggrapparmi. Ma per quel momento, non avevo ancora toccato libro.
Andrea giocava con i suoi personaggi preferiti e teneva in mano il cubo di Rubik. Amava all’inverosimile quel piccolo giochino e ci stava ore prime di mollarlo.
Sergio era davvero molto impegnato con il suo solito lavoro. Catalogava sul suo pc in ordine, tutti i redditi dichiarati da Flavio negli ultimi dieci anni e se ne stava tranquillo come se stesse facendo la cosa più facile e leggera di questo mondo. Ogni tanto si lisciava la barba con il dorso della mano, quasi a significare stanchezza ma equilibrio. Vallo a capire.
Invece Bianca scaricava la tensione con la musica. Il suo iPod era ormai logoro da centinaia e centinaia di riproduzioni musicali che si susseguivano senza nessuna pausa. Era capacissima di stare un pomeriggio intero con le cuffie nelle orecchie. Ascoltava di tutto, dal rock soave e deciso di Bon Jovi alle percussioni ritmate degli Aereosmith. Ma la sua passione erano i Guns n’ Roses. Ne andava davvero matta ultimamente. Ascoltava e riascoltava pezzi arcinoti come “Sweet child or mine”, “November rain” e “Knockin’ on Heaven’s door” scritta originariamente da Bob Dylan.
«Sei nervosa?» le chiesi togliendole la cuffietta delicatamente e sfogliando un giornale sportivo.
«Un po’ … ».
«E perché mai? Non sei contenta di viaggiare?».
«Io sono contenta di viaggiare. Ciò di cui non sono contenta è di viaggiare in un posto dove si sospettano maledizioni e cose varie!» sbuffò.
«Ma dai» le dissi porgendole la cuffietta «finiscila di dire cavolate. Non esistono maledizioni o cose del genere, altrimenti tuo padre sarebbe disoccupato da un bel po’ di tempo … ».
«Tsk! Parli facile tu … lo sai cosa è successo ad una mia amica?».
«Che cosa è successo a questa tua amica?» dissi ripetendo annoiato le parole.
«Un giorno è andata in un luogo dove c’era la maledizione e … è tornata con tre giorni di ritardo perché ha detto che era stata chiamata dai demoni e …» finì la frase urlando a squarciagola e facendoci rimproverare dai controllori del treno. Che imbarazzo. Lo ammetto, per qualche secondo finsi di non conoscere nessun membro di quella famiglia.
Il viaggio fu estenuante. Durò sette ore e mezza, nelle quali ci fu silenzio per la maggior parte del tempo. Ad un tratto avrei voluto proseguire a piedi, lo giuro. Era davvero troppo brutto restare fermi.
Comunque, alle otto di sera arrivammo a casa degli amici di Fabio. Avevamo dovuto prendere un taxi con un tassista davvero molto spiritoso. Per tutto il tempo della corsa non aveva fatto altro che fare battute sulla leggenda e sul famoso ponte. Risultato: Bianca ancora più spaventata, urla così forte da infrangere ogni scala dei decibel esistente e tanta stanchezza. Fatto sta che verso le otto di sera ci trovammo di fronte ad una sorta di baita in montagna. A dir la verità non era male. Era livellata su due piani, costruita da chissà quali mani adulte ed esperte. La struttura era in legno, ma si vedeva che avrebbe resistito anche ad un tornado. La particolarità di quella baita era che si trovasse proprio ad una trentina di metri di distanza dal famigerato ponte. Fu incredibile ammirarlo da vicino. Oltre ad essere lunghissimo, si estendeva in discesa. Un aggettivo che calzerebbe a pennello per descrivervelo è sicuramente questo: possente.
«Che struttura … » osservò Fabio.
«Che paura!» commentò Bianca.
«E dai fifona, te lo ha detto anche Alex prima! Le maledizioni non esistono. E’ solo un modo per attirare il turismo, lo vuoi capire?».
Bianca osservò suo padre dirle queste cose in silenzio. Nel frattempo, forse inconsciamente, si era attaccato al mio braccio.
«Ehm … scusa … puoi lasciarlo?».
«A cosa ti riferisci Alex?».
«Al mio braccio Bianca … sai com’è … mi serve … » ironizzai.
«Ah … a quello! Scusami, non me ne sono proprio accorta!».
«L’ho notato» dissi facendo un risolino.
Fabio suonò il campanello accostato vicino ad una grande porta di legno massiccio. Ad aprirla e a presentarsi a noi, un uomo sulla sessantina , con le tempie imbiancate abbastanza per poter dire la sua in ogni situazione. Le rughe che gli solcavano il viso gli conferivano un aspetto vagamente esperto e a dir poco maturo. Il mento importante invece era quasi sinonimo di orgoglio e il naso aquilino completava il quadro.
«Fabio! Che piacere vederti!».
«Il piacere è tutto mio professor Ferretti».
«E così questo è il tuo professore?» domandò Flavio.
«Ma che piacere! Hai portato anche la tua famiglia!» commentò entusiasta. «Venite che vi presento gli altri membri del club».
Entrammo in quella sorta di baita e subito fummo riscaldati sia dall’atmosfera, sia dalla casa in sé per sé. Dopo aver percorso un piccolo corridoio, ci ritrovammo in uno spaziosissimo salone decorato con mobili di colore bianco. I membri del club erano numerosi ed erano tutti accomodati intorno ad un tavolo di colore nero apparecchiato per la cena. Alcune persone erano vicine ai fornelli e si dimenavano cercando probabilmente di preparare la cena per tutti i membri del club della medicina.
«Ok, che fate, iniziate voi a presentarvi o vi presento uno per uno i nostri magnifici studenti e non?» ci chiese Ferretti.
«Cominciamo noi» commentò Fabio. Poi cominciò le presentazioni. «Per quanto mi riguarda mi conoscete già, quest’uomo con la barba è mio padre Flavio, questo ragazzo con la valigetta è il suo assistente burocratico, Sergio. Poi c’è Bianca, mia sorella, il piccolo Andrea e quel ragazzo con i capelli neri chiamato Alex».
«Che bella famiglia!» commentò ancora una volta Ferretti. «Bene, io mi chiamo Raimondo Ferretti e vi pregherei di non commettere lo stesso sbaglio di Fabio di poco fa e cioè di chiamarmi professore. Mi fa sentire vecchio, chiamatemi semplicemente Raimondo» disse con un largo sorriso.
Poi continuò andando in giro per tutto il salone. Indicò un ragazzo di circa trent’anni, con lunghe e folte basette e occhialini classici.
«Questo è Federico Penna, laureando in medicina. Deve solo prendere la specializzazione e sarà medico a tutti gli effetti. E’ uno studente modello ed un genio col computer!».
«Buonasera a tutti … be, me la cavo, ma non esagerare Raimondo» salutò quest’ultimo in palese stato di imbarazzo. Salutando agitò i suoi anelli. Ne aveva molti ed erano vistosi, molto vistosi. Che tipo.
«Oh che bel ciondolo!» osservò mio fratello Andrea indicando una sorta di bellissimo monile che Federico portava al collo. Era a forma di conchiglia e conteneva acqua.
«Ti ringrazio piccolo. Contiene acqua del mare dei caraibi, lo sai?».
Mio fratello rimase affascinato da quella meravigliosa pietra contenente acqua. Non so di cosa fosse fatto, ma sicuramente non poteva subire urti considerevoli. Chissà quanto ci teneva.
«In quanto a questa meravigliosa creatura» continuò Raimondo accostandosi vicino ad una ragazza molto giovane con lunghi capelli castani e con vistosi orecchini «si chiama Giulia Foglia ed è una dottoressa a tutti gli effetti. Si è laureata l’anno scorso e quest’anno si è specializzata come chirurga. E’ uno dei vanti della medicina italiana. Ha venticinque anni ed è già dottoressa!».
«Non esagerare Raimondo. Buonasera a tutti».
«Lei invece è Fabiola Portina, una mia ex allieva che adesso lavora in un studio medico a Lucca. Lei è specializzata in malattie rare» affermò carezzando la testa di una donna sui trentacinque anni. Aveva i capelli biondi e l’aria un po’ snob.
«Piacere di conoscervi» si limitò a commentare.
«Ed ecco l’ultima» insistette Raimondo Ferretti avvicinandosi al piano cucina. «Lei è Maria Donzeni, una dottoressa divenuta ormai famosa da queste parti». La ragazza in questione aveva pressappoco la stessa età di Fabiola, ma manteneva un’aria più rilassata e nettamente più giovanile.
«Non gli date ascolto. Comunque piacere di conoscervi».
«Datemi ascolto invece! La nostra Maria si è accorta durante un’operazione a cuore aperto che uno dei fili per ricucire la parte che era stata tagliata era già stato usato. E’ diventata praticamente un’eroina. Ora tutti parlano di lei».
«Uh? Non sapevo di questo caso di mal sanità. L’ospedale avrà chiuso immagino» commentò Flavio.
«Immagina bene. La polizia attuò un blitz e allora trovarono alcuni pazienti rinchiusi in uno stato davvero pietoso».
«Che brutta storia … » ribatté ancora Flavio.
«Bene, basta però pensare a questa storia. E’ meglio se andiamo a tavola».
Fu una cena davvero piacevole. Devo dire che quelli del club della medicina furono straordinari nel metterci perfettamente a nostro agio. Dialogammo in contesti rilassati, fecero domande a tutti noi per conoscerci meglio e fu davvero piacevole scoprire come era stato creato quel famoso club della medicina.
«L’idea venne proprio a Raimondo» disse Giulia Foglia. La ragazza che a soli 25 anni si era laureata era membro del club da ormai tre anni e stando a quanto diceva, era orgogliosa di esserlo, no, era davvero fiera.
«Già, Raimondo è sempre stato un geniaccio … » commentò Fabiola Portina.
«Oh, non esagerate» disse Raimondo cercando di “addomesticare” i suoi spaghetti alle vongole.
«Be’ ammetterà che l’idea è abbastanza originale» affermai sorseggiando un po’ d’acqua.
«Senza dubbio ragazzo. Sapete, lo fondai circa cinque anni fa con l’idea di offrire a chiunque studiasse medicina di confrontarsi con laureati e non riguardo i problemi spinosi delle proprie tesi. Mi sembrava una cosa tranquilla, utile e al tempo stesso gentile».
«Le pareva bene» interruppe Sergio. «Quando mi sono laureato io» continuò aggiustandosi il colletto della camicia «magari ci fosse stato un professore che avesse fatto quello che lei fa adesso per i suoi alunni … è sorprendente!» disse già in preda all’eccitazione.
«Oh, in cosa è laureato lei?».
«Visto il lavoro che faccio, ho dovuto laurearmi in Economia e Commercio alla facoltà di Torino».
«Complimenti allora! E’ molto che possiede la laurea?».
«Sono più di dieci anni».
«Ma lei di cosa si occupa esattamente?».
«Vediamo come posso rendere l’idea … mi occupo della parte burocratica del lavoro del detective Moggelli. Cose come contributi, dichiarazioni dei redditi, parcelle … ha capito insomma … ».
«Ha detto … detective Moggelli? Ma allora quel ragazzo …  Fabio!» urlò alla fine Raimondo.
«C- cosa c’è?».
«Tuo padre è il detective Moggelli? Tu sei figlio di quel Moggelli?».
«Be’ sì, ma non credevo le importasse, insomma siamo qui per … ».
«Ma come?! Mi importa tantissimo! Ora sono ancora più felice di conoscerla Flavio! E quel ragazzo che è con lei allora è … ».
«Alex Fedele, al suo servizio» dissi accennando un sorriso imbarazzato.
«C’è anche il detective prodigio! Ho seguito molti tuoi casi ragazzo! Farai una grande carriera!».
Anche la gente attorno al tavolo continuò a lusingare le gesta di Flavio. Ci fu anche un po’ di gloria per me quella sera. Mi apostrofarono come “intelligente, colto, preparato, maturo” e roba di questo genere.  Generalmente non amavo i complimenti. Secondo me ti fanno rilassare troppo, ma quella sera fui davvero contento di ricevere qualche elogio.
Continuammo a cenare, e arrivati al dolce, degno trionfo di una serata deliziosa, sentimmo dei rumori, delle voci in particolare. A dir la verità era una sola voce, spaventosa, fredda e corposa che avvolgeva l’ambiente in un sussulto di paura indefinibile.
«Raimondo Ferretti … Federico Penna … Giulia Foglia … Fabiola Portina … Maria Donzeni … » disse la voce misteriosa. Proveniva da fuori, ma da dentro si sentiva in modo abnorme.
«Che cos’è uno scherzo?» domandò Maria.
«Non- non credo … » commentò incertamente e già colmo di paura Federico Penna.
«Ma … viene da fuori …» osservò Fabio.
«Sì … » acconsentì Giulia.
« Raimondo Ferretti … Federico Penna … Giulia Foglia … Fabiola Portina … Maria Donzeni …» ripetè ancora la voce misteriosa. Ma stavolta non era pacata e tranquilla come prima. Era agitata, sadica, veloce, spaventosa.
Decidemmo di andare a vedere. Eravamo tutti spaventati, ma onestamente pensavo si trattasse di uno scherzo di uno dei membri del club. Qualcuno fuori di melone magari.
Fabiola Portina prese subito un’asta di legno che era appoggiata vicino al camino. Hai capito la ragazza.
Uscimmo fuori, con il freddo pungente e con il terriccio umido che ci sporcava le scarpe.
«E’ la maledizione … » continuava a ripetere Bianca in modo monotono attaccandosi al mio braccio.
«Piantala!» la rimproverai all’improvviso. Fui nettamente troppo duro, ma non potevo continuare a vederla in quello stato. Era pallida in viso, aveva gli occhi scavati per la paura e per l’agitazione e dovetti risvegliarla in qualche modo.
Mentre ci avvicinavamo al ponte maledetto, unico nostro punto di riferimento nel buio della tarda sera, altre urla ci riportarono indietro. Ma stavolta erano urla tranquillamente riconoscibili. Raimondo Ferretti urlava a squarciagola e dai rumori che provenivano dalla casa pareva anche che si dimenasse a fatica per cercare di impedire qualcosa di orribile. Nell’oscurità non ci riconoscevamo più nemmeno noi. L’unica persona che riuscivo a distinguere era Bianca, ma solo perché era attaccata al mio braccio. Gli altri erano immersi nella più totale oscurità.
I nostri passi diventavano più veloci e una volta arrivati alla baita, ci ritrovammo di fronte una scena orrenda, che mai avrei voluto vedere.
Il professor Ferretti era steso a terra, esanime, senza alcuna reazione, con il sangue alla bocca.
«Oh mio Dio!» urlò Federico Penna.
«Raimondo!» gridò all’inverosimile Fabio. Fece per andare a controllare, ma lo bloccai. Voleva avvicinarsi al suo professore per l’ultima volta, ma non potevo permetterglielo. Sarebbe toccato a Flavio stabilire i primi verdetti sul corpo. Non poteva ancora avvicinarsi.
«Lasciami Alex! Lasciami!». Mi fece pena, lo ammetto. Con le lacrime che gli solcavano il viso maturo, aveva assunto l’aspetto di un bimbo. Piangeva come un bambino, reagiva come un bambino e guardava la scena con gli occhi sbarrati come tale.
Poi si girò verso di me e cominciò a piangere sulla mia spalla. Non potrei mai descrivervi cosa provai in quei momenti. Rimasi fermo, impassibile, immobile quasi per dogma. Ormai non lo trattenevo nemmeno più. Le sue mani erano attaccate al mio giubbotto e lo tiravano quasi come a cercare di fermare la frustrazione che si era dipinta sul volto di qualunque altro.
Gli carezzai la testa lievemente, ma non sono mai stato bravo in queste circostanze. Quando morì papà, mia madre pianse come Fabio. Stefano fu di gran conforto, riusciva ad entrare nei cuori della gente anche solo con un sorriso. Io ero più freddo, più silenzioso e, pur comprendendo il dolore della gente, difficilmente riuscivo a commuovermi e a darlo a vedere. Le parole rimanevano bloccate tra il cervello e la gola.
Flavio esaminò il corpo, controllò il battito cardiaco. Poi si voltò alla folla che lo guardava in attesa di un responso e scosse la testa in segno di palese disgrazia.
Si alzò pesantemente e in un misto di commozione e professionalità, affermò:
«E’ ora di chiamare la polizia … qualcuno lo faccia!».
«Ho già provato io» annunciò Federico. «ma mi hanno detto che non potranno arrivare qui prima di domattina alle sette. Purtroppo la strada è bloccata da alcuni massi e ci metteranno delle ore per rimuoverli. Li ho visti anch’io visto che quando sono arrivato prima degli altri ho dovuto prendere una deviazione per arrivare qui».
«Non ci voleva!» affermò rabbiosamente Flavio.
«Fatto sta che dovremmo aspettare» commentai «quindi sarà meglio mettere il signor Ferretti da qualche parte in attesa della polizia».
La scena del delitto era molto strana. Sul collo della vittima erano stati rinvenuti sicuramente segni di strangolamento, ma non parevano essere stati provocati da un oggetto o da una qualsiasi arma che servisse per soffocare. C’erano dei piccoli segni circolari in zone disparate del collo che facevano pensare indubbiamente ad un soffocamento a mani nude. I segni erano però evidenti e molto marcati. Sul pavimento inoltre c’era dell’acqua.

Quindici minuti dopo circa, ci ritrovammo tutti nel salone. Nessuno parlava, in quanto il clima era diventato teso, lugubre, elettrico.
«Chi … chi vuole un po’ di caffè?» domandò Fabiola.
Nessuno rispose. Dopo qualche secondo, arrivò la risposta di  Giulia Foglia.
«Come diamine fai a pensare al caffè in una situazione del genere? Ho capito che non amavi esattamente Raimondo ma … ».
«E chi ti ha detto questo Giulia? Ti inventi le cose vedi? Se stai zitta è meglio … ».
«Certo! Ti piacerebbe! Così nessuno saprebbe cosa è successo tre anni fa! Vipera!».
«Come osi? Sgualdrina da quattro soldi!».
Insomma, la situazione stava davvero degenerando e dovette arrivare Fabio a separarle. Che grinta di entrambi però. Probabilmente la situazione non era delle migliori per gustare del caffè, ma non lo era nemmeno per cadere in vili ripercussioni conseguenti alle azioni del passato.
«Signore, calmatevi per favore» richiamò l’attenzione Flavio. «Comunque» disse giocherellando con l’accendino «cos’è successo tre anni fa di così terribile?».
«Perché vuole saperlo?» domandò Fabiola in tono minaccioso.
«Be’ … è solo per orientarmi con … ».
«Non sospetterà di me, non è vero detective? Se è così … ».
«Calmati ragazza mia … io non sospetto di nessuno … sto solo dicendo che … ».
«Infatti il detective Moggelli non sospetta di nessuno» interruppi portandomi una mano al mento. «Il detective Moggelli sospetta di tutti e … francamente con lui anch’io».
«Ragazzino insolente» commentò Federico Penna «come puoi sospettare di noi? E’ di sicuro un piano messo in atto da qualche pazzoide criminale».
«Non ne sarei così sicuro Federico. Infatti, l’assassino ha ripetuto uno dopo l’altro i vostri nomi, senza titubare nemmeno un attimo».
«E questo cosa proverebbe scusa?».
«Ma come cosa proverebbe? Insomma, uno sconosciuto non potrebbe mai conoscere i vostri nomi e cognomi uno per uno e c’è un’altra cosa da aggiungere. Quando siamo usciti per andare a vedere da dove provenisse la voce, le nostre scarpe si sono impregnate di terriccio umido. Ma accanto al cadavere non c’era nessuna traccia di terra. Ciò vuol dire … ».
«Vuol dire che l’assassino era nascosto qui e che quindi sta anche ascoltandoci! Non è vero Alex? Volevi dire questo?» domandò interrompendomi Giulia Foglia.
«Più o meno … » commentai aguzzando gli occhi. Mi parve che Bianca mi stesse osservando da parecchio. Mi guardava come si guardava il protagonista di un film.
«Quindi tu supponi che l’assassino sia ancora qui?» mi chiese Flavio nervoso.
«No, non proprio. Io sostengo che  l’assassino …».
Ma fui interrotto. Ancora una volta fui interrotto. Ancora una volta quella voce la faceva da padrone. Di nuovo quella macabra voce sovrastava tutti i nostri animi e pervadeva i nostri sensi in un tumulto di emozioni decisamente contrastanti. C’era chi provava rabbia, chi adrenalina, chi coraggio,chi paura, chi tristezza. Nessuno era stabile nell’umore, ma d’altronde è normale quando c’è un maniaco omicida che invoca il tuo nome. Non saprai mai se il tuo ruolo sarà quello di vittima o carnefice.
«… Federico Penna … Giulia Foglia … Fabiola Portina … Maria Donzeni …» la voce aveva assunto di nuovo una sfumatura tragica e dava l’impressione di provenire da un essere di indubbia instabilità mentale. Rimanemmo immobili come statue, ma successivamente, al secondo richiamo e poi al terzo, decidemmo di andare di nuovo fuori e sfidare la morte. Uscimmo, stavolta senz’armi, quasi ignari del pericolo che stavamo correndo. Federico si mise davanti a tutti. Incitò al coraggio e si eresse quasi a paladino della Giustizia.
Eravamo di nuovo fuori, nell’oscurità più totale. Ma stavolta Sergio era riuscito a prendere una torcia ed era riuscito ad accenderla, anche se non si vedeva granché. La luce era davvero troppo fioca per essere considerata tale e la gente si aggrappava l’un l’altra per cercare un punto di riferimento nell’oscurità.
Ad un certo punto, quando fummo a circa una decina di metri dal ponte maledetto, l’urlo di Maria Donzeni ci fece sobbalzare. Intanto fui abbagliato da qualcosa. Non so dire esattamente cosa, ma ricordo che per un paio di secondi non vidi benissimo. Sergio cadde all’indietro per la tensione e  voltò la torcia in direzione di Maria, posta a circa cinque-sei metri all’indietro dalla posizione nella quale ci trovavamo noi.
La ragazza era stata uccisa brutalmente, infilzata in modo brutale e cruento da un coltello affilato quanto la cattiveria del mondo.
La ragazza era stata ferita mortalmente. Federico e Flavio, avanti a tutti noi, si fecero spazio per andare a vedere, ma non c’era niente da fare.
Ancora una volta sconfitti, portammo dentro il cadavere e dopo quasi un’ora nella quale pensammo in tutti i modi a come smascherare l’assassino, mi alzai di scatto e andai a mettermi il cappotto. Era pesante, quello che ci voleva per quel tempo umido e fastidioso.
«Dove vai Alex?» mi chiese Fabio.
La stessa domanda fu fatta da mio fratello e da Bianca, agitati e pensierosi in quella strana casa.
«Vado fuori» risposi distrattamente.
«In che senso fuori?» domandò Flavio.
«Fuori … che senso conosci della frase “io vado fuori”?».
«Ma … e cosa vai a fare?» chiese Sergio incredulo.
«Credo proprio che andrò a pensare … ho bisogno di tranquillità.
«E per la luce come farai?».
«Oh, i miei pensieri si accendono senza elettricità. Ma ti sarei grato se tu mi prestassi quella sorta di torcia».
«O-ok» acconsentì lanciandomela.
«Ehi, dove vai ragazzino? Torna subito qui!» si impose Flavio.
«Ascolta, vado fuori cinque minuti e poi torno. Devo capire alcune cose e … ».
«Ma cosa? Tua madre ti ha affidato a me!».
«E allora? Sono maggiorenne!».
«Ce l’hai la testa? Oppure te l’hanno requisita? Non ricordi che stando agli obblighi di legge devo trattarti per forza di cose come un minorenne?».
«Be’ … fa un po’ come vuoi … » dissi uscendo.
«Quando mi da fastidio quando fa così!».

Inutile dire che Flavio mi seguii a ruota.
«Dì un po’ … » urlò a squarciagola mentre cercava di venirmi dietro. Avanzavo a passo veloce ed eretto e non era per niente facile. «Hai deciso di fari impazzire? Non puoi stare qui! Torna dentro!».
«Dopo aver verificato una cosa … lo farò …».
«Ma … che cosa? Sei strano, vuoi dirmi che cosa? Dannazione!».
Intanto eravamo finiti davanti al ponte. Eravamo a pochi metri o poco più. Mi chinai ai piedi del ponte e cominciai letteralmente a palpare la parte inferiore del ponte. Mi feci le mani nere, ma ne valse davvero la pena. Ora cominciavo a capirci qualcosa. Lo spirito era solo un’enorme panzana.
«Sei impazzito!? Cosa fai vicino a quel ponte?».
«Uffa! Sto verificando una cosa! Fai silenzio!».
«Fai silenzio a me!? Ma come ti permetti brutto … ».
«Ok, ok … stai calmo» gli sussurrai avvicinandomi a lui. «Ascolta» continuai «l’acqua che abbiamo trovato vicino al cadavere di Ferretti … non si è asciugata già vero?».
«Be’… no, ho controllato poco fa. Con questo clima freddo occorrerà del tempo prima che … ».
 Poi cominciai a correre a perdifiato verso la casa, venendo naturalmente rincorso dallo stesso Flavio in versione ansimante.
Entrai correndo in casa e mi diressi al piano superiore. Ora avevo perfettamente in mente cosa fare. Forse ero completamente pazzo o forse ero talmente sobrio da trasudare genialità da ogni mio poro deduttivo. Fatto sta che  non potevo restare a guardare. Fatto sta che dovevo agire, assolutamente. Vidi Flavio affannarsi per raggiungermi anche al secondo piano della casa.
«Cosa fai qui? Cosa stai facendo? Quelle valigie non sono tue!».
«Già, ma sono aperte giusto?».
«Ehm … sì, ma … ».
«E a noi serve scoprire il colpevole degli omicidi … giusto?».
«E’ esatto, ma ciò che voglio dirti è … ».
«Trovata!».
«Che cosa hai trovato?».
«Quella che ho qui in mano» dissi a Flavio sventolando un pezzetto di carta ripiegato più volte «è la prova definitiva per incastrare il colpevole».
«C-che cosa?».
«E dai che hai capito!» gli urlai in testa scendendo di nuovo le scale. Tentai di correre, ma fui tirato per il colletto.
«La vuoi piantare di fare il misterioso?».
«Tu reggimi il gioco e vienimi dietro ok? Sarà come un videogioco, vedrai … ».
«Io non reggo il gioco a nessuno, un detective della mia esperienza … ».
«Vuoi pensare alla tua esperienza o alla risoluzione del caso?».
«C’è una terza opzione?».
«Ah, finiscila!».
Scesi al piano di sotto ridendo sotto i baffi, mentre Flavio mi accompagnò eludendo la folla con un sorrisino da ebete patentato.
«Cosa succede Flavio?» domandò dolcemente mio fratello.
«Ehm … ah ah ah! Niente! Niente! Hai spaventato anche il bambino! Vedi che guaio che sei?!» mi disse rivolgendosi a me e tirandomi un pizzicotto sul bicipite.
«Ahio!» sussurrai continuando a tenere un ghigno davvero poco rassicurante.
«Il fatto è» cominciai a prendere parola «che avevo una cosa da dare al detective Moggelli ed era … davvero imbarazzante per lui … ».
«Di cosa si trattava?» domandò Bianca.
«Era un certificato medico a proposito di emorroidi o cose varie e … ops … l’ho detto ad alta voce, non è vero? Mi dispiace … ».
«Non crederete a quello che ha detto no?».
«Papà, se avevi problemi di salute potevi anche dircelo, no?» disse Fabio quasi indignato.
«Eh già Flavio, se avevi problemi con le emorroidi potevi anche dirlo ai tuoi figli no?».
In quel momento non mi sentii più la nuca, in quanto arrivò su di essa la pesante mano di Flavio. Devo ammettere che con quelle mani avrebbe potuto tranquillamente iniziare una carriera nel wrestling professionistico. Sicuramente avrebbe sfondato.
«Sapete» cominciai di nuovo dopo essermi ripreso dalla botta «E’ strano … provo l’irresistibile tentazione di fare un viaggio da qualche tempo … ».
«Alex … non è il momento di fare certi discorsi … siamo in una situazione tragica … che ti prende?» domandò Fabio sconcertato e avvilito.
«Oh, lascia stare la tragedia. Lo dico sempre io … al caldo si sta meglio! Non è vero Federico? Mi sembra che tu sia andato ai caraibi recentemente … ».
«Sì ed è stato davvero favoloso Alex. Consiglio di andarci subito. Il relax è la prima cosa».
«Poi mi porti la pietra di Federico? Quella bella con l’acqua? A proposito … l’hai nascosta perché non mi ci vuoi far giocare non è vero?». Mio fratello mi aveva appena fornito un assist al bacio senza capirlo. Aveva detto ciò che volevo far capire ormai da alcuni minuti. La chiave della questione era interamente racchiusa nel ciondolo di Federico.
«No Andrea, non incolpare di cose del genere il signor Federico … non potrebbe mai fare una cosa simile … sono sicuro che ha tolto il suo prezioso ciondolo per qualche altro motivo di cui noi non siamo certamente a conoscenza».
Il volto del ragazzo diveniva sempre più pallido man mano che i secondi scandivano l’inesorabile scorrere del tempo.
«Perché l’hai tolto per un altro motivo, non è vero Federico?».
Non rispose, ma l’adrenalina si tagliava a fette. Pensai che qualcuno avesse già intuito le mie intenzione. Lo intuii da come mi guardavano, da come le pupille dei protagonisti a quella orrenda vicenda si muovevano in modo frenetico balzando dalla mia figura a quella di Federico e viceversa.
«Rispondi Federico … come mai non hai più il tuo ciondolo con te?» domandai sfacciatamente. «Non l’avrai nascosto mica per paura che Andrea te lo rompesse … non è vero?».
«Ma …ma no! Che idee vi vengono in mente? L’ho tolto perché la cordicella che lo manteneva mi stava dando prurito sul collo e … ».
«Sei un grandissimo bugiardo! La verità è che una parte del tuo ciondolo è andato praticamente in frantumi nella colluttazione per l’omicidio di Raimondo Ferretti! Non negarlo assassino!».
La stanza si ammutolì in una sorta di ultimo giudizio, poi le risate di Federico ruppero la magia del silenzio.
«Ah ah ah! Detective Moggelli, il ragazzo non ha imparato molto a quanto vedo se mi incolpa di cose che non ho commesso!».
«Ricostruiamo i fatti. E’ lei la misteriosa voce che terrorizza i suoi compagni e che inizialmente ha terrorizzato anche me e … ».
«Ah davvero? Ma se sono stato tutto il tempo con voi! Come avrei potuto …».
Ma lo interruppi. Ormai non mi fermava più «Sai, a questo mondo esistono i registratori. Sei stato molto astuto. Hai inciso su un nastro ciò che volevi e poi al computer hai modificato i suoni. Dopotutto, la stessa vittima ha detto che sei  praticamente un mago del pc».
«Non ne avrei il tempo stupido!».
«Ma se sei stato tu a dire di essere arrivato prima degli altri qui! L’hai detto poco fa, non ricordi? Ha bisogno di fosforo».
«Questo non prova niente ragazzino».
«Infatti hai perfettamente ragione. Ma andiamo con ordine, così giudicherai cosa prova e cosa non lo fa. Innanzitutto sei venuto qui e hai immediatamente posizionato il registratore sotto il ponte, nella parte inferiore. Successivamente hai aspettato che i tuoi compagni ti raggiungessero e che arrivassimo anche noi. Una volta a cena hai usato uno di quei telecomandi per cominciare ad azionare il registratore e per dar scena alla tua recita. Il posto è molto profondo e c’è l’eco e se aggiungiamo a questo il fatto che il registratore è di indubbia potenza e qualità, allora potremo capire immediatamente come mai il suono sia arrivato a noi in modo chiaro e comprensibile. Ci hai fatto uscire fuori e, approfittando del buio e del fatto che nessuno potesse chiaramente vederti hai strangolato senza pietà il povero Raimondo. La prova è che i segni sul collo sono chiaramente troppo evidenti e marcati e per essere fatti in quel modo, converrai con me, ci vuole una forza fisica che solo un uomo come te è in grado di avere. Ci hai fatto caso amico? Sei l’unico uomo nel gruppo, escludendo noi».
«Basta! Non hai prove! Sono solo supposizioni!».
«Oh credimi, se lo fossero state, non avrei mai perso tempo a smascherarti adesso. Avrei pazientato, non credi? Ma continuiamo la mia versione dei fatti. Oltre al discorso riguardante la forza fisica, che già di per sé costituisce una prova minuscola ma non indifferente, direi di soffermarci sul pavimento della stanza nella quale abbiamo trovato il cadavere. C’è dell’acqua lì … e non si è ancora asciugata. Prima Flavio ne ha preso un campione per farla esaminare una volta arrivati in città … scommettiamo che se fatta esaminare risulterà provenire dai Caraibi?».
«Ma cosa c’entrano adesso i Caraibi?» chiese Flavio spazientito mentre agitava la boccetta con l’acqua.
«Come?! Non è ancora chiaro? L’acqua versata sul pavimento, altra non è che l’acqua contenuta nel ciondolo di Federico! Nella colluttazione il ciondolo deve aver subito un urto ed avrà cominciato a perdere un po’ d’acqua. Lui poi se n’è accorto e lo ha tolto».
«E per la povera signorina Maria? Lei da chi è stata uccisa?» domandò Bianca coinvolgendosi nel discorso.
«Ma sempre da Federico ovviamente. Ma le cose sono andate diversamente qui. Ha usufruito infatti di una doppia registrazione. Quella che aveva  preparato per adescarci fuori ed un’altra già programmata sul telefonino».
«Non capisco … » commentò Fabio ad alta voce.
«Ricordate? Alla seconda chiamata dello “spirito” è stato il primo ad uscire fuori. Ma ha solo finto. Ha sempre approfittato del buio, capite? Una volta accertato che fossimo usciti tutti, ha azionato la registrazione che aveva sul cellulare per farci notare come lui fosse davanti al gruppo. Ha usufruito anche del fatto che, se si fosse spostato e che se quindi il suono sarebbe risultato … diciamo così … in movimento, nessuno se ne sarebbe accorto data la circostanza. Quindi è andato di nuovo dietro al gruppo ed ha individuato Maria dal suo profumo o forse aveva già notato dov’era al momento dell’uscita di casa. Ha impugnato il coltello che teneva nascosto chissà dove e …zac! L’ha pugnalata senza pietà».
«Ma poi io ho diretto la torcia verso Maria … l’avrei visto, giusto?».

«Errato caro Sergio. Errato. Non ci vuole nulla a strisciare carponi oppure a compiere un balzo in avanti verso la zona non illuminata dalla torcia elettrica. Così è sbucato di nuovo dal buio e … il resto della storia lo conoscete».
Federico teneva la testa bassa e continuava a cercare di nascondere la verità, ma ad un certo punto diventa insostenibile secondo me.
«E non ho finito» dissi zelante «ho trovato questo nella tua valigia amico … cosa ci fa un ragazzo in una sorta di vacanza con un certificato di un test del DNA?».
«Ok, lo confesso» Federico aveva aperto bocca e lo aveva fatto tremolante di paura e colmo di orgoglio.
«L’ho ucciso io … lo odiavo. La verità è che avevo da tempo dei sospetti ce lui fosse mio padre. Ho fatto quindi un test del DNA di nascosto da Raimondo e … ho scoperto che era mio padre».
Si fermò un attimo, poi riprese a parlare. «Ma quando gliel’ho detto … mi ha rifiutato dicendo di non sentirsi pronto per fare il padre … a sessant’anni non ti senti pronto per fare il padre?! Ma che uomo è quello che rifiuta suo figlio?».
«Federico» commentò Flavio «lei ha fatto una cosa tremenda. Spero che lei possa … » ma venne interrotto. Il ragazzo diede uno spintone a Flavio e tentò di fuggire, venendo però bloccato da Fabio e Sergio che si dimostrarono mai più efficaci di quella volta.
Salutammo il resto della comitiva quando la polizia aveva già raggiunto la località. Eravamo ormai in treno per il viaggio di ritorno.
«Ma tu guarda che avventura ci è capitata … » disse Flavio leggendo un quotidiano.
«Incredibile … be’ sono contenta che della maledizione nemmeno l’ombra» affermò Bianca. Poi prese fiato e rossa d’imbarazzo aggiunse … «Ehm … e per quel tuo problemino di salute papà … quello imbarazzante … che vogliamo fare?».
«Alex! Urlò forte Flavio. «Ora spiega che era tutta una farsa per favore!».
«Col tempo» aggiunsi spocchioso e mi misi a ridere.


SETTIMANA PROSSIMA: Conferenza stampa per il lancio ufficiale della seconda stagione di AF!




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