IL
PONTE DEL DIAVOLO
PROLOGO: Un incontro in un club di medicina diventa il pretesto per una strage macabra e inarrestabile. Ma chi è il dottore del ... male?
Non c’erano neanche i biscotti.
Accidenti a Flavio. Toccava a lui fare la spesa e come al solito se n’era
dimenticato. Ma cos’aveva in testa? Il risultato era che per colazione al
massimo avrei potuto mordermi le mani. Vagavo nella casa ancora insonnolito in
cerca di qualsiasi cosa fosse commestibile. La sera prima non avevo ancora
cenato. Che ci volete fare? Ero stato preso da un appassionante giallo che
trasmettevano sul canale 9. Era praticamente un kolossal del giallo. Un film dedicato
a Sherlock Holmes dalla durata di tre ore e cinquanta. Spettacolare. Per tutta
la sera dovetti sorbirmi le domande di Bianca, Andrea e Fabio. Mi chiedevano
qualcosa sulla storia del film, dialogavano tra loro di patatine e pop corn e
parlavano di varie cose disinteressandosi completamente. Ma dico io, stai
guardando un film giallo, devi assolutamente zittirti! Non puoi perdere nemmeno
una battuta del film, altrimenti non capisci più niente. Ma a loro non
importava. Aspettavano che Holmes cominciasse il suo show di deduzioni, mentre
io cercavo di anticiparlo e di svelare qualcosa prima di lui. Presuntuoso? Sì,
leggermente.
«Ehilà, come andiamo stamattina?»
Bianca era scesa dal piano superiore con un’energia che non avrei mai potuto
avere nemmeno se fossi stato un bambino. Era prima mattina e già sprizzava
euforia da tutti i pori. Valla a capire.
«Potrebbe andare meglio».
«Come mai?» disse versandosi del
latte.
«Non ho trovato i biscotti …
Flavio … ».
«Si è scordato di nuovo di fare
la spesa!» concluse in modo seccato.
«Ehm … sì, ma non è il caso … ».
«Ma dove diamine ha la testa? Ora
vado a dirgliene quattro!».
«E calmati dai … ». L’afferrai
per le spalle e la girai verso di me. I nostri occhi si incontrarono e ci fu un
momento in cui mi parve che il tempo del mondo si fermasse. I suoi capelli le
cadevano candidi sul viso e la sua espressione non lasciava intravedere nessun
sentimento certo. Sono certo che passarono solo pochi secondi, ma furono i più
incerti della mia vita ed ebbi l’impressione che avrei potuto passare anni e
anni solo a fissarla negli occhi. Ok, con Bianca si era venuto a creare un
rapporto speciale che si era instaurato dopo giorni e giorni di scherzi,
battutine e conversazioni. Era quel che si diceva “rapporto complicato”.
«O-ok … » sussurrò imbarazzata.
Ci scollammo dalle nostre posizioni e dopo un attimo di soggezione fortemente
serrata cominciai a parlare cercando di smorzare i toni.
«E Flavio dov’è finito?».
«Non lo so …» continuò tenendo lo
sguardo basso.
«Forse è il caso che vada a
vestirmi … sembro un pensionato con questa maglietta grigia e questi pantaloni
della tuta … ».
«Già, sei buffo» disse facendo un
risolino.
Mi diressi al piano di sopra e
notai che mio fratello si era già svegliato.
«Già in piedi? Sono solo le otto,
di solito la Domenica dormi almeno fino alle dieci».
«Lo so fratellone, ma il fatto è
che avevo mal di pancia … ».
«Mal di pancia?».
«Già … ».
«E dimmi un po’, non saranno per
caso quei torroncini che ieri pomeriggio hai divorato? Quelli inviati dalla
nonna di Bianca?».
«Non credo … » rispose con una
risatina in faccia che lasciava presagire tutto il contrario a quanto da lui
sostenuto.
«Io credo di sì invece …»
affermai carezzandogli la testa. «Dai che passa tutto. Quando scendi giù ti do
qualcosa per fartelo passare, ma la prossima volta non mangiare così tante
schifezze, d’accordo?».
«Sì fratellone».
«Bene, ora vai a vestirti,
marinaio!» gli dissi scherzando.
«Fratellone?».
«Sì?».
«Tu sei bravo a risolvere gli
indovinelli giusto?».
« Perchè?».
«Perché ieri alla televisione
hanno fatto un indovinello e se lo risolvevi vincevi una macchina bellissima!».
«Uao! E com’è questo
indovinello?».
«Ce l’ho scritto in cameretta. Lo
vado a prendere».
Mio fratello camminò a piccoli
passi verso la sua cameretta. Cominciava ad abituarsi a Torino. Sia al clima,
che alla gente. Per non parlare poi dell’atmosfera frenetica. Diceva che Torino
era una “città per i grandi” e allora si era … adeguato all’idea.
«Eccolo!» mi disse porgendomi un
bigliettino.
Lo aprii delicatamente, poi
cominciai a leggere.
«”Si hanno quattro palline che
sono uguali nell'aspetto, ma una di esse ha un peso diverso. Si deve
individuare questa pallina avendo a disposizione una bilancia a due piatti.
Qual è il numero minimo di pesate che occorre effettuare per risolvere il
problema?”».
«Vero che è difficile?».
«Be’, non è così facile … ma
basta concentrarsi un po’ … » affermai
portandomi una mano al mento.
«Allora?» domandò impaziente mio
fratello.
«Per risolvere il problema sono
sufficienti due pesate secondo me. Denominiamo le palline con A, B, C e D. Per
individuare quella diversa si fa così: nella prima pesata si mettono a
confronto A e B, e si annota se si è avuto equilibrio oppure no; Nella seconda
pesata invece si toglie una pallina,ad esempio B, e la si sostituisce con
un'altra, cioè si confronta A con C, ed anche in questo caso si controlla se
c'è o meno equilibrio. A questo punto, a seconda degli esiti delle due pesate
si possono avere quattro diversi casi, in ognuno dei quali è possibile individuare
la pallina di peso diverso».
«E cioè?».
«In sintesi è come se avessimo
questa tabella … ». Impugnai la matita e cominciai a disegnare una tabellina
per spiegare meglio il concetto.
PESATA 1
|
PESATA 2
|
PALLINA DIVERSA
|
EQUILIBRIO
|
EQUILIBRIO
|
D
|
EQUILIBRIO
|
SQUILIBRIO
|
C
|
SQUILIBRIO
|
EQUILIBRIO
|
B
|
SQUILIBRIO
|
SQUILIBRIO
|
A
|
Mio fratello rimase a guardarmi
come un alieno e vidi che teneva lo sguardo fisso dietro le mie spalle. Mi
girai e vidi Bianca che stava osservando tutta la scena. Aveva gli occhi vispi
e un sorriso luminoso dipinto sul volto.
«Mi spiegherai un giorno come
fai, vero?».
«Ah ah ah! A fare cosa?».
«A risolvere questi … enigmi in
così poco tempo. Dimmi la verità, hai un trucco non è vero?».
«Ma quale trucco? E’ solo
questione di allenamento … ».
«Cioè?».
«Non so … a volte mi viene
naturale … che ne so … contare ad esempio il numero di gradini su una scala,
oppure creare codici segreti, risolverli da me … insomma, esercizi di questo
genere».
«Grazie fratellone! Sono sicuro
che vincerò!» interruppe mio fratello.
«Lo penso anch’io, ma la macchina
non potrai guidarla fino a diciotto anni però … poi non fare i capricci, mi
raccomando».
«Perché devo aspettare diciotto
anni? E’ questa la macchinina che dicevo prima» affermò estraendo un volantino
dove era disegnata un modellino di una Porsche 911.
«Che cosa? E’ quella la macchina
che dicevi?!» dissi incredulo. Per un attimo avevo pensato si trattasse di una
macchina vera. Che stupido.
«Ah ah ah! Il grande detective
incastrato da un ragazzino!» cominciò a ridere Bianca.
«Non è divertente …».
«Ah, eccome se lo è! Dovresti
vedere la tua faccia! Ah ah ah!».
Insomma, in sintesi avevo Andrea
che sghignazzava nell’orecchio sinistro e Bianca che invece rideva
approfittando del mio orecchio destro. Ed io ero al centro della scena come
l’idiota al quale hanno detto di non vestirsi a Carnevale e poi tutti i suoi
amici sono vestiti e lui fa la figura del tonto.
Andai a vestirmi, ma mentre ero
in procinto di mettermi la mia felpa preferita sentii la voce di Flavio che mi
chiamava e quella di Fabio che lo aiutava a chiamarmi. Chissà cosa diamine
volevano.
Scesi giù in soggiorno e notai
che tutta la famiglia era riunita sul divano. Erano tutti vestiti e 9 se ne
stavano belli che rilassati. Insomma, una pacchia. Scendendo giù per le scale,
rallentai per un attimo il passo.
«Qualunque cosa sia successo …
non è colpa mia» tentai di giustificarmi, ma Bianca mi venne a prendere e mi
trascinò su di una poltrona.
«Perché pensi che ce l’abbiamo
con te?» domandò Flavio.
«Chiamalo sesto senso … ».
«Hai toppato amico» intervenne
Fabio. «Vi ho fatti venire tutti qui perché volevo domandarvi una cosa. Di
recente ho incontrato alcuni amici dell’università e mi hanno chiesto di andare
con loro in una località di montagna. Hanno fondato un club dedicato alla
medicina e allora volevano discutere con me di alcune questioni della medicina
moderna».
«Hai capito il mio figliolo! Non
è che c’è di mezzo qualche ragazza?».
«Per niente! Lo sai che ho un …
diciamo un rapporto speciale con Martina» rispose questi quasi adirato.
«Ok, ok. Non scaldarti, che
permaloso … ».
«La riunione» continuò Fabio «si
terrà domani a Borgo a Mozzano, una piccola località toscana».
«Borgo a Mozzano?» interruppe
Sergio. Sergio era praticamente invisibile nelle lunghe giornate in ufficio. Si
sedeva alla sua scrivania, svolgeva le solite pratiche ed era capace di stare
in silenzio per ore. Non che fosse apatico, sia chiaro, ma sicuramente non era
esattamente un tipo loquace. Era goffo, esaltato riguardo ad alcune cose, ma
sicuramente non era un tipo loquace.
«Già, perché?».
«Non è … non è quella località
dove c’è … dove c’è “Il ponte del diavolo”?».
«Ha ragione» commentò Flavio
«anni fa raccontarono di quella leggenda in un programma televisivo».
«E’ vero, ma ne esistono varie
versioni» intervenni.
«Di cosa state parlando?» domandò
Fabio a suo padre.
«Ma sì, quella leggenda che gira
da un sacco di anni. Il sinistro nome di ponte del diavolo è dovuto a una
leggenda di cui esistono varie versioni. Quella che conosco io è quella nella
quale si narra che il compito di edificare il ponte fu affidato a S. Giuliano
l'Ospitaliere. L'opera si rivelò fin dall'inizio, di difficile realizzazione.
Il capomastro, resosi conto che non avrebbe completato il ponte per la scadenza
prevista era nella disperazione, ma una sera, mentre sedeva da solo sulla
sponda del Serchio a guardare il lavoro, gli apparve il diavolo a proporre un
patto. Il maligno avrebbe terminato il ponte in una sola notte, ma ad una
condizione: avrebbe preso la prima anima che avesse attraversato il ponte. Il
patto fu siglato e in una sola notte il
diavolo con la sua forca sollevò la grande campata del ponte. Il costruttore,
pieno di rimorso, andò a confessarsi da un religioso che gli disse di
rispettare il patto, ma di aver premura che il primo ad attraversare il ponte
fosse un maiale. Il giorno successivo, il capomastro impedì l'accesso, e fece
attraversare per primo il ponte alla bestia. La leggenda vuole che il diavolo,
inferocito per la beffa, si gettò giù dal ponte nelle acque del Serchio, e non
si fece rivedere mai più da quelle parti».
«Insomma finisce bene» disse
quasi rasserenata Bianca.
«Non direi … secondo altre voci
si dice che il ponte è tuttora maledetto e che se il diavolo dovesse trovare
un’anima che gli possa interessare … sarebbe la fine» aggiunsi.
«Insomma, perché devi mettermi
paura?!» urlò Bianca stringendomi il braccio in una morsa.
«Ahi! Ma che paura e paura?! E’
una leggenda!».
«N- non lo sai che le leggende
hanno anche un fondo di verità?».
«Storie! Se questa storia fosse reale
lo sai quanta gente sarebbe morta passando per quel ponte?» intervenne Flavio.
«Quoto tuo padre … » aggiunsi.
«E’ perché avete tutte e due la
stessa fissa! Credete solo a ciò che vedete!» rimproverò Bianca.
«Insomma» intervenne Fabio
«volete venire con me a quel raduno?».
«Cosa? E perché dovremmo?»
domandò Flavio.
«Io ci voglio andare!» disse mio
fratello.
«Be’, non vi piacerebbe vedere la
Toscana, il famoso ponte … e poi detto tra noi papà … in Toscana si mangia
benissimo … ».
Ecco la parolina magica. Flavio
divorava praticamente di tutto. Vederlo a tavola era come assistere ad una strage
alimentare.
«Improvvisamente mi sento
coinvolto nel fantastico mondo della medicina!» affermò facendosi una grassa
risata.
Sì, come no.
Poi continuò «Ti serve un
portafoglio disposto a scucire, non è vero figliolo?».
«Che grande intuito mio padre!»
commentò Fabio in una risata tragicomica.
«Andrete senza di me allora … io
ho paura di quel ponte e non voglio certo vederlo da vicino …» disse Bianca.
«Figliola, se tu rimani qui anche
io devo farlo e … con tutto il rispetto … non ho nessuna voglia di rinunciare
ad una bella bistecca toscana!».
«Ci rimango qui io con lei»
commentai a voce bassa.
«Cosa?».
«Be’ che vuoi? Se proprio non
vuole venire … ci rimango io con lei … ».
«Non posso lasciarvi soli. Per
due motivi. Uno perché non mi piace che due adolescenti siano soli in casa e
due perché pur essendo maggiorenne, il PSD prevede che io debba portarti sempre
con me e trattarti negli obblighi quasi come un minorenne».
Tre ore dopo, alle tredici e
ventidue, eravamo in viaggio in treno, destinazione Toscana. Il comune di Borgo
a Mozzano era descritto sui depliant e su internet in modo esauriente e
coscienzioso. Aveva più di 7000 abitanti ed era famoso principalmente per
quella vecchia leggenda del ponte maledetto. Era in provincia di Lucca e se ne
stava ad un’altitudine di ben 97 metri sul livello del mare.
Nel corso del viaggio ognuno di
noi si occupò delle cose che più gli piacevano. Flavio cominciò a leggere ogni
qualsivoglia quotidiano di provenienza italiana. Alla fine, quando finirono,
cominciò a leggere anche quelli specializzati in economia che provenivano da
altri paesi. Fabio smanettava con il suo cellulare in modo insistente e quasi
fastidioso. Una volta arrivava un messaggino da Martina, un’altra volta si
attaccava ai giochini scaricati in rete ed ancora, navigava e consultava siti a
più non posso. Medicina? Sì, gli piaceva parlare di questo argomento, ma il
problema era proprio quello. Gli piaceva solo parlarne. Certo, la buona volontà
c’era sicuramente visto che aveva acquistato libri su libri della facoltà per
studiarli. Ma era iscritto ormai da due anni ed aveva dato solo un esame. Nel
frattempo aveva lavorato però in modo ininterrotto. Non gli piaceva stare con
la testa sui libri. Prima di trasferirsi di nuovo a Torino fece il barista. Una
volta arrivato in Piemonte cominciò un periodo di praticantato in ospedale. Era
un praticantato molto particolare stipulato dal comune. Era riservato agli
studenti in medicina e permetteva, sotto pagamento di una piccolo indennizzo,
di ricevere mensilmente uno stipendio proporzionale alle ore che nelle quali si
lavorava. Era un po’ come un pagamento a gettone per intenderci. Quando voleva
dare una mano, chiamava il centralino e il giorno dopo andava a farsi le sue
quattro o cinque ore di praticantato. E veniva cospicuamente retribuito. In
questo contesto io e Fabio avevamo qualcosa in comune. Ve lo confesso, non ho
mai amato studiare. Ok, andavo a scuola, facevo interrogazioni su
interrogazioni, compiti su compiti a casa e riuscivo a cavarmela in tutte le
materie. Ma non mi piaceva, che ci potevo fare? Se per prendere otto dovevo
lavorare quattro ore, preferivo lavorare per due e prendere un sette. Capito la
mia filosofia? Sono sempre stato del parere che i voti non classificano
l’intelligenza di una persona e che chi lo pensa è solo una capra. La scuola di
oggi è totalmente corrotta ed imprescindibilmente sporca al di là di ogni
pregiudizio morale. La maggior parte dei professori attua un violento ma
indolore piano per mettere in evidenza
chi vuole e lasciare indietro magari lo studente più dotato o magari più
volenteroso, o magari possessore di entrambe le caratteristiche. Io, dal canto
mio, la scuola l’avevo sempre vista come un intoppo. Sapevo che era importante
e probabilmente non saprei nemmeno scrivervi queste parole se non l’avessi
frequentata con costanza e regolarità, ma ero e sono convinto che sia corrotta
e che alla base di tutto ci sia un circolo vizioso di preferenze, soldi,
mazzette e corruzione socio politica. Insomma, prendevo ottimi voti, mi
impegnavo discretamente perché dovevo farlo, ma non mi piaceva per niente. E
quando mio madre seppe del mio trasferimento a Torino per il PSD, decisi di non
iscrivermi a nessuna facoltà. Solo in seguito decisi di iscrivermi a
sociologia. Lo feci solo per tranquillizzarla. Non voleva che se il PSD fosse
andato male, mi fossi ritrovato senza nulla a cui aggrapparmi. Ma per quel
momento, non avevo ancora toccato libro.
Andrea giocava con i suoi
personaggi preferiti e teneva in mano il cubo di Rubik. Amava all’inverosimile
quel piccolo giochino e ci stava ore prime di mollarlo.
Sergio era davvero molto
impegnato con il suo solito lavoro. Catalogava sul suo pc in ordine, tutti i
redditi dichiarati da Flavio negli ultimi dieci anni e se ne stava tranquillo
come se stesse facendo la cosa più facile e leggera di questo mondo. Ogni tanto
si lisciava la barba con il dorso della mano, quasi a significare stanchezza ma
equilibrio. Vallo a capire.
Invece Bianca scaricava la
tensione con la musica. Il suo iPod era ormai logoro da centinaia e centinaia
di riproduzioni musicali che si susseguivano senza nessuna pausa. Era
capacissima di stare un pomeriggio intero con le cuffie nelle orecchie.
Ascoltava di tutto, dal rock soave e deciso di Bon Jovi alle percussioni
ritmate degli Aereosmith. Ma la sua passione erano i Guns n’ Roses. Ne andava
davvero matta ultimamente. Ascoltava e riascoltava pezzi arcinoti come “Sweet
child or mine”, “November rain” e “Knockin’ on Heaven’s door” scritta
originariamente da Bob Dylan.
«Sei nervosa?» le chiesi
togliendole la cuffietta delicatamente e sfogliando un giornale sportivo.
«Un po’ … ».
«E perché mai? Non sei contenta
di viaggiare?».
«Io sono contenta di viaggiare.
Ciò di cui non sono contenta è di viaggiare in un posto dove si sospettano
maledizioni e cose varie!» sbuffò.
«Ma dai» le dissi porgendole la
cuffietta «finiscila di dire cavolate. Non esistono maledizioni o cose del
genere, altrimenti tuo padre sarebbe disoccupato da un bel po’ di tempo … ».
«Tsk! Parli facile tu … lo sai
cosa è successo ad una mia amica?».
«Che cosa è successo a questa tua
amica?» dissi ripetendo annoiato le parole.
«Un giorno è andata in un luogo
dove c’era la maledizione e … è tornata con tre giorni di ritardo perché ha
detto che era stata chiamata dai demoni e …» finì la frase urlando a
squarciagola e facendoci rimproverare dai controllori del treno. Che imbarazzo.
Lo ammetto, per qualche secondo finsi di non conoscere nessun membro di quella
famiglia.
Il viaggio fu estenuante. Durò
sette ore e mezza, nelle quali ci fu silenzio per la maggior parte del tempo.
Ad un tratto avrei voluto proseguire a piedi, lo giuro. Era davvero troppo
brutto restare fermi.
Comunque, alle otto di sera arrivammo
a casa degli amici di Fabio. Avevamo dovuto prendere un taxi con un tassista
davvero molto spiritoso. Per tutto il tempo della corsa non aveva fatto altro
che fare battute sulla leggenda e sul famoso ponte. Risultato: Bianca ancora
più spaventata, urla così forte da infrangere ogni scala dei decibel esistente
e tanta stanchezza. Fatto sta che verso le otto di sera ci trovammo di fronte
ad una sorta di baita in montagna. A dir la verità non era male. Era livellata
su due piani, costruita da chissà quali mani adulte ed esperte. La struttura
era in legno, ma si vedeva che avrebbe resistito anche ad un tornado. La
particolarità di quella baita era che si trovasse proprio ad una trentina di
metri di distanza dal famigerato ponte. Fu incredibile ammirarlo da vicino.
Oltre ad essere lunghissimo, si estendeva in discesa. Un aggettivo che
calzerebbe a pennello per descrivervelo è sicuramente questo: possente.
«Che struttura … » osservò Fabio.
«Che paura!» commentò Bianca.
«E dai fifona, te lo ha detto
anche Alex prima! Le maledizioni non esistono. E’ solo un modo per attirare il
turismo, lo vuoi capire?».
Bianca osservò suo padre dirle
queste cose in silenzio. Nel frattempo, forse inconsciamente, si era attaccato
al mio braccio.
«Ehm … scusa … puoi lasciarlo?».
«A cosa ti riferisci Alex?».
«Al mio braccio Bianca … sai
com’è … mi serve … » ironizzai.
«Ah … a quello! Scusami, non me
ne sono proprio accorta!».
«L’ho notato» dissi facendo un
risolino.
Fabio suonò il campanello
accostato vicino ad una grande porta di legno massiccio. Ad aprirla e a
presentarsi a noi, un uomo sulla sessantina , con le tempie imbiancate
abbastanza per poter dire la sua in ogni situazione. Le rughe che gli solcavano
il viso gli conferivano un aspetto vagamente esperto e a dir poco maturo. Il
mento importante invece era quasi sinonimo di orgoglio e il naso aquilino
completava il quadro.
«Fabio! Che piacere vederti!».
«Il piacere è tutto mio professor
Ferretti».
«E così questo è il tuo
professore?» domandò Flavio.
«Ma che piacere! Hai portato
anche la tua famiglia!» commentò entusiasta. «Venite che vi presento gli altri
membri del club».
Entrammo in quella sorta di baita
e subito fummo riscaldati sia dall’atmosfera, sia dalla casa in sé per sé. Dopo
aver percorso un piccolo corridoio, ci ritrovammo in uno spaziosissimo salone
decorato con mobili di colore bianco. I membri del club erano numerosi ed erano
tutti accomodati intorno ad un tavolo di colore nero apparecchiato per la cena.
Alcune persone erano vicine ai fornelli e si dimenavano cercando probabilmente
di preparare la cena per tutti i membri del club della medicina.
«Ok, che fate, iniziate voi a
presentarvi o vi presento uno per uno i nostri magnifici studenti e non?» ci
chiese Ferretti.
«Cominciamo noi» commentò Fabio.
Poi cominciò le presentazioni. «Per quanto mi riguarda mi conoscete già,
quest’uomo con la barba è mio padre Flavio, questo ragazzo con la valigetta è
il suo assistente burocratico, Sergio. Poi c’è Bianca, mia sorella, il piccolo
Andrea e quel ragazzo con i capelli neri chiamato Alex».
«Che bella famiglia!» commentò
ancora una volta Ferretti. «Bene, io mi chiamo Raimondo Ferretti e vi pregherei
di non commettere lo stesso sbaglio di Fabio di poco fa e cioè di chiamarmi
professore. Mi fa sentire vecchio, chiamatemi semplicemente Raimondo» disse con
un largo sorriso.
Poi continuò andando in giro per
tutto il salone. Indicò un ragazzo di circa trent’anni, con lunghe e folte
basette e occhialini classici.
«Questo è Federico Penna,
laureando in medicina. Deve solo prendere la specializzazione e sarà medico a
tutti gli effetti. E’ uno studente modello ed un genio col computer!».
«Buonasera a tutti … be, me la
cavo, ma non esagerare Raimondo» salutò quest’ultimo in palese stato di
imbarazzo. Salutando agitò i suoi anelli. Ne aveva molti ed erano vistosi,
molto vistosi. Che tipo.
«Oh che bel ciondolo!» osservò
mio fratello Andrea indicando una sorta di bellissimo monile che Federico
portava al collo. Era a forma di conchiglia e conteneva acqua.
«Ti ringrazio piccolo. Contiene
acqua del mare dei caraibi, lo sai?».
Mio fratello rimase affascinato
da quella meravigliosa pietra contenente acqua. Non so di cosa fosse fatto, ma
sicuramente non poteva subire urti considerevoli. Chissà quanto ci teneva.
«In quanto a questa meravigliosa
creatura» continuò Raimondo accostandosi vicino ad una ragazza molto giovane con
lunghi capelli castani e con vistosi orecchini «si chiama Giulia Foglia ed è
una dottoressa a tutti gli effetti. Si è laureata l’anno scorso e quest’anno si
è specializzata come chirurga. E’ uno dei vanti della medicina italiana. Ha venticinque
anni ed è già dottoressa!».
«Non esagerare Raimondo.
Buonasera a tutti».
«Lei invece è Fabiola Portina,
una mia ex allieva che adesso lavora in un studio medico a Lucca. Lei è
specializzata in malattie rare» affermò carezzando la testa di una donna sui trentacinque
anni. Aveva i capelli biondi e l’aria un po’ snob.
«Piacere di conoscervi» si limitò
a commentare.
«Ed ecco l’ultima» insistette
Raimondo Ferretti avvicinandosi al piano cucina. «Lei è Maria Donzeni, una
dottoressa divenuta ormai famosa da queste parti». La ragazza in questione
aveva pressappoco la stessa età di Fabiola, ma manteneva un’aria più rilassata
e nettamente più giovanile.
«Non gli date ascolto. Comunque
piacere di conoscervi».
«Datemi ascolto invece! La nostra
Maria si è accorta durante un’operazione a cuore aperto che uno dei fili per
ricucire la parte che era stata tagliata era già stato usato. E’ diventata
praticamente un’eroina. Ora tutti parlano di lei».
«Uh? Non sapevo di questo caso di
mal sanità. L’ospedale avrà chiuso immagino» commentò Flavio.
«Immagina bene. La polizia attuò
un blitz e allora trovarono alcuni pazienti rinchiusi in uno stato davvero
pietoso».
«Che brutta storia … » ribatté
ancora Flavio.
«Bene, basta però pensare a
questa storia. E’ meglio se andiamo a tavola».
Fu una cena davvero piacevole.
Devo dire che quelli del club della medicina furono straordinari nel metterci
perfettamente a nostro agio. Dialogammo in contesti rilassati, fecero domande a
tutti noi per conoscerci meglio e fu davvero piacevole scoprire come era stato
creato quel famoso club della medicina.
«L’idea venne proprio a Raimondo»
disse Giulia Foglia. La ragazza che a soli 25 anni si era laureata era membro
del club da ormai tre anni e stando a quanto diceva, era orgogliosa di esserlo,
no, era davvero fiera.
«Già, Raimondo è sempre stato un
geniaccio … » commentò Fabiola Portina.
«Oh, non esagerate» disse
Raimondo cercando di “addomesticare” i suoi spaghetti alle vongole.
«Be’ ammetterà che l’idea è
abbastanza originale» affermai sorseggiando un po’ d’acqua.
«Senza dubbio ragazzo. Sapete, lo
fondai circa cinque anni fa con l’idea di offrire a chiunque studiasse medicina
di confrontarsi con laureati e non riguardo i problemi spinosi delle proprie
tesi. Mi sembrava una cosa tranquilla, utile e al tempo stesso gentile».
«Le pareva bene» interruppe
Sergio. «Quando mi sono laureato io» continuò aggiustandosi il colletto della
camicia «magari ci fosse stato un professore che avesse fatto quello che lei fa
adesso per i suoi alunni … è sorprendente!» disse già in preda all’eccitazione.
«Oh, in cosa è laureato lei?».
«Visto il lavoro che faccio, ho
dovuto laurearmi in Economia e Commercio alla facoltà di Torino».
«Complimenti allora! E’ molto che
possiede la laurea?».
«Sono più di dieci anni».
«Ma lei di cosa si occupa
esattamente?».
«Vediamo come posso rendere
l’idea … mi occupo della parte burocratica del lavoro del detective Moggelli.
Cose come contributi, dichiarazioni dei redditi, parcelle … ha capito insomma …
».
«Ha detto … detective Moggelli?
Ma allora quel ragazzo … Fabio!» urlò
alla fine Raimondo.
«C- cosa c’è?».
«Tuo padre è il detective
Moggelli? Tu sei figlio di quel Moggelli?».
«Be’ sì, ma non credevo le
importasse, insomma siamo qui per … ».
«Ma come?! Mi importa tantissimo!
Ora sono ancora più felice di conoscerla Flavio! E quel ragazzo che è con lei
allora è … ».
«Alex Fedele, al suo servizio»
dissi accennando un sorriso imbarazzato.
«C’è anche il detective prodigio!
Ho seguito molti tuoi casi ragazzo! Farai una grande carriera!».
Anche la gente attorno al tavolo
continuò a lusingare le gesta di Flavio. Ci fu anche un po’ di gloria per me
quella sera. Mi apostrofarono come “intelligente, colto, preparato, maturo” e
roba di questo genere. Generalmente non
amavo i complimenti. Secondo me ti fanno rilassare troppo, ma quella sera fui
davvero contento di ricevere qualche elogio.
Continuammo a cenare, e arrivati
al dolce, degno trionfo di una serata deliziosa, sentimmo dei rumori, delle
voci in particolare. A dir la verità era una sola voce, spaventosa, fredda e
corposa che avvolgeva l’ambiente in un sussulto di paura indefinibile.
«Raimondo Ferretti … Federico
Penna … Giulia Foglia … Fabiola Portina … Maria Donzeni … » disse la voce
misteriosa. Proveniva da fuori, ma da dentro si sentiva in modo abnorme.
«Che cos’è uno scherzo?» domandò
Maria.
«Non- non credo … » commentò
incertamente e già colmo di paura Federico Penna.
«Ma … viene da fuori …» osservò
Fabio.
«Sì … » acconsentì Giulia.
« Raimondo Ferretti … Federico
Penna … Giulia Foglia … Fabiola Portina … Maria Donzeni …» ripetè ancora la
voce misteriosa. Ma stavolta non era pacata e tranquilla come prima. Era
agitata, sadica, veloce, spaventosa.
Decidemmo di andare a vedere.
Eravamo tutti spaventati, ma onestamente pensavo si trattasse di uno scherzo di
uno dei membri del club. Qualcuno fuori di melone magari.
Fabiola Portina prese subito
un’asta di legno che era appoggiata vicino al camino. Hai capito la ragazza.
Uscimmo fuori, con il freddo
pungente e con il terriccio umido che ci sporcava le scarpe.
«E’ la maledizione … » continuava
a ripetere Bianca in modo monotono attaccandosi al mio braccio.
«Piantala!» la rimproverai
all’improvviso. Fui nettamente troppo duro, ma non potevo continuare a vederla
in quello stato. Era pallida in viso, aveva gli occhi scavati per la paura e
per l’agitazione e dovetti risvegliarla in qualche modo.
Mentre ci avvicinavamo al ponte
maledetto, unico nostro punto di riferimento nel buio della tarda sera, altre
urla ci riportarono indietro. Ma stavolta erano urla tranquillamente
riconoscibili. Raimondo Ferretti urlava a squarciagola e dai rumori che
provenivano dalla casa pareva anche che si dimenasse a fatica per cercare di
impedire qualcosa di orribile. Nell’oscurità non ci riconoscevamo più nemmeno
noi. L’unica persona che riuscivo a distinguere era Bianca, ma solo perché era
attaccata al mio braccio. Gli altri erano immersi nella più totale oscurità.
I nostri passi diventavano più
veloci e una volta arrivati alla baita, ci ritrovammo di fronte una scena
orrenda, che mai avrei voluto vedere.
Il professor Ferretti era steso a
terra, esanime, senza alcuna reazione, con il sangue alla bocca.
«Oh mio Dio!» urlò Federico
Penna.
«Raimondo!» gridò
all’inverosimile Fabio. Fece per andare a controllare, ma lo bloccai. Voleva
avvicinarsi al suo professore per l’ultima volta, ma non potevo
permetterglielo. Sarebbe toccato a Flavio stabilire i primi verdetti sul corpo.
Non poteva ancora avvicinarsi.
«Lasciami Alex! Lasciami!». Mi
fece pena, lo ammetto. Con le lacrime che gli solcavano il viso maturo, aveva
assunto l’aspetto di un bimbo. Piangeva come un bambino, reagiva come un
bambino e guardava la scena con gli occhi sbarrati come tale.
Poi si girò verso di me e
cominciò a piangere sulla mia spalla. Non potrei mai descrivervi cosa provai in
quei momenti. Rimasi fermo, impassibile, immobile quasi per dogma. Ormai non lo
trattenevo nemmeno più. Le sue mani erano attaccate al mio giubbotto e lo
tiravano quasi come a cercare di fermare la frustrazione che si era dipinta sul
volto di qualunque altro.
Gli carezzai la testa lievemente,
ma non sono mai stato bravo in queste circostanze. Quando morì papà, mia madre
pianse come Fabio. Stefano fu di gran conforto, riusciva ad entrare nei cuori
della gente anche solo con un sorriso. Io ero più freddo, più silenzioso e, pur
comprendendo il dolore della gente, difficilmente riuscivo a commuovermi e a
darlo a vedere. Le parole rimanevano bloccate tra il cervello e la gola.
Flavio esaminò il corpo,
controllò il battito cardiaco. Poi si voltò alla folla che lo guardava in
attesa di un responso e scosse la testa in segno di palese disgrazia.
Si alzò pesantemente e in un
misto di commozione e professionalità, affermò:
«E’ ora di chiamare la polizia …
qualcuno lo faccia!».
«Ho già provato io» annunciò Federico.
«ma mi hanno detto che non potranno arrivare qui prima di domattina alle sette.
Purtroppo la strada è bloccata da alcuni massi e ci metteranno delle ore per
rimuoverli. Li ho visti anch’io visto che quando sono arrivato prima degli
altri ho dovuto prendere una deviazione per arrivare qui».
«Non ci voleva!» affermò
rabbiosamente Flavio.
«Fatto sta che dovremmo
aspettare» commentai «quindi sarà meglio mettere il signor Ferretti da qualche
parte in attesa della polizia».
La scena del delitto era molto strana.
Sul collo della vittima erano stati rinvenuti sicuramente segni di
strangolamento, ma non parevano essere stati provocati da un oggetto o da una
qualsiasi arma che servisse per soffocare. C’erano dei piccoli segni circolari
in zone disparate del collo che facevano pensare indubbiamente ad un
soffocamento a mani nude. I segni erano però evidenti e molto marcati. Sul
pavimento inoltre c’era dell’acqua.
Quindici minuti dopo circa, ci
ritrovammo tutti nel salone. Nessuno parlava, in quanto il clima era diventato
teso, lugubre, elettrico.
«Chi … chi vuole un po’ di
caffè?» domandò Fabiola.
Nessuno rispose. Dopo qualche
secondo, arrivò la risposta di Giulia
Foglia.
«Come diamine fai a pensare al
caffè in una situazione del genere? Ho capito che non amavi esattamente
Raimondo ma … ».
«E chi ti ha detto questo Giulia?
Ti inventi le cose vedi? Se stai zitta è meglio … ».
«Certo! Ti piacerebbe! Così
nessuno saprebbe cosa è successo tre anni fa! Vipera!».
«Come osi? Sgualdrina da quattro
soldi!».
Insomma, la situazione stava
davvero degenerando e dovette arrivare Fabio a separarle. Che grinta di
entrambi però. Probabilmente la situazione non era delle migliori per gustare
del caffè, ma non lo era nemmeno per cadere in vili ripercussioni conseguenti
alle azioni del passato.
«Signore, calmatevi per favore»
richiamò l’attenzione Flavio. «Comunque» disse giocherellando con l’accendino
«cos’è successo tre anni fa di così terribile?».
«Perché vuole saperlo?» domandò
Fabiola in tono minaccioso.
«Be’ … è solo per orientarmi con
… ».
«Non sospetterà di me, non è vero
detective? Se è così … ».
«Calmati ragazza mia … io non
sospetto di nessuno … sto solo dicendo che … ».
«Infatti il detective Moggelli
non sospetta di nessuno» interruppi portandomi una mano al mento. «Il detective
Moggelli sospetta di tutti e … francamente con lui anch’io».
«Ragazzino insolente» commentò
Federico Penna «come puoi sospettare di noi? E’ di sicuro un piano messo in
atto da qualche pazzoide criminale».
«Non ne sarei così sicuro
Federico. Infatti, l’assassino ha ripetuto uno dopo l’altro i vostri nomi,
senza titubare nemmeno un attimo».
«E questo cosa proverebbe
scusa?».
«Ma come cosa proverebbe?
Insomma, uno sconosciuto non potrebbe mai conoscere i vostri nomi e cognomi uno
per uno e c’è un’altra cosa da aggiungere. Quando siamo usciti per andare a
vedere da dove provenisse la voce, le nostre scarpe si sono impregnate di
terriccio umido. Ma accanto al cadavere non c’era nessuna traccia di terra. Ciò
vuol dire … ».
«Vuol dire che l’assassino era nascosto
qui e che quindi sta anche ascoltandoci! Non è vero Alex? Volevi dire questo?»
domandò interrompendomi Giulia Foglia.
«Più o meno … » commentai
aguzzando gli occhi. Mi parve che Bianca mi stesse osservando da parecchio. Mi
guardava come si guardava il protagonista di un film.
«Quindi tu supponi che
l’assassino sia ancora qui?» mi chiese Flavio nervoso.
«No, non proprio. Io sostengo
che l’assassino …».
Ma fui interrotto. Ancora una
volta fui interrotto. Ancora una volta quella voce la faceva da padrone. Di
nuovo quella macabra voce sovrastava tutti i nostri animi e pervadeva i nostri
sensi in un tumulto di emozioni decisamente contrastanti. C’era chi provava
rabbia, chi adrenalina, chi coraggio,chi paura, chi tristezza. Nessuno era
stabile nell’umore, ma d’altronde è normale quando c’è un maniaco omicida che
invoca il tuo nome. Non saprai mai se il tuo ruolo sarà quello di vittima o
carnefice.
«… Federico Penna … Giulia Foglia
… Fabiola Portina … Maria Donzeni …» la voce aveva assunto di nuovo una sfumatura
tragica e dava l’impressione di provenire da un essere di indubbia instabilità
mentale. Rimanemmo immobili come statue, ma successivamente, al secondo
richiamo e poi al terzo, decidemmo di andare di nuovo fuori e sfidare la morte.
Uscimmo, stavolta senz’armi, quasi ignari del pericolo che stavamo correndo.
Federico si mise davanti a tutti. Incitò al coraggio e si eresse quasi a
paladino della Giustizia.
Eravamo di nuovo fuori,
nell’oscurità più totale. Ma stavolta Sergio era riuscito a prendere una torcia
ed era riuscito ad accenderla, anche se non si vedeva granché. La luce era
davvero troppo fioca per essere considerata tale e la gente si aggrappava l’un
l’altra per cercare un punto di riferimento nell’oscurità.
Ad un certo punto, quando fummo a
circa una decina di metri dal ponte maledetto, l’urlo di Maria Donzeni ci fece
sobbalzare. Intanto fui abbagliato da qualcosa. Non so dire esattamente cosa,
ma ricordo che per un paio di secondi non vidi benissimo. Sergio cadde
all’indietro per la tensione e voltò la
torcia in direzione di Maria, posta a circa cinque-sei metri all’indietro dalla
posizione nella quale ci trovavamo noi.
La ragazza era stata uccisa
brutalmente, infilzata in modo brutale e cruento da un coltello affilato quanto
la cattiveria del mondo.
La ragazza era stata ferita
mortalmente. Federico e Flavio, avanti a tutti noi, si fecero spazio per andare
a vedere, ma non c’era niente da fare.
Ancora una volta sconfitti,
portammo dentro il cadavere e dopo quasi un’ora nella quale pensammo in tutti i
modi a come smascherare l’assassino, mi alzai di scatto e andai a mettermi il
cappotto. Era pesante, quello che ci voleva per quel tempo umido e fastidioso.
«Dove vai Alex?» mi chiese Fabio.
La stessa domanda fu fatta da mio
fratello e da Bianca, agitati e pensierosi in quella strana casa.
«Vado fuori» risposi
distrattamente.
«In che senso fuori?» domandò
Flavio.
«Fuori … che senso conosci della
frase “io vado fuori”?».
«Ma … e cosa vai a fare?» chiese
Sergio incredulo.
«Credo proprio che andrò a
pensare … ho bisogno di tranquillità.
«E per la luce come farai?».
«Oh, i miei pensieri si accendono
senza elettricità. Ma ti sarei grato se tu mi prestassi quella sorta di
torcia».
«O-ok» acconsentì lanciandomela.
«Ehi, dove vai ragazzino? Torna
subito qui!» si impose Flavio.
«Ascolta, vado fuori cinque
minuti e poi torno. Devo capire alcune cose e … ».
«Ma cosa? Tua madre ti ha
affidato a me!».
«E allora? Sono maggiorenne!».
«Ce l’hai la testa? Oppure te
l’hanno requisita? Non ricordi che stando agli obblighi di legge devo trattarti
per forza di cose come un minorenne?».
«Be’ … fa un po’ come vuoi … »
dissi uscendo.
«Quando mi da fastidio quando fa
così!».
Inutile dire che Flavio mi seguii
a ruota.
«Dì un po’ … » urlò a
squarciagola mentre cercava di venirmi dietro. Avanzavo a passo veloce ed
eretto e non era per niente facile. «Hai deciso di fari impazzire? Non puoi
stare qui! Torna dentro!».
«Dopo aver verificato una cosa …
lo farò …».
«Ma … che cosa? Sei strano, vuoi
dirmi che cosa? Dannazione!».
Intanto eravamo finiti davanti al
ponte. Eravamo a pochi metri o poco più. Mi chinai ai piedi del ponte e
cominciai letteralmente a palpare la parte inferiore del ponte. Mi feci le mani
nere, ma ne valse davvero la pena. Ora cominciavo a capirci qualcosa. Lo
spirito era solo un’enorme panzana.
«Sei impazzito!? Cosa fai vicino
a quel ponte?».
«Uffa! Sto verificando una cosa!
Fai silenzio!».
«Fai silenzio a me!? Ma come ti
permetti brutto … ».
«Ok, ok … stai calmo» gli sussurrai
avvicinandomi a lui. «Ascolta» continuai «l’acqua che abbiamo trovato vicino al
cadavere di Ferretti … non si è asciugata già vero?».
«Be’… no, ho controllato poco fa.
Con questo clima freddo occorrerà del tempo prima che … ».
Poi cominciai a correre a perdifiato verso la
casa, venendo naturalmente rincorso dallo stesso Flavio in versione ansimante.
Entrai correndo in casa e mi
diressi al piano superiore. Ora avevo perfettamente in mente cosa fare. Forse
ero completamente pazzo o forse ero talmente sobrio da trasudare genialità da
ogni mio poro deduttivo. Fatto sta che
non potevo restare a guardare. Fatto sta che dovevo agire,
assolutamente. Vidi Flavio affannarsi per raggiungermi anche al secondo piano
della casa.
«Cosa fai qui? Cosa stai facendo?
Quelle valigie non sono tue!».
«Già, ma sono aperte giusto?».
«Ehm … sì, ma … ».
«E a noi serve scoprire il
colpevole degli omicidi … giusto?».
«E’ esatto, ma ciò che voglio
dirti è … ».
«Trovata!».
«Che cosa hai trovato?».
«Quella che ho qui in mano» dissi
a Flavio sventolando un pezzetto di carta ripiegato più volte «è la prova
definitiva per incastrare il colpevole».
«C-che cosa?».
«E dai che hai capito!» gli urlai
in testa scendendo di nuovo le scale. Tentai di correre, ma fui tirato per il
colletto.
«La vuoi piantare di fare il
misterioso?».
«Tu reggimi il gioco e vienimi
dietro ok? Sarà come un videogioco, vedrai … ».
«Io non reggo il gioco a nessuno,
un detective della mia esperienza … ».
«Vuoi pensare alla tua esperienza
o alla risoluzione del caso?».
«C’è una terza opzione?».
«Ah, finiscila!».
Scesi al piano di sotto ridendo
sotto i baffi, mentre Flavio mi accompagnò eludendo la folla con un sorrisino
da ebete patentato.
«Cosa succede Flavio?» domandò
dolcemente mio fratello.
«Ehm
… ah ah ah! Niente! Niente!
Hai spaventato anche il bambino! Vedi che guaio che sei?!» mi disse
rivolgendosi a me e tirandomi un pizzicotto sul bicipite.
«Ahio!» sussurrai continuando a
tenere un ghigno davvero poco rassicurante.
«Il fatto è» cominciai a prendere
parola «che avevo una cosa da dare al detective Moggelli ed era … davvero
imbarazzante per lui … ».
«Di cosa si trattava?» domandò
Bianca.
«Era un certificato medico a
proposito di emorroidi o cose varie e … ops … l’ho detto ad alta voce, non è
vero? Mi dispiace … ».
«Non crederete a quello che ha
detto no?».
«Papà, se avevi problemi di
salute potevi anche dircelo, no?» disse Fabio quasi indignato.
«Eh già Flavio, se avevi problemi
con le emorroidi potevi anche dirlo ai tuoi figli no?».
In quel momento non mi sentii più
la nuca, in quanto arrivò su di essa la pesante mano di Flavio. Devo ammettere
che con quelle mani avrebbe potuto tranquillamente iniziare una carriera nel
wrestling professionistico. Sicuramente avrebbe sfondato.
«Sapete» cominciai di nuovo dopo
essermi ripreso dalla botta «E’ strano … provo l’irresistibile tentazione di
fare un viaggio da qualche tempo … ».
«Alex … non è il momento di fare
certi discorsi … siamo in una situazione tragica … che ti prende?» domandò
Fabio sconcertato e avvilito.
«Oh, lascia stare la tragedia. Lo
dico sempre io … al caldo si sta meglio! Non è vero Federico? Mi sembra che tu
sia andato ai caraibi recentemente … ».
«Sì ed è stato davvero favoloso
Alex. Consiglio di andarci subito. Il relax è la prima cosa».
«Poi mi porti la pietra di
Federico? Quella bella con l’acqua? A proposito … l’hai nascosta perché non mi
ci vuoi far giocare non è vero?». Mio fratello mi aveva appena fornito un
assist al bacio senza capirlo. Aveva detto ciò che volevo far capire ormai da
alcuni minuti. La chiave della questione era interamente racchiusa nel ciondolo
di Federico.
«No Andrea, non incolpare di cose
del genere il signor Federico … non potrebbe mai fare una cosa simile … sono
sicuro che ha tolto il suo prezioso ciondolo per qualche altro motivo di cui
noi non siamo certamente a conoscenza».
Il volto del ragazzo diveniva
sempre più pallido man mano che i secondi scandivano l’inesorabile scorrere del
tempo.
«Perché l’hai tolto per un altro
motivo, non è vero Federico?».
Non rispose, ma l’adrenalina si
tagliava a fette. Pensai che qualcuno avesse già intuito le mie intenzione. Lo
intuii da come mi guardavano, da come le pupille dei protagonisti a quella
orrenda vicenda si muovevano in modo frenetico balzando dalla mia figura a
quella di Federico e viceversa.
«Rispondi Federico … come mai non
hai più il tuo ciondolo con te?» domandai sfacciatamente. «Non l’avrai nascosto
mica per paura che Andrea te lo rompesse … non è vero?».
«Ma …ma no! Che idee vi vengono
in mente? L’ho tolto perché la cordicella che lo manteneva mi stava dando
prurito sul collo e … ».
«Sei un grandissimo bugiardo! La
verità è che una parte del tuo ciondolo è andato praticamente in frantumi nella
colluttazione per l’omicidio di Raimondo Ferretti! Non negarlo assassino!».
La stanza si ammutolì in una
sorta di ultimo giudizio, poi le risate di Federico ruppero la magia del
silenzio.
«Ah ah ah! Detective Moggelli, il
ragazzo non ha imparato molto a quanto vedo se mi incolpa di cose che non ho
commesso!».
«Ricostruiamo i fatti. E’ lei la
misteriosa voce che terrorizza i suoi compagni e che inizialmente ha
terrorizzato anche me e … ».
«Ah davvero? Ma se sono stato
tutto il tempo con voi! Come avrei potuto …».
Ma lo interruppi. Ormai non mi
fermava più «Sai, a questo mondo esistono i registratori. Sei stato molto
astuto. Hai inciso su un nastro ciò che volevi e poi al computer hai modificato
i suoni. Dopotutto, la stessa vittima ha detto che sei praticamente un mago del pc».
«Non ne avrei il tempo stupido!».
«Ma se sei stato tu a dire di
essere arrivato prima degli altri qui! L’hai detto poco fa, non ricordi? Ha
bisogno di fosforo».
«Questo non prova niente
ragazzino».
«Infatti hai perfettamente
ragione. Ma andiamo con ordine, così giudicherai cosa prova e cosa non lo fa.
Innanzitutto sei venuto qui e hai immediatamente posizionato il registratore
sotto il ponte, nella parte inferiore. Successivamente hai aspettato che i tuoi
compagni ti raggiungessero e che arrivassimo anche noi. Una volta a cena hai
usato uno di quei telecomandi per cominciare ad azionare il registratore e per
dar scena alla tua recita. Il posto è molto profondo e c’è l’eco e se
aggiungiamo a questo il fatto che il registratore è di indubbia potenza e
qualità, allora potremo capire immediatamente come mai il suono sia arrivato a
noi in modo chiaro e comprensibile. Ci hai fatto uscire fuori e, approfittando
del buio e del fatto che nessuno potesse chiaramente vederti hai strangolato
senza pietà il povero Raimondo. La prova è che i segni sul collo sono
chiaramente troppo evidenti e marcati e per essere fatti in quel modo,
converrai con me, ci vuole una forza fisica che solo un uomo come te è in grado
di avere. Ci hai fatto caso amico? Sei l’unico uomo nel gruppo, escludendo
noi».
«Basta! Non hai prove! Sono solo
supposizioni!».
«Oh credimi, se lo fossero state,
non avrei mai perso tempo a smascherarti adesso. Avrei pazientato, non credi?
Ma continuiamo la mia versione dei fatti. Oltre al discorso riguardante la
forza fisica, che già di per sé costituisce una prova minuscola ma non
indifferente, direi di soffermarci sul pavimento della stanza nella quale
abbiamo trovato il cadavere. C’è dell’acqua lì … e non si è ancora asciugata.
Prima Flavio ne ha preso un campione per farla esaminare una volta arrivati in
città … scommettiamo che se fatta esaminare risulterà provenire dai Caraibi?».
«Ma cosa c’entrano adesso i
Caraibi?» chiese Flavio spazientito mentre agitava la boccetta con l’acqua.
«Come?! Non è ancora chiaro?
L’acqua versata sul pavimento, altra non è che l’acqua contenuta nel ciondolo
di Federico! Nella colluttazione il ciondolo deve aver subito un urto ed avrà
cominciato a perdere un po’ d’acqua. Lui poi se n’è accorto e lo ha tolto».
«E per la povera signorina Maria?
Lei da chi è stata uccisa?» domandò Bianca coinvolgendosi nel discorso.
«Ma sempre da Federico
ovviamente. Ma le cose sono andate diversamente qui. Ha usufruito infatti di
una doppia registrazione. Quella che aveva
preparato per adescarci fuori ed un’altra già programmata sul telefonino».
«Non capisco … » commentò Fabio
ad alta voce.
«Ricordate? Alla seconda chiamata
dello “spirito” è stato il primo ad uscire fuori. Ma ha solo finto. Ha sempre
approfittato del buio, capite? Una volta accertato che fossimo usciti tutti, ha
azionato la registrazione che aveva sul cellulare per farci notare come lui
fosse davanti al gruppo. Ha usufruito anche del fatto che, se si fosse spostato
e che se quindi il suono sarebbe risultato … diciamo così … in movimento,
nessuno se ne sarebbe accorto data la circostanza. Quindi è andato di nuovo
dietro al gruppo ed ha individuato Maria dal suo profumo o forse aveva già
notato dov’era al momento dell’uscita di casa. Ha impugnato il coltello che
teneva nascosto chissà dove e …zac! L’ha pugnalata senza pietà».
«Ma poi io ho diretto la torcia
verso Maria … l’avrei visto, giusto?».
«Errato caro Sergio. Errato. Non
ci vuole nulla a strisciare carponi oppure a compiere un balzo in avanti verso
la zona non illuminata dalla torcia elettrica. Così è sbucato di nuovo dal buio
e … il resto della storia lo conoscete».
Federico teneva la testa bassa e
continuava a cercare di nascondere la verità, ma ad un certo punto diventa
insostenibile secondo me.
«E non ho finito» dissi zelante
«ho trovato questo nella tua valigia amico … cosa ci fa un ragazzo in una sorta
di vacanza con un certificato di un test del DNA?».
«Ok, lo confesso» Federico aveva
aperto bocca e lo aveva fatto tremolante di paura e colmo di orgoglio.
«L’ho ucciso io … lo odiavo. La
verità è che avevo da tempo dei sospetti ce lui fosse mio padre. Ho fatto
quindi un test del DNA di nascosto da Raimondo e … ho scoperto che era mio
padre».
Si fermò un attimo, poi riprese a
parlare. «Ma quando gliel’ho detto … mi ha rifiutato dicendo di non sentirsi
pronto per fare il padre … a sessant’anni non ti senti pronto per fare il
padre?! Ma che uomo è quello che rifiuta suo figlio?».
«Federico» commentò Flavio «lei
ha fatto una cosa tremenda. Spero che lei possa … » ma venne interrotto. Il
ragazzo diede uno spintone a Flavio e tentò di fuggire, venendo però bloccato
da Fabio e Sergio che si dimostrarono mai più efficaci di quella volta.
Salutammo il resto della comitiva
quando la polizia aveva già raggiunto la località. Eravamo ormai in treno per
il viaggio di ritorno.
«Ma tu guarda che avventura ci è
capitata … » disse Flavio leggendo un quotidiano.
«Incredibile … be’ sono contenta
che della maledizione nemmeno l’ombra» affermò Bianca. Poi prese fiato e rossa
d’imbarazzo aggiunse … «Ehm … e per quel tuo problemino di salute papà … quello
imbarazzante … che vogliamo fare?».
«Alex! Urlò forte Flavio. «Ora
spiega che era tutta una farsa per favore!».
«Col tempo» aggiunsi spocchioso e
mi misi a ridere.
SETTIMANA PROSSIMA: Conferenza stampa per il lancio ufficiale della seconda stagione di AF!
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