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sabato 25 febbraio 2012

Alex Fedele: La verità sul passato(3°parte);1°stagione; episodio 28

PROLOGO:  Fuggire non serve a niente, solo a peggiorare le cose. Ma nei momenti dove il cuore abbatte il cervello, chi può capirlo? Nessuno. Ci vuole una persona molto cara che te lo faccia capire. Perchè ora tutta la verità è stata svelata! 


Sigla di oggi: "The view from my window" by Yiruma







CAPITOLO VI – Rivelazioni


La notte era diventata padrone del tempo, il dolce riflesso della luna rischiarava la terrazza della mia cameretta. Mia madre, con gli occhi lucidi, mi guardava fisso negli occhi. Era cattivo segno. Mamma era di tipico carattere espansivo. Lei sì che ci sapeva fare. Quando avevo tre anni, a causa della mia eccessiva vivacità, sbattei allo spigolo di un tavolino del salone della nostra casa a Fondi. L’urto fu terribile. Andai a sbattere con la tempia e per poco non ci lasciai le penne. Reagii come un qualunque bambino di tre anni, cioè piansi a dirotto. Forse fu la penultima volta, perché anche da bimbo, non piangevo quasi mai.
Indovinate cosa fece mia madre? Mentre mio padre si dimenava per curarmi e per rassicurarmi, lei mi sorrideva e mi carezzava dicendo che non era stato nulla e che sarebbe passato tutto in un battibaleno. Era questa la mamma che amavo. La donna di fronte a me con gli occhi lucidi, piena di incertezze, era solo la sua brutta copia. La brutta copia di una donna con la “D” maiuscola. La lontana parente della giornalista brillante ed esuberante che aveva intervistato i famosi capi di stato facendo loro domande scottanti sul governo e riuscendo a metterli in palese difficoltà. Era solo una copia sbiadita della ragazza allegra che aveva incontrato mio padre e che aveva avuto la forza e la volontà di partorire tre figli.
«Ecco, la cosa che voglio dirti è … ».
Non riuscivo minimamente a proferire parola. La tensione si tagliava a fette e la fronte mi si era incredibilmente imperlata di sudore, segno evidente di un disagio incontrollabile.
«Puoi aiutarmi a risolvere questo enigma? E’ complicatissimo!» disse con un po’ d’imbarazzo lasciandomi di sasso. Feci un risolino, giusto per compiacermi e per compiacerla e le dissi:
«Tutto qui?».
«Come tutto qui? Fin da piccolo sei stato bravissimo nella risoluzione di codici segreti e enigmi. Perciò ho pensato di sottoporti questo. Me l’ha dato un mio collega giapponese ed io l’ho tradotto. Ascolta. 


“Un ciclista scala una montagna alla media di 20 km/h , e poi, giunto in cima, gira la bicicletta e ridiscende a valle,seguendo la stessa strada,ad una media di 60 km/h. Qual è la media complessiva tenuta dal ciclista, durante tutto il suo viaggio”. Ammetto che è possibile che sia difficile per un ragazzino di diciotto anni come te, ma ti prego di sforzarti e …».


«La risposta corretta è 30 km/h. La risposta più frequente che viene data a questo problema è invece 40 km/h, basata sul fatto che il ciclista ha percorso esattamente metà del cammino alla velocità media di 20 km/h e esattamente l'altra metà alla velocità media di 60 km/h, ma  la risposta è errata. Infatti, procedendo in discesa ad una velocità tripla rispetto a quella tenuta in salita, il nostro atleta ha pedalato per un tempo triplo alla velocità di 20 km/h rispetto al tempo in cui è andato a 60 km/h. La risposta corretta è dunque data da velocità = (3 x 20 + 60) / 4 = 30 km/h. Bisogna cioè tenere conto del peso relativo di ciascuna delle medie». Risposi senza esitazione. Mi piacevano i giochi di logica.
«E’ … è impressionante» disse mia madre. Si avvicinò lentamente e mi abbracciò “soffocandomi” di nuovo. 
«Il mio bambino!».
«Mamma, per favore! Argh!» dissi mentre tentavo di dimenarmi.
Un altro periodo di silenzio assordante.
«Ricordi quando hai risolto da solo il problema di quella fiera cittadina a Fondi? Mi ricordo che il professore di fisica che guidava il gioco rimase sorpreso che un ragazzino di soli sette anni riuscisse a risolvere problemi di quel genere, tanto che sospettò anche di me come suggeritrice, quando invece non c’entravo nulla» disse sorridendo. «Sei sempre stato speciale» aggiunse commossa con gli occhi bassi.
«Ci portammo una radio a casa come premio. Era la fiera di …».
«Di Sant’Onorato. Sì, proprio quella fiera. Parecchi anni fa».
«C’era anche tuo padre a quella fiera».
«Già. C’era ancora».
«Era bello no?» disse con la voce rotta dal pianto. Le lacrime che cominciavano a sgorgare.
«Non piangere … non c’è nulla da … ».
«Lo so» affermò stoppandomi «ma non riesco proprio a farne a meno quando parlo di lui. Mi spiace». Il mascara si riversava sulle candide guancie di mia madre conferendole un’espressione triste e poco incline al dialogo. Sembrava che il pianto fosse il suo unico modo di comunicare, in quel determinato momento I miei occhi scuri fissavano la scena da un punto di vista quasi esterno, come se io fossi stato sempre estraneo ai fatti. Probabilmente sbagliavo, e della grossa anche.
«Dimmi la verità» la incitai toccandomi i capelli «l’enigma non c’entrava nulla con quello che devi dirmi, non è vero?».
Stette un attimo in silenzio. «E’ questa la sfortuna di avere un figlio detective» fece sorridendo tra le angosciose lacrime. «Non gli puoi nascondere nulla» aggiunse.
«E allora di cosa si tratta? Ne possiamo parlare domattina? Sai, sono stanco dopo l’agguato e … ».
«No. Ho aspettato fin troppo. Il fardello è troppo pesante ormai».
Più andavamo avanti nella conversazione e più non capivo cosa stesse succedendo. 
«Facciamola breve» le dissi guardandola con diffidenza. «Sono le due passate. Domani io e Flavio dobbiamo occuparci di nuovi casi e … ».
«Riguarda tuo padre».
Il silenzio non era assordante, era praticamente fuori da ogni controllo sonoro e perdonate l’iperbole.
«Papà?».
«Già».
«Che cosa c’è? Hai trovato qualche lettera? Vuoi mostrarmela?».
«Non è nulla di tutto questo».
«E allora cos’è? Dai, che è tardi. Sinceramente … sono stanco mamma».
«Hai mai sentito parlare del Fuoco Re?».
«Fuoco Re … » ripetei tra me e me. Ebbi un flashback improvviso. Ecco dove l’avevo sentito! A bordo della “Karen”! Sì,Elisabetta Criota poco prima di saltare in aria aveva parlato di quel clan mafioso per il quale lavorava.
«Allora? Non ti dice nulla?» chiese tra il pianto e il tragico.
«Sì … in uno dei miei casi … ho avuto l’impressione di sentirlo. Era quello della nave … la ragazza lavorava per loro e … ».
«E tu cosa sai della morte di papà?».
Rimasi attonito. «Come cosa so? Quello che mi dici da cinque anni a questa parte. E’ morto per un incidente stradale mentre era fuori per lavoro e … ».
Scosse il capo con gli occhi bassi.
«Come … no?» chiesi interrogativo.
«No» disse asciugandosi le lacrime. «Tuo padre era amico di Marbelli, ricordi? Erano amici di infanzia».
«Sì, come no? Lo ricordo eccome».
«E sai anche che papà lo aiutò parecchie volte nei casi dove poteva, giusto?».
«Sì, ma dove vuoi arrivare?» chiesi spazientito.
«Lo aiutò anche in un caso dove era coinvolto il Fuoco Re».
«E … e allora?».
«Papà, non è mai … » voleva parlare, ma il pianto aveva la meglio.
«Parla!» la incitai duramente.
«Papà non è mai partito per lavoro. Fu catturato dal clan e fatto prigioniero. Volevano estorcergli  informazioni sulle operazioni di polizia. Erano convinti che tuo padre fosse un pezzo grosso e che avesse dei contatti con i piani alti della polizia e invece … ».
Non reagivo più ormai. Ero morto.
«Fu fatto prigioniero e ucciso a colpi di arma da fuoco» continuò balbettando a causa del pianto e dell’emozione. Il suo mento tremava e i suoi occhi erano ormai avvolti da un increscioso e ininterrotto pianto. «Il suo corpo fu ritrovato in un bunker sotterraneo, sette giorni dopo la sua cattura».
I miei occhi erano sgranati a fissare intensamente la figura di mia madre, quella piccola e minuta donna, che con le sue parole mi stava torturando l’anima.
«Nemmeno Stefano sapeva nulla» continuò prendendo un fazzoletto «fino ad una settimana fa. L’ho detto a lui e ho deciso di dirlo anche a te, così che tu possa … ».
«Ma così che io possa, cosa?! Che cosa?!» dissi rizzandomi in piedi e scattando come una furia.
«Non fare così, ti prego … » la voce di mia madre era inevitabilmente aggregata al pianto che le contorceva i sensi.
«Dovrei fare anche di peggio, dannazione!» e così dicendo diedi un pugno fortissimo contro il vetro della porta – finestra. Corsi il rischio di frantumare i vetri e di rompermi la mano sinistra. 
«Ma ti rendi conto?» continuai imperterrito «tu hai tenuto nascosto la verità per cinque anni? Come cavolo hai fatto? Come hai potuto farlo, mamma? Come?!». Ero completamente fuori di me. Urlavo come un forsennato e cominciava ad arrivare qualche lamentela da parte dei vicini. Ma non me ne importava. 
«Stai zitto, ti prego. Fai silenzio, ti scongiuro» mi implorò a voce bassa.
«Silenzio? Nemmeno per sogno! Che madre sei? Che madre sei?!». 
«Non te l’ho detto per non farti soffrire, temevo che l’avresti presa male e … ».
«Ah! Per non farmi soffrire? Perché adesso cosa stai facendo? Hai notato come la sto prendendo? Quindi mi hai tenuto nascosta la verità per tutti questi anni? Hai preferito fare i tuoi interessi, nonostante vedessi che noi soffrissimo più di chiunque altro per la morte di papà?! Rispondi! Non piangere, perché le tue sono solo false lacrime!». La mia voce si era alzata all’inverosimile, la fronte era corrucciata, gli occhi gridavano vendetta e c’era una grandissima tensione nell’aria che dava alla situazione uno stato di irrequietezza.
«Cosa dovevo dirti? Eh? Che tuo padre era stato rapito e che il suo corpo è stato ritrovato solo grazie ad una telefonata anonima? E’ questo che dovevo dirti? Come potevo farlo? Avevi solo tredici anni, eri un bambino».
«Un bambino rimasto orfano di padre! Un bambino al quale hai fatto credere per cinque anni una cosa ben delineata e al quale poi riveli una verità incredibilmente assurda, ma tragicamente reale! Ti rendi conto cosa diavolo hai fatto?».
«Lo so, ma sono pentita» affermava con le lacrime agli occhi, il mascara sul volto che le si era spalmato. «Ti prego, perdonami! Perdonami, figliolo!». Si attaccò ad un braccio, ma la scansai e andando in camera, cominciai a correre a perdifiato verso il piano inferiore. Mia madre mi inseguiva chiedendomi di fermarmi. Sulla soglia della porta incontrai Flavio.
«Che succede? Cosa …?».
«Sta zitto e dammi le chiavi» gli dissi strappandogliele dalle mani.
«Ehi! Federica, ma che succede?» domandò disturbato e incredulo.
«Te lo spiego dopo» sussurrò mia madre tra le lacrime. «Alex! Dove vai? Non andare via! Alex!».
Presi la macchina e corsi come un forsennato. Non mi interessava nemmeno di chi fosse quell’auto. Mi serviva un mezzo per andarmene il più lontano possibile. Perché quando sei in queste circostanze puoi fare due cose. O sfoghi la tua rabbia prendendotela con tutti non sapendo come andrà a finire, oppure te ne vai e pensi a quello che hai sentito in quel momento, magari tiri qualche pugno all’aria, come se dovessi andare su un ring facendotelo passare. Io avevo optato per la seconda scelta, altrimenti non credo avrei mai più avuto la forza di guardarmi allo specchio. Sarei diventato un vile.
Non riuscivo a credere a ciò che mia madre mi aveva detto. Ora piangevo anch’io, ma le mie non erano lacrime di disperazione, o magari di pentimento del mio comportamento, ma solo di rabbia, di frustrazione, di enorme forza interiore che all’improvviso si sprigiona a causa di una circostanza spiacevole. Che schifo. 
Andavo con la macchina di Flavio a una velocità del tutto superiore a quella che era consentito ad un essere umano. Per fortuna era notte fonda e non incontrai nessuno sulla mia strada. Sembrava quasi una maledizione, la mia vita. Ogni qual volta che cercavo di dimenticare le cose brutte del passato, esse ritornavano come in una fastidiosissima strofa di una canzone melensa. Ora però era stato davvero troppo. Per cinque anni avevo creduto invano a determinate cose e adesso mi ritrovavo stravolto, con una verità differente da quella che conoscevo. 
E dove sarei andato? Guidavo, acceleravo, cambiavo marce, ma onestamente, senza cadere in classicismi, non avevo una mia destinazione. Mi serviva una grande emozione per scacciarne un’altra ancor più grande e impetuosa. Forse sarei dovuto andare al cimitero, anche se per fortuna non avevo nessuno lì. O magari sarei potuto andare in un bar, a farmi di caffè fino a non dormire più per tre giorni di seguito. Chi può dirlo? Non sapevo quale sarebbe stata la mia destinazione. 


CAPITOLO VII – Il discorso della madre


«Mi spieghi cosa è successo?». Flavio si era lasciato andare sulla poltroncina bianca che troneggiava in salotto e aveva assunto un’aria pensierosa. Non aveva mai visto Alex, ragazzo a suo avviso calmo, tranquillo e razionale, così arrabbiato. Doveva per forza esserci un motivo serio. Doveva esserci. Altrimenti non si sarebbe spiegato nulla.
Dal canto proprio, Federica era stravolta a trecentosessanta gradi. Il mascara le si era spalmato sul viso sbavandosi agli angoli degli occhi e facendole assumere una espressione tragica e al tempo stesso compassionevole.
«E’ che … » ma la donna non riuscì a completare la frase. Era seduta sul divano con entrambi i piedi su di esso, raggomitolata, quasi a proteggersi dal mondo e non aveva la minima intenzione di pensare a ciò che era appena successo. Come spesso accade però, la psiche è nettamente più forte della persona stessa. E allora si pensa a qualcosa di spiacevole, anche se non volessimo farlo.
Sul posto intanto erano accorsi Bianca, Andrea e Fabio. La ragazza era tornata da casa di Barbara, accompagnata dal padre di quest’ultima, mentre le grida dei protagonisti di quella triste tragedia avevano svegliato il figlio più piccolo di Federica. In quanto al ragazzo, pochi secondi dopo l’uscita di Alex, era rientrato dalla sua serata con Martina.
«Mamma, cosa succede?» disse con fare assonnato Andrea. Non era a conoscenza ancora di nulla.
«Piccolo mio, non è successo nulla … » disse ancora con le lacrime agli occhi.
«Ma allora perché stai piangendo?».
«Ho … ho visto in film d’amore. Sai com’è la mamma, si commuove sempre. Non è vero Flavio? Ti sei commosso anche tu, non è vero?» gli chiese cercando di farlo mentire. Pregava che l’uomo capisse i suoi segnali.
Flavio, preso di sorpresa, sorrise con fare malizioso e rispose:
«Eh … certo! Io sono un sentimentale! Di fronte ai film drammatici, non mi tiro certo indietro!».
Il detective fece segno a Fabio di portare il bambino fuori dalla stanza. Aveva intuito che qualcosa non andasse e aveva intuito che la verità non poteva essere messa sul piatto d’argento per servirla a Andrea. Bianca trasalì. Era tornata da pochi minuti e si era trovata una situazione a dir poco spiacevole in casa. Pur senza sapere nulla, anche il più stupido degli uomini avrebbe compreso che qualcosa era andato storto, quella sera.
Uscito Andrea dalla stanza, Flavio Moggelli si passò una mano sulle folte sopracciglia e con la fronte corrucciata, cominciò a parlare.
«Federica, non sono fatti miei, ma raramente ho visto Alex in quelle condizioni … cosa succede?».
La donna prese fiato.
«Sai Flavio» iniziò col pianto in gola «ci sono cose di me che non vi ho ancora detto». Bianca si accomodò alla sinistra della donna. Era incuriosita e al tempo stesso intimorita da una cosa che avrebbe potuto renderla volubile e nervosa allo stesso tempo.
«Allora?» chiese Flavio dopo un po’ di pausa. Cercava di rimanere impassibile alle lacrime della donna, ma sapeva che prima o poi sarebbe crollato e che il suo cuore avrebbe dato ordine al cervello di mollare la presa e di farsi travolgere dalle emozioni.
«Il padre di Alex, mio marito è tragicamente morto qualche anno fa».
«Sì, Alex aveva accennato qualcosa. Accidenti, mi dispiace molto. Immagino che sia stato un grandissimo dolore».
«Puoi dirlo forte. Ma il modo in cui fu ucciso ha lacerato qualcosa che non potrà mai più essere rimarginato».
«Cosa … ?».
«Mio marito è una vittima della criminalità organizzata. Non so se hai mai sentito parlare del Fuoco Re. Nei tg nazionali spadroneggiano le loro varie azioni illegali».
Alla parola “Fuoco Re”, Flavio Moggelli rabbrividii. Quel nome gli aveva provocato già troppi dolori. Aveva toccato quella gente, vissuto con quella gente, studiato quella gente e le aveva sonoramente prese da quella gente. Versate le lacrime più amare, solo ed esclusivamente per quella gente. Era difficile per lui imbastire un discorso a proposito di questo. Flavio considerava il Fuoco Re come un avversario, come un obbiettivo e come un qualcosa di innominabile. Era quasi come se gli fosse rimasta la paura di quei terribili giorni vissuti quando Bianca e Fabio erano troppo piccoli per capire tutto.
«Flavio, ti senti bene? Sei diventato pallido all’improvviso» chiese di premura Federica.
«S-sì … un piccolo giramento di testa. Dicevi?».
«Gianni era intimo amico del commissario della nostra città, Marbelli. Ed è capitato molteplici volte che fu invischiato in piccole operazioni di collaborazione con le forze dell’ordine. Be’ cinque anni fa, Marbelli, come ogni commissario che si rispetti, decise di effettuare un blitz contro il clan per agguantarli e magari ristabilire la pace. Fu un’operazione di quelle che si fanno in polizia contro il Fuoco Re. Lo sai meglio di me, no? Ogni tanto c’è qualche commissariato che si prende la responsabilità di provare ad effettuare qualche blitz. Comunque,» continuò mentre si asciugava il fiume di lacrime che le sgorgava dagli occhi «Gianni si offrì volontario per quella operazione. Marbelli non voleva partecipasse ma … » si fermò un attimo per soffocare l’impulso di piangere «lui si intestardì. Ricordo ancora quella sera. Tornò dopo otto ore di lavoro e decise di andare in commissariato. Gli raccomandai di fare attenzione. Il risultato fu che mio marito sparì e nessuno ebbe più sue notizie … per almeno una settimana».
Lo sguardo di Flavio Moggelli si era fossilizzato in quello di Federica Dolbi, in Fedele. Bianca guardava in basso. Suo padre aveva assistito a tante cose nella sua carriera, Aveva conosciuto il dolore, si era rialzato dalla terra fangosa ed era risalito a più alti livelli solo per mandare avanti la baracca. Ma lei non sapeva fino a quando avrebbe potuto resistere e controllare la sua stessa forza interiore. Intuiva che qualcosa non andasse, ma non osava chiedersi cosa fosse.
«E cosa accadde?» chiese timorosa in un barlume di coraggio. 
«Una settimana dopo … uno sconosciuto chiamò da una cabina telefonica dicendo di aver trovato un cadavere in una buca sotterranea».
«Non dirmi che … » Flavio si era alzato di scatto, come a simulare una fuga.
Federica scosse la testa in segno di assenso.
«Oh mio Dio … è terribile …» riuscì a dire l’uomo passandosi una mano tra i capelli. Ora le vene situate sulle tempie pulsavano più veloci del normale e il battito cardiaco aveva assunto la frequenza di un’orchestra rock.
«Ma non è questa la parte peggiore della storia» disse singhiozzando «il fatto è che ho fatto credere ai miei figli un’altra cosa per cinque lunghissimi anni. La scorsa settimana ho rivelato la verità a Stefano, ma l’ha presa meglio. Ha pianto, ma non mi ha attaccato. E credevo non lo avesse fatto nemmeno Alex. Invece … mi ha fatto diventare piccola piccola» concluse emettendo un piccolo gemito di disperazione alla fine. «Ed ora» riprese  a parlare tentando di mantenere la calma «non vuole più vedermi».
«Non fare così Federica, sono sicuro che tornerà presto, non … ».
«No, non tornerà!» gridò quest’ultima. «Me lo sento, non lo farà. Alex ha un carattere diverso da suo fratello».
Sia Bianca che Flavio non avevano parole. Fabio, rimasto sulla soglia della porta che comunicava il salone al corridoio, si passava una mano sul volto quasi in segno di resa all’inevitabile.
«E ora dov’è andato?» chiese Bianca commossa.
«Non ne ho idea … ha solo detto di non volermi più vedere». Federica aveva le lacrime che le asfaltavano completamente il viso. Nascondeva il viso in un cuscino e lo colpiva con dei piccoli pugni quanto bastasse a far comprendere appieno la sua attestata disperazione.
Mentre Flavio cercava di consolare invano Federica si sentiva partecipe del suo dolore, anche vivendolo da un punto di vista esterno. I suoi occhi erano nel problema, il suo cuore e la sua mente anche. Non c’era nulla che non lo rappresentasse in quella spiacevole situazione. Era stato come riavvolgere il nastro. Un destino beffardo al quale non si crede mai, ma che è sempre pronto a darti una lezione. Anche lui aveva nascosto e nascondeva ancora delle verità nude e crude ai figli. Forse per paura del loro giudizio o forse solo per non metterli davanti alle cose così, in giovane età. Fatto sta che aveva tenuto nascosto il vero motivo della morte di sua moglie per anni e che c’era ancora qualcosa che lo tormentava e che non aveva ancora rivelato. Lo faceva perché non avrebbe mai sopportato che i suoi figli fossero consci del dolore che lui stesso aveva e continuava a provare. Si era scottato lui, non voleva che lo facessero anche i suoi figli e per questo non li aveva detto tutta la verità. Ma non capiva che così si sarebbero scottati ancor di più.
Bianca dal canto suo se ne stava immobile, con lo sguardo nel vuoto, con i capelli che le cadevano sui profondi occhi neri. Le labbra carnose erano immobili, quasi in attesa di un piccolo giudizio da parte di una qualsivoglia autorità superiore. Ragionava. Alex se n’era andato in preda alla rabbia e alla frustrazione. Lei lo conosceva già bene, anche se era relativamente poco tempo che i due si erano conosciuti. Era a Torino relativamente da poco. Quale posto avrebbe per lui significato qualcosa di importante? Ripensava ai vari casi e ad un tratto si alzò. Scostò i lucidi e castani capelli dalla fronte e impugnò il casco che il giorno prima aveva lasciato sul divanetto e che non era mai stato messo a posto. Suo padre le domandò cosa stesse succedendo, ma lei non rispose. Voleva salvare un’anima. Aveva capito come si era sentito Alex, ci era già passata anche lei e probabilmente doveva ancora passarci. 
Uscì di corsa di casa e in un battibaleno, nonostante i numerosi richiami da parte di suo padre, era sullo scooter, uno Scarabeo 500 di colore rosa chiaro, quasi pastello.
Il vento le scompigliava le poche ciocche di capelli rimasti all’infuori del casco, ma non le importava. Aveva capito quale fosse l’unico posto che fino a quel momento Alex considerava importante. Ci aveva quasi rimesso le penne.


CAPITOLO VIII – Lacrime al cantiere


Non era cambiato poi così tanto quel cantiere. Era passato relativamente poco tempo, ma sentii al telegiornale cittadino che erano iniziati dei lavori per chiuderlo e invece … che fortuna. Trovato il parcheggio, mi sedetti su una cassa d’acqua abbandonata. Chissà da quanto tempo era lì. Era polverosa e ammaccata. Ma faceva ancora bene un lavoro, quello di seduta. Fatto sta che il cantiere era rimasto ancora lo stesso e i lavori di chiusura, erano andati a farsi fottere.
Guardai il cielo. Buio, nemmeno una stella. Se non fosse stato per il lampione a intermittenza che padroneggiava la strada e le poche luci lasciate accese dagli abitanti insonni dei condomini affianco, sarei stato nell’oscurità più totale.
Non riuscivo a credere a ciò che mia madre mi aveva detto. Avevo sempre creduto che mio padre fosse stato vittima di un incidente stradale. Mi raccontarono che in un impatto con un maledettissimo camion, morì sul colpo. E invece … 
«Sei qui allora». Nell’oscurità, una voce femminile, del tutto familiare, mi fece sobbalzare quanto bastava per avere un infarto. Mi girai di scatto e  impugnai impulsivamente un’asta di ferro che era a terra probabilmente come residuo dei lavori che erano iniziati clandestinamente qualche anno prima.
«Calma, calma … sono io» disse avvicinandosi e porgendomi la mano.
«Bianca?».
«Sapevo saresti venuto qui. E’ qui che hai rischiato la vita contro Turbotti, ricordi?».
Non risposi. Mi sedetti di nuovo. Lei si accomodò a fianco, su un cassone di legno rovinato e logorato dagli anni. Sembravamo due veterani, due reduci del Vietnam, e avevamo sogni, disperazioni e follie nei nostri zainetti invisibili. Sì, i nostri zaini immaginari erano pieni di sogni, di speranze e c’era anche un po’ di autoironia, perché senza quella non si va lontano.
«Sai, lo so come ti senti» iniziò cercando di essere seria, senza condizionamenti. Quando si avvicinò cercò di nascondere le lacrime, ma notai, grazie al riflesso nei suoi occhi provocati dal lampione, un pizzico di tristezza.
Non risposi ancora.
«Per arrivare qui ho consumato dieci euro di benzina, ascoltami almeno» disse sorridendo.
«Ti ascolto. Ti sto ascoltando».
«Tua madre … ».
«Alt! Se sei venuta qui a parlarmi di lei … puoi anche andar via, Bianca».
«Ok, vuoi parlare di tuo padre?».
«Cosa vuoi dire?».
«Voglio dire … l’amore può essere anche eterno. Come ad esempio quello tra tuo padre e tua madre, o magari quello tra i miei» fece una pausa di pochi secondi. «O magari quello tra tua madre e te».
«Quello è momentaneamente fuori servizio».
«Non vuoi bene a tua madre?» mi chiese continuando a sorridere.
«Ma sì che le voglio bene! Sono arrabbiato ok? Sono furioso. Nascondermi la verità su … ».
«Ma perché? Perché voi detective siete alla ricerca della verità?Perchè la volete anche quando vi fa male? Ci godete? E’ una sorta di discorso masochistico o cosa?».
«Ma fammi capire» dissi guardandola con stupore «che discorsi fai? Una donna mi nasconde … ».
«Non è una donna qualsiasi, è tua madre!».
«E’ mia madre, ma mi ha nascosto delle cose che non possono essere nascoste! Vuoi capirlo sì o no?».
«E cosa vuoi fare? Cessare i rapporti con lei a diciotto anni? Cosa? Dimmelo! Cosa dovrei fare io con mio padre? Anche a me ha tenuto nascosto delle cose e continua a tenerne altre nascoste., ma non per questo non ci parlo più. A volte penso che lo faccia per proteggermi, ma io penso che un giorno mi rivelerà tutto».
«E’ un modo diverso di reagire, ok? Sei contenta? Sei venuta a farmi la morale? Sei venuta per … ».
«Ehi, ma lo sai che c’è?» disse alzandosi di botto «i problemi sono tuoi, la vita è tua. Mi sono fatta trenta minuti di motorino per venirti a prendere e riportarti a casa e ottengo questo? Ma che razza di carattere hai?» fece rabbiosa. Mi spintonò, come solo una donna che ti vuol bene sa fare.
Si girò di scatto e se ne andò. Ma quando si allontanò abbastanza, sussurrai abbastanza forte per essere sentito.
«Mi dispiace».
Si voltò lentamente. Mi guardò con occhi caritatevoli, si avvicinò di nuovo e mi carezzò la guancia.
«Alex, l’ha fatto solo per non farti soffrire».
«Col risultato … ».
«Col risultato di farti soffrire di più, lo so bene. Ma non puoi prenderla così, capisci? Dai … ». Mi diede un buffetto sulla tempia, quasi a volermi schernire. La abbracciai forte quella sera. Il suo petto contro il mio, il suo profumo che mi allietava l’olfatto, i suoi capelli che mi davano tranquillità.
Guardavamo il cielo entrambi con gli occhi pieni di lacrime. Chissà mio padre come si stava appassionando. Si dice che la vecchiaia equivale a saggezza. Per esperienza personale, non condivido. Quella avuta da Bianca era stata la lezione di vita più straordinaria e stupefacente della mia vita. E me ne accorsi quando tentai di parlarle. La bocca non era più collegata al cervello. La mia vita però aveva una priorità adesso. Fuoco Re.


ANTICIPAZIONE EPISODIO 29: Qual'è la cosa più difficile da fare quando si ha subìto un torto? Perdonare, esatto. Tra casi coinvolgenti, sentimenti contrastanti, relazioni trapiantate e forza di ricominciare, chi avrà mai la forza di concedere ... il perdono? ALEX FEDELE EPISODIO 29: IL PERDONO. Solo qui a partire dal 3/03/2012 NON PERDETELO PER NESSUNA RAGIONE!

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